
Guido Ceronetti, “il re della giungla”. Dialogo con Alberto Castaldini
Dialoghi
Tommaso Scarponi
Appena Clarice Lispector imparò a leggere e a scrivere, cominciò a divorare libri. Pensava al libro come a un albero, una bestia, una cosa che nasce. Non sapeva cosa significasse la parola autore. Per lei, come accade per la poesia nelle culture antiche, la scrittura non apparteneva a nessuno. Col tempo, Clarice scoprì il senso della parola autore. Poi scoprì la cosa definitiva: anch’io voglio diventare un autore.
*
Clarice Lispector (1925-1977) è nata per scrivere. Si diceva inquieta, irrequieta, gelosa, ruvida, disperata. Un evento su tutti. Da bambina, a Recife, in Brasile, scendeva le scale, sostava all’ingresso della casa. I bambini le chiedevano di andare a giocare. Ricorda: “Ho avuto tutto, più di quanto sapessi, il terreno adatto da cui è sorta ogni storia”. Le loro storie, le loro geografie.
*
Stava sempre sulla soglia. Era nata nel 1920 in Ucraina, nel paese di Cecel’nyk, che non figurava neanche nelle carte. Qualcuno l’ha detta straniera sulla terra. Come accade per Jorge Luis Borges – cosmopolita e nazionale al tempo stesso – il fatto di essere di ‘nessun luogo’ ha consentito a Clarice Lispector di scrivere priva di legami, facendo dell’estraneità il tema della propria opera. La libertà non ha sintonia con la geografia.
*
La poetessa Elizabeth Bishop disse di lei: “Credo che sia più grande di Borges”. Il leggendario traduttore nordamericano Gregory Rabassa la paragonò a una Marlene Dietrich che scrive come Virginia Woolf. Il libro Clarice, una vida que se cuenta (Adriana Hidalgo, 2020), della studiosa brasiliana Nádia Battella Gotlib, ritrae vita e vertigine di Clarice.
*
Per prima cosa furono i racconti. Clarice li inviò alla sezione domenicale di un giornale per ragazzi di Recife. Non è mai stata selezionata. Ha avuto un’infanzia senza nulla. “Chi non ha mai rubato non può capirmi. Chi non ha mai rubato rose non potrà mai capirmi; da bambina, rubavo le rose”. E poi, vedendo un bimbo piagato dalla fame: “Come ho divorato, famelica, il piacere della rivolta”.
*
Nella rubrica che scriveva sul “Jornal do Brasil” (1967-1973) ricorda di quando, da piccola, vede a casa di una bambina Reinações de Narizinho, un classico della letteratura d’infanzia. “Era un libro spesso. Mio Dio, un libro: sognavo di vive con lui, di mangiarlo, di dormire con lui, ma questo era del tutto al di fuori delle mie possibilità”. La bambina le dice di passare da casa il giorno dopo, dice che le avrebbe prestato il libro. Clarice corre da lei, il giorno dopo. Ore non vissute, dissipate, “che galleggiano in un mare dolce”. Eppure, la bambina non la invita a entrare. La fissa, ferma sulla soglia della porta, le dice di passare il giorno dopo. Il giorno dopo le avrebbe dato il libro. Clarice torna il giorno dopo. Riceve la stessa risposta. E poi ancora una volta. E un’altra volta. Un giorno, sulla porta di casa, Clarice trova la madre della bambina. Sfidando la figlia, la donna presta il libro a Clarice. A casa, Clarice non inizia a leggere il libro. Finge di non averlo, per godere del sussulto della scoperta. “Non ero una ragazza con un libro: ero una donna con il suo amante”. Per Clarice ogni felicità fu clandestina.
Daniel Mecca
*L’articolo è pubblicato su “Clarín” come “Clarice Lispector, la escritore que devoraba libros y robaba rosas”
**In copertina: Clirice Lispector; in Italia è pubblicata da Adelphi e Feltrinelli