15 Novembre 2019

“Morirò come una nuvola, bella, bianca, piena di nulla”: Charles Wright, l’Orfeo con il banjo che scoprì la poesia leggendo Pound a Sirmione

I viaggi si fanno, sempre, segugi alle ombre. Nel 1909 Ezra Pound, colmo di enigmi veneziani – a Venezia, l’anno prima, aveva stampato il suo primo libro, da A. Antonini, in cento copie, A Lume Spento – pubblica per Elkin Mathews Personae. Nello stesso anno conosce William B. Yeats, Ford Madox Ford, e Olivia Shakespear, la madre della futura moglie, Dorothy. In Personae spicca una poesia, “Blandula, Tenulla, Vagula”, che un gioco screziato può avvicinare alle profondità di Adriano (Anumula vagula, blandula), ricreate, più tardi, da Marguerite Yourcenar. La poesia è forse la più riuscita della raccolta:

Che hai a fare, anima mia, col paradiso?
Piuttosto, una volta raggiunta la libertà
Non andremo in un luogo sereno ove il sole
Lascerà filtrare su di noi fra le foglie d’ulivo
Un’aureola di luce? Se a Sirmione,
Anima, ti incontrerò, al fine della vita,
Non troveremo un promontorio consacrato
Da apostoli eterei a godimento terreno,
Non sarà il nostro culto fondato sulle onde,
Zaffiro chiare, cobalto, cianina,
Azzurri uni e trini, gli impalpabili
Specchi irrequieti dell’eterno rinnovarsi?

Anima, e se Lei ci incontrasse lì, quale favola
Di più alti cieli e corti allettanti
Potrà attrarci oltre la cima nebulosa di Riva?

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Cinquant’anni dopo, un americano che ha la stessa età di quando Pound pubblica quella poesia, 24 anni, è a Sirmione, a servire la patria nell’esercito. “Essere nell’esercito era un atto fisico, stare in Italia è un’esperienza metafisica”, ricorda quell’uomo, Charles Wright, in una intervista alla “Paris Review”, nel 1999. In quella intervista Wright racconta di essersi laureato in Storia, di aver praticato un poco la prosa, “pezzi umorali, sulla scia di Thomas Wolfe, nulla di importante”, di essere stato folgorato da Pound, “la sua poesia mi sembrava adatta alle mie inclinazioni mentali ed emotive”. Nel 1959, appunto, Charles Wright prestava servizio a Verona – più tardi, avrebbe continuato gli studi a Roma, a Padova, traducendo in inglese Eugenio Montale e Dino Campana – capitò a Sirmione. “Avevo letto una poesia che mi aveva lasciato senza fiato. Si tratta di Blandula, Tenulla, Vagula di Pound. Mi piaceva il suo suono e il fatto che descrivesse il luogo in cui ero, Sirmione, tra le rovine della presunta villa di Catullo, rendeva la cosa magica. Quel giorno comprai una edizione dei Pisan Cantos tradotti in italiano, per Guanda. Non capivo nulla, tranne i nomi dei luoghi. Pound era rientrato in Italia un anno prima, viveva sopra Merano, i suoi libri erano disponibili. Quella è stata la prima poesia che ho letto, che mi ha colpito: da allora ho cominciato a scrivere poesie”.

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Sessant’anni dopo Wright, 110 anni dopo la poesia di Pound, visito Sirmione, per la prima volta. Immagino la bellezza del paese, che ora è frastornato dai turisti, da negozi di ricordi facili e da luoghi dove si mangia. In una visione apocalittica vedo solo bocche che masticano e mani che toccano soldi. Le Grotte dove sorge la fatidica villa di Catullo conservano la vertigine romantica dei ruderi romani che affascinavano i flâneur inglesi, con il sadico gusto per la decadenza. Per fortuna, in epoca di indeciso ateismo – dove le icone sono su instagram – le chiese sono vuote: Santa Maria della Neve è una specie di bolla, di nave, silenziosa, in mezzo alla folla, il niente nella massa, evviva.

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Charles Wright è andato a Sirmione con le poesie di Pound; io ho visitato Sirmione con le poesie di Charles Wright. La croce del sud. “Flusso e riflusso del tramonto oltre Sirmione,/ voce monotona delle acque/ che ripetono da capo la loro storia come per scaricarsi// di una colpa mai scordata,/ non alleviata/ dalla costante mano del buio,// le nuvole sopra Bardolino dragano il cielo in cerca dei corpi/ di chi rifiuta di risorgere”. Poco dopo, questo poeta che ha sarchiato le divinità, che è apparentato a Wallace Stevens e si è ispirato ai classici cinesi, che cita Cioran e gli sciamani d’America, dice della “luce segreta che vide Campana”.

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Qualche anno fa cercai di intervistare Wright. Il poeta declinò l’offerta, nulla poteva blandirlo, era già stato intervistato un po’ di anni prima. Questa dedizione al pudore – un poeta fa parlare l’opera – mi sembrò più autentica dei vari premi che hanno ornato sua la vita, dal Pulitzer for Poetry (nel 1998, con Black Zodiac; ma è stato finalista per quattro volte) al Bollingen. Wright è stato il cinquantesimo Poet Laureate americano – carica biennale, che ha esplicato cinque anni fa, che è andata ai grandissimi, da Iosif Brodskij a Robert Frost, da Elizabeth Bishop a William Carlos Williams –, meriterebbe il Nobel per la letteratura che non avrà, semplicemente perché è tra i massimi poeti viventi, oggi.

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L’arcaica riservatezza di Wright si rivela nel lavoro antologico che ha pubblicato per Farrar, Straus and Giroux, Oblivion Banjo. Il banjo è una specie di chitarra jazz, legata alla gioia dell’improvvisare – si penetra l’oblio suonando. In qualche modo, Charles Wright è un Orfeo con il banjo, il poeta che tenta la parola ultima, quella che sconfigga gli inferi del senza memoria. Per lo più, il poeta, che scrive su pietra e canta nel vento, accetta di essere dimenticato – purché il suo verbo infiammi l’immaginazione di un altro, e così via, in una concatenata stagione di fuochi. Oblivion Banjo, così, s’inaugura con una serie di Homage: a Ezra Pound – incontrato nella casa veneziana –, a Arthur Rimbaud, al Baron Corvo.

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Leggo un pensiero partecipe di Troy Jollimore, pubblicato sul “New York Times” (A Poet Maps the Landscapes of Memory): “La poesia di Wright è guidata dal tremore di meraviglia dell’esistenza primordiale, e da un senso profondo della mortalità: cioè, un attaccamento alle cose passate e presenti, alle cose vissute alla luce della nostra conoscenza, per cui ogni cosa è unica, singolare, e ogni evento, una volta passato, lo è con indelebile assolutezza”. Dan Chiasson, invece, ha scritto delle Many Voices of Charles Wright sul “New Yorker”: “L’enorme volume che assembla quasi cinquant’anni di ‘piccole parole/ fuori dal vento e dal tempo’ impressiona: le poesie sembrano lembi di neve, depositi lasciati da una marea… Il titolo del volume simboleggia il metodo di Wright nel mescolare i vocaboli: la parola ‘oblio’ ha provenienza letteraria, perfino filosofica, il suono del ‘banjo’ ci porta agli ‘inni tintinnanti’ dell’infanzia di Wright, nel Sud degli Stati Uniti. La ‘musica’ che ne deriva è il suono di una mente straordinariamente paziente, coerente, nonostante gli audaci mutamenti formali”.

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Per fortuna, Charles Wright è tradotto, in Italia, con doverosa dedizione: Crepuscolo americano e altre poesie (Jaca Book, 2001) mi pare la raccolta più potente, a cui sono seguite Breve storia dell’ombra (Crocetti, 2006) e l’antologia tematica, d’occasione Italia (Donzelli, 2016). Apro il primo libro a caso, sboccia Ars Poetica II:

Morirò come una nuvola, bella, bianca, piena di nulla.

Il cielo notturno è un ideogramma,
una carta in codice perforata.
Pensa d’essere il verbo di quel-che-verrà.
Lo pensa, ma non è che La Biblioteca dell’Ultima Spiaggia,
la luce riflessa del Grande Equivoco.

Dio è il fuoco che trattiene i miei piedi.

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Dall’antologia di Wright scopro una poesia che non avevo letto prima, Body and Soul. Eccone un pezzo:

Ho sempre pensato che il potere delle parole fosse inesauribile,
perciò abbiamo detto che il mondo
era come era, e come sarebbe stato.
Ho sempre immaginato che la parola che ondeggia e la parola-tuono
avrebbero zittito il Silenzio e ogni altra cosa,
che i mondi fossero la Parola,
linguaggio che inspiegabilmente porta alla grazia,
come se fosse geografico.
Pensavo a queste cose quando ero ragazzo.
Le penso ancora.

Le poesie di Charles Wright, penso, sarebbero recitate benissimo dal Giudice Holden di Cormac McCarthy, il feroce artefice che incendia con facoltà retorica e sfoggio di violenza Meridiano di sangue. Penso che le poesie di Charles Wright siano sempre epigrafiche, un omaggio alla nostra fine. (d.b.)

*In copertina: Charles Wright; nato nel 1935, è stato il ‘Poeta Laureato’ americano nel biennio 2014-2015

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