Il 15 giugno del 1964, Alessandro Spina ricalca per Cristina Campo un frammento da La svolta, il romanzo autobiografico di Klaus Mann. “Conosceva già questo racconto?”. La Campo non si fa sentire da marzo – “Da molto tempo, dal mio ritorno, non ho più sue notizie…” –: i suoi carteggi, come sempre, seguono la trama dell’incanto e del capriccio, procedono per brevi spiragli, per strazi, per esagoni di vuoto.
Il testo ricalcato da Spina – il libro è tradotto da Barbara Allason per il Saggiatore, nel 1962 – è questo:
“Non è facile essere il figlio d’un genio. Il figlio maggiore di Hugo von Hofmannsthal, Franz, si sparò nel capo. Non molto prima il padre aveva avuto in un sogno un incubo che raccontò ai suoi a colazione, senza che questi avvertissero tutto il tragico di quella situazione sognata. Si trattava di un cappello, il cappello che Hofmannsthal si poneva in capo ogni giorno uscendo, e che sempre se ne stava innocuo sul suo uncino in anticamera. Ma ecco che mentre il poeta aveva voluto sollevarlo per metterselo in testa, il fido copricapo si era sottratto al suo piglio. Non che fosse appeso più alto del solito o che l’uomo fosse rimpicciolito; semplicemente il copricapo non si lasciava prendere. L’uomo, colto da un’ansia mortale saltava, balzava, tendeva le braccia; il cappello gli sfuggiva. Il mattino della sepoltura, quando il poeta, che si apprestava a seguire la bara del figlio, tese il braccio per prendere il suo cilindro, non riuscì ad afferrarlo. Il cappello gli sfuggiva. Egli fece un gemito, vacillò, cadde, morì. Un ictus al cervello! Certo una tragedia nel grande stile dell’antichità. Hugo von Hofmannsthal fu ucciso dal suo sogno e dal suo dolore. Forse morì perché dietro al cappello che gli sfuggiva aveva scorto qualcos’altro. Un ammonimento. La scritta sul muro…”.
Spina, in realtà, agisce per codice alchemico. Il suo legame con Cristina Campo – edito da Morcelliana nel 2007, il loro Carteggio è ormai introvabile, peccato – nasce all’ombra di Hugo von Hofmannsthal. Nella prima lettera che la Campo scrive a Spina, sbalordita dalla lettura di “un suo racconto intitolato Giugno ’40”, avvicina quel testo a “un concertato dal Cavaliere della Rosa”. Il libretto di Hofmannsthal era stato tradotto da Tommaso Landolfi per Vallecchi due anni prima. La Campo insinua Hofmannsthal a forza tra i lari di Spina, che il 28 gennaio del 1962, rapito, le scrive: “Ho letto Hofmannsthal in aereo. Tre volte la lettera di Lord Chandos – bellissima”. Nel 1964, mentre latita a scrivere a Spina, la Campo traduce proprio alcune poesie di Hofmannsthal per la rivista “Elsinore”, ecco un paio di quartine:
“Di popoli del tutto scomparsi le fatiche dalle mie palpebre io non posso levare, né deviare dall’anima atterrita muto cadere di lontani pianeti.
Molte sorti s’intessono presso la mia, l’una nell’altra tutte l’esistenza le giuoca, e il mio retaggio è più che di questa vita la fiamma snella o la cetra sottile”.
Il punto, tuttavia, è il testo di Klaus Mann, che racconta la morte di Hugo von Hofmannsthal. Il figlio del grande poeta, Franz, si ammazza, a 27 anni. Il giorno del suo funerale, mentre sta per afferrare il cappello, pronto a uscire di casa, Hugo von Hofmannsthal muore, colto da emorragia cerebrale. Sembra una scena pirandelliana: il poeta cristallino, giunto a rappresentare un mondo, un credo, una postura poetica, si infrange, letteralmente, si sbriciola, crolla.
Evidentemente, l’episodio maturò nel cuore di Alessandro Spina, che in un articolo dedicato a Hofmannsthal – e raccolto in Elogio dell’inattuale, Morcelliana, 2013, irreperibile come tutti i libri di questo scrittore anomalo e geniale – vi ritorna, riferendosi a Ricordi di Hofmannsthal, un libro di Carl Jacob Burckhardt. Delle lettere inviate dal poeta a Burckhardt, quella relativa alla morte del figlio è di gelida severità:
“Ieri nel pomeriggio una grande sciagura si è abbattuta sulla casa di Rodaun. Durante un violento e cupo temporale il nostro povero Franz si è tolto la vita con un colpo alla tempia. La causa di questo grave fatto sta in una profondità infinita: negli abissi del carattere e del destino. Una causa esteriore non c’è stata. Avevamo fatto colazione insieme – in pace e armonia. C’è qualcosa di infinitamente triste e di infinitamente nobile nel modo in cui il ragazzo ha lasciato la vita. Non aveva mai saputo comunicare se stesso agli altri. Anche la sua dipartita è stata silenziosa… Con amicizia, suo Hofmannsthal”.
Con sfrontato rigore, commozione che si fa concretezza, la ragione del poeta ‘sistema’ la morte del figlio, la spiega; e ne scrive, di questa morte, come se già facesse parte della schiera degli episodi ‘letterari’, esangui, della scaffalatura biografica predisposta per i posteri. Eppure, la scrittura non lenisce e non guarisce: l’inchiostro è l’anfratto angelico del sangue. Così Alessandro Spina chiosa la lettera di von Hofmannsthal:
“Una lettera straziante e pudica che suscita nel lettore una sorta di stupore. È pur un padre che parla! Il figlio insanguinato, insepolto, in casa. Ma era la fine. Il giorno successivo, il 15, quello della sepoltura, il poeta disse che aveva fatto uno strano sogno: cercava di prendere dall’attaccapanni il suo cappello e non riusciva. Venne l’ora del funerale. Hofmannsthal è alla porta di casa, allunga la mano per prendere il cappello, si disse, e stramazza al suolo: la fine. Il 18, alla presenza di migliaia di persone, è sepolto accanto al figlio, nel cimitero di Kalksburg”.
Il corpo ha espresso ciò che la scrittura, trincerata in lirico pudore, non poteva. In questa vicenda, però, sono molti i dettami e i dettagli, i reflui poetici. Forse è il figlio, morto, che ha preteso di essere accompagnato nei reami neri dal padre; forse è il padre che ha sbagliato a non dare il giusto peso al sogno, profetico. In questo senso, il testo di Klaus Mann è inspiegabile senza capire cosa egli intenda per “ammonimento” e “scritta sul muro”. Basta leggere i paragrafi precedenti de La svolta. Poco prima di narrare il sogno fatale di Hofmannsthal, Klaus Mann scrive:
“Dietro la facciata ancora intatta della nostra esistenza intimamente vuota appariva il segno minaccioso. Geroglifici rosso‑sangue sull’orizzonte incupito: Mene, Mene, Tekel, Upharsin… Chi intende l’ammonimento del dio celato? Se non l’ascolti o se non ne penetri il senso, perirai. Perirai del pari se comprendi la scritta, ma non hai la forza di obbedirgli. Solo chi comprende e ha la forza di obbedirgli, sarà risparmiato”.
Klaus Mann, riferendo della “scritta, la scritta cruenta sul muro!”, si riferisce a un episodio biblico raccontato nel capitolo quinto del libro di Daniele. Nel corso di un ricco banchetto, ordito dal re Baldassàr, “apparvero le dita d’una mano d’uomo, che si misero a scrivere sull’intonaco della parete del palazzo reale”. Atterrito, il re fa chiamare astrologi, indovini, maghi perché interpretino quelle parole, eppure, nessuno “poté leggere quella scrittura”. Fu convocato Daniele, “deportato dei Giudei”, sagace nell’interpretazione dei sogni. Il profeta legge le parole incise sulla parete – Mene, Tekel, Peres (Mann riferisce dal testo masoretico) – e le spiega: “Dio ha contato il tuo regno e gli ha posto fine; Tu sei stato pesato sulle bilance e sei stato trovato insufficiente; Il tuo regno è stato diviso”. Il messaggio divino implica morte, giudizio, divisione. “In quella stessa notte Baldassàr, re dei Caldei, fu ucciso”.
Allo stesso modo, il sogno di Hofmannsthal reca la morte, la divisione dal figlio, l’impossibilità, per la poesia, di redimere, di restituire, di restaurare. Il simbolo spezzato trova nuovo sigillo: il poeta non può che realizzare il sogno, morendone.
C’è qualcosa in più. Hofmannsthal, in effetti, aveva assunto il monito biblico molti anni prima, nel 1902, l’anno della Lettera di Lord Chandos. La “paralisi dell’intimo”, l’“esistenza di una vacuità a stento immaginabile”, ascritta a un amico di Francis Bacon, che scrive nel 1603, ha tratti di implacabile profezia. La parola non può nulla, l’epopea umana è un vuoto: Lord Chandos non trova realizzazione né realtà nei testi filosofici, nei proclami scientifici, nelle relazioni sentimentali – comunque, l’ennesimo marchingegno retorico –, ma nell’ “annaffiatoio mezzo pieno, dimenticato sotto un noce”, e nel “coleottero che navigava sulla superficie liquida”:
“quell’insieme di cose da nulla mi compenetrò con la presenza dell’infinito, mi percorse con un brivido dalle radici dei capelli fino al midollo dei calcagni, tanto che avrei voluto erompere in parole e, se mai le avessi trovate, avrebbero di certo fatto scendere dal cielo i cherubini, a cui pure non credo”.
La comunione estatica con le cose e con le creature – il tarlo delle Elegie di Rilke –, la necessità del deserto e del distacco (dei grandi poeti va catalogata la crisi, autentico capolavoro: quella, ventennale, di Paul Valéry, ad esempio, analoga e opposta alla cesura di Rimbaud), una specie di balbuzie, edenico analfabetismo. La Lettera di Lord Chados va letta insieme a Cuore di tenebra di Joseph Conrad: entrambi i testi, sul paradigma miliare del Novecento, dicono il terrore del dire, un’impossibilità, il limite, scoscendere nell’abuso dell’incubo, nell’indicibile, nel silenzio.
Traboccante di dolore, dunque, Hofmannsthal esaudisce il sogno: sparisce. “Testimoniante che io fui, anche se nessuno mi ha conosciuto”, scrive il poeta nell’opera testamentaria, La Torre.
Quanto a Klaus Mann, dicendo del figlio di Hofmannsthal, dice di sé. “Non è facile essere il figlio d’un genio”. Figlio di Thomas Mann, Klaus si ammazza ingollando barbiturici a Cannes, nel maggio del 1949, vent’anni dopo la morte di Hofmannsthal, che il padre onorò con un’orazione istituzionale, tenuta, con il consueto garbo, in qualche dorata università d’America.