Quell’uomo, così cristallino da sembrare senza tempo – troppo lontano, ineffabile, levigato. Ecco. Una pantera di ceramica, frenata nell’assalto, aureo. La brutalità sottomessa al sotterfugio della forma. Hugo von Hofmannsthal è il genio dell’epoca ammazzata, in una spirale di nebbie da sembrare inaudita: la Vienna dei primi del Novecento, incrocio di personalità affascinanti e fugaci – per dire: Freud, Klimt, Broch, Canetti – che hanno segnato il tempo, certo, ma su lacca, e ci resta una perla, un mausoleo, qualcosa da ammirare.
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Ipnotizzava per talento, von Hoffmannsthal; gli riusciva tutto, il rapporto con Richard Strauss è emblema – Elettra, Il cavaliere della rosa, Arianna a Nasso. Era un conferenziere impeccabile, eppure nella Lettera di Lord Chandos, superbo apocrifo – pubblica nel 1902, secondo la fiction è inviata a Francis Bacon il 22 agosto 1603 – decreta il termine del linguaggio, l’inutile del pensare per categorie di muffa, l’avvilimento in vipera del verbo (“Ho perduto del tutto la facoltà di pensare o parlare coerentemente su qualsiasi argomento… mi divenne a poco a poco impossibile trattare un tema elevato o comune servendomi di quelle parole di cui pure tutti gli uomini usano servirsi correntemente senza pensarci. Provavo un inesplicabile disagio solo a pronunciare le parole ‘spirito’, ‘anima’ o ‘corpo’”), la potenza delle “cose mute” sul reggimento della grammatica, della ragione.
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Nei momenti dispari, in una serie di saggi straordinari (ricomposti da Aragno in La letteratura come spazio spirituale della nazione, 2019), edifica l’idea di Europa, l’acuto di una speranza, piuttosto. “L’Antichità rappresenta il nostro stesso pensiero; quel che ha forgiato l’intelletto europeo. È il fondamento assoluto della Chiesa, e impossibile da isolare dal cristianesimo; senza Platone e Aristotele non potremmo avere Agostino né Tommaso. È anche la lingua della politica, la sua sostanza spirituale, grazie al quale le sue cangianti forme, che sempre si ripropongono, possono penetrare nella nostra vita spirituale. Rappresenta il mito della nostra ragion d’essere europea, la creazione del nostro mondo spirituale, il trionfo del cosmo sul caos, che racchiude eroe e vittima, ordine e trasformazione, misura e iniziazione. Non rappresenta l’accumulo di una riserva, che rischia di invecchiare, bensì un mondo spirituale che in noi arde di vita: il nostro più autentico oriente interiore, il nostro mistero più puro e solido è manifesto. È un tutto straordinario: fiume che ci conduce e origine che fluisce sempre pura. Nulla in questo tutto che sia vecchio a tal punto da non poter rinascere domani rinnovato, colmo di giovinezza”.
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L’idea, appunto, dell’insondabile, dell’intoccato, purezza inflessibile. Tra tutti, il più segreto è Il libro degli amici, fascio di citazioni, di aforismi, dove la lingua, senza mezzi, immedicabile, è maschera d’oro. Sempre maschera. Si sente pulsare il buco nero sotto la coltre del rigore, ma si sta lì, in una beatitudine d’abisso. “Vero amore per la lingua non è possibile senza ripudio della lingua”; “Solo chi crea le cose più delicate può creare le più forti”; “Ogni nuova conoscenza determina scomposizione e reintegrazione”. Von Hofmannsthal sembra percepire che tutto è baratro, è barrito sul nulla. Ma difende la forma, lo spettacolo dell’incomunicabile, la danza senza alfabeto.
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Arrivo a von Hofmannsthal attraverso Saint-John Perse: tentò di tradurre Anabasi, decretando che “un’opera di questo genere è pressoché intraducibile”. Scrisse alcune pagine introduttive per la versione di Walter Benjamin. “Si indovina un’opera ricca di bellezza e di forza – un’opera dello spirito d’oggi, dello spirito eroico e tenero”. Aveva già scritto a Rainer Maria Rilke (“mi appare in modo certo come lei sia arrivato lontano nella sua arte, come mai prima era accaduto, e veramente abbia reso possibile l’impossibile”): mi figurai questo trio di titani – Hugo, Rainer, Saint-John Perse – ciascuno che a proprio modo pratica l’abbandono, l’inafferrabile. Preferendo una sequela oscura per eccesso di luce.
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In una conferenza, Il poeta e il nostro tempo (pubblicata nella raccolta di saggi L’ignoto che appare, Adelphi, 1991), HvH cerca di custodire le contraddizioni. Che il poeta sia vilipeso dall’era non è il “segno del tempo” ma il sigillo di un destino, inesorabile, esaudito. “È in grazia della lingua che il poeta occultamente governa un mondo i cui singoli membri possono rinnegarlo, possono aver dimenticato la sua esistenza. E tuttavia è lui che riunisce i loro pensieri o li separa, domina e regge la loro fantasia… Codesta muta magia agisce spietata come tutte le vere potenze. Tutto quello che in una lingua è scritto, e, osiamo pure dire, pensato, discende dai prodotti di quei pochi che una volta hanno avuto con quella lingua rapporti creativi… Il poeta è là dove non sembra si trovi, e si trova sempre in un luogo diverso da quello in cui lo si pensa. Stranamente egli abita nella casa del tempo, sotto la scala, là dove tutti gli debbono passare davanti, e nessuno lo nota… gli è imposto di non darsi a riconoscere, e così vive non riconosciuto sotto la scala della propria casa”. L’irriconoscenza è segno di riconoscimento: il poeta va scovato nei sottoscala. In lui rivivono i morti – “Il suo cervello è l’unico luogo dove i morti possono, per un atomo di tempo, ancora vivere, e ove essi, riotti forse in agghiacciate solitudini, accada di partecipare alla sconfinata felicità dei viventi: s’incontrarsi con tutto quello che vive” – egli “non può respingere nulla… è il luogo in cui le forze del tempo tendono a equilibrarsi”.
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In un articolo stringato e convincente (in: Elogio dell’intellettuale, Morcelliana, 2013), Alessandro Spina coglie il punto: “Dei grandi del Novecento Hugo von Hofmannsthal è quello in Italia più trascurato, forse perché estraneo al gusto della chiacchiera”. C’era – c’è – in effetti, qualcosa di duro, di inflessibile nella sua intelligenza. Spina racconta che von Hofmannsthal gli fu ‘donato’ da Cristina Campo. Spina le ricordava l’eleganza australe di HvH; lui fu colpito da alcune poesie di HvH tradotte dalla Campo. La Ballata della vita apparente comincia così:
E crescono i bambini, con i profondi occhi
che nulla sanno, crescono e poi muoiono,
ed ogni uomo va per la sua via.
E in dolci frutti mutano gli acerbi
e nella notte cadono come uccelli
e in pochi giorni giacciono corrotti.
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Al termine dell’articolo, Spina cita una lettera di HvH raccolta da Carl Jacob Burckhardt in Ricordi di Hofmannsthal (era il 1948, pubblicava Cederna, per la traduzione di Ervino Pocar), datata 14 settembre 1929. “Ieri nel pomeriggio una grande sciagura si è abbattuta sulla casa di Rodaun. Durante un violento e cupo temporale il nostro povero Franz si è tolto la vita con un colpo alla tempia. La causa di questo grave fatto sta in una profondità infinita: negli abissi del carattere e del destino. Avevamo fatto colazione insieme – in pace e armonia. C’è qualcosa di infinitamente triste e di infinitamente nobile nel modo in cui il ragazzo ha lasciato la vita. Non aveva mai saputo comunicare se stesso agli altri. Anche la sua dipartita è stata silenziosa…”. Franz era il figlio di von Hofmannsthal; il padre ne parla con distante precisione, come fosse, chessò, un quadro. Che atroce stoicismo. La chiosa di Spina narra, coi tratti del grande scrittore, la fine di HvH, a scandire un destino. “Il figlio insanguinato, insepolto, in casa. Ma era la fine. Il giorno successivo, il 15, quello della sepoltura, il poeta disse che aveva fatto uno strano sogno: cercava di prendere dall’attaccapanni il suo cappello e non ci riusciva. Venne l’ora del funerale. Hofmannsthal è alla porta di casa, allunga la mano per prendere il cappello, si disse, e stramazza al suolo: la fine. Il 18, alla presenza di migliaia di persone, è sepolto accanto al figlio, nel cimitero di Kalksburg”. La lastra d’oro su cui ha danzato HvH si spezza in tuono; la pantera di ceramica, con compostezza, si sbriciola, mostrando di ogni splendore la ferita. (d.b.)