Bastano un paio di frasi per farci venire l’acquolina estetica in bocca. “Nessuno come lui, uno dei massimi prosatori spagnoli dell’ultimo secolo, ha distrutto gli argomenti consueti per proporre un approccio indipendente da ogni pregiudizio, eccentrico”; “La sua immensa cultura, i suoi poliedrici interessi, il carattere iconoclasta e provocatorio, la sua prosa scintillante lo hanno reso un riferimento indiscusso per capire la complessità del mondo”. Chi scrive è José Andrés Rojo, firma di El Pais, incaricato di onorare come si deve (leggete qui) i 90 anni di uno dei titanici scrittori viventi di Spagna, già Premio Cervantes (il massimo riconoscimento letterario ispanico: è andato, a chi garbano le classifiche, ai Jorge Luis Borges, Octavio Paz, Mario Vargas Llosa, Alvaro Mutis…), già pluririconosciuto eroe della prosa contemporanea. Lui si chiama Rafael Sánchez Ferlosio e se non volete credere al patriottico giornalista, date credito a Wikipedia, “è considerato il più dotato esponente della narrativa spagnola di fine secolo”. Nato a Roma – incidentalmente – nel 1927, Ferlosio ha un esordio precocissimo, nel 1951, con Imprese e vagabondaggi di Alfanhuì, “vivevo ancora con i miei, non ricordo quanti anni avessi. Lo leggevo ai miei genitori e mia madre ha pagato per farmelo stampare. 13mila pesetas per 1500 copie. Un affare. Fui fortunato. Camilo José Cela fu colpito dal linguaggio del libro, scrisse un’ottima recensione, questo mi diede una spinta fantastica”. Meravigliosamente antipatico, Ferlosio disprezza la patria (“Il patriottismo è claustrofobico”), schifa la televisione (“come tutti i vecchi, la guardo. E mi pare orribile. Quella spagnola, poi, è la più orrenda. Un patente fallimento, la terribile esasperazione della pubblicità. La televisione ha trovato la pubblicità ed è nato il pane. Orribile, orribile, orribile. Essere uno strumento della pubblicità e avere così tanta pubblicità”), odia il chiacchiericcio sulla Catalogna (“un argomento imposto. Non capisco nulla. Sono tutti ossessionati, un giorno dicono una cosa, il giorno dopo un’altra; poi dicono lo stesso e poi il contrario”), mal sopporta Vargas Llosa (“fa ridere, e scrive male”), sculaccia José Ortega y Gasset (“Ortega è un uomo di talento. Che ha scritto un mucchio di sciocchezze”), disprezza la letteratura vigente e si bea soltanto con la nipote, “non voglio incontrare altri: è intelligente, studiosa, adorabile”. Ovviamente, come tutti gli egotisti, Ferlosio litiga aspramente con se stesso: “non sono d’accordo con tutto quello che ho scritto nella mia vita, anzi…”. La cosa fenomenale è che questo fenomeno della letteratura spagnola, autore di testi “fondamentali per chi studi letteratura spagnola all’Università”, è pressoché sconosciuto in Italia. A pubblicarlo, il piccolo, tenace editore di Torino, Robin, che dopo Elogio del lupo (2013), ha pubblicato, quest’anno, il primo libro, ormai un ‘classico’, Imprese e vagabondaggi di Alfanhuì e l’antologia saggistica Carattere e destino. Ma sono molti i libri di Ferlosio, da El Jarama (1955) a God & Gun. Apuntes de polemologia (2008), degni di traduzione. C’è poi la storia autobiografica di Ferlosio da denunciare. Lo scrittore spagnolo, figura iconica ed eccentrica, è il figlio di Rafael Sánchez Mazas, intellettuale, parente per via materna con Miguel de Unamuno, sodale di José Antonio Primo de Rivera, ideologo della ‘Falange spagnola’, ministro sotto Francisco Franco, ma da cui si distacca, nel 1940, per divergenti visioni politiche. Da Rafael, che fu poeta e scrittore, nacque una genia di prodigi: il cantautore Chico Sánchez Ferlosio, il matematico Miguel Sánchez Ferlosio, e lo scrittore più corrosivo del reame spagnolo.