Il passero nella ferita
«Aquí yace el poeta
Vicente Huidobro
Abrid la tumba
Al fondo
de esta tumba
se ve el mar».
Il principio si scorge anche nella fine. E una vita consacrata alla Poesia non poté fare altro che dilatarsi fino a invaderne il miraggio, a disumanar con essa fino a quasi scomodarne la luce, e da questa esigere un riposo, un bacio eterno traboccante di visione, un affaccio di speranza.
Iniziatore del Creazionismo, Vicente Huidobro, figura pressoché sconosciuta nel panorama delle lettere italiano, è riconosciuto dalla critica come uno dei massimi poeti cileni. In patria, pubblicò la sua prima raccolta poetica Ecos del alma (1911), di tendenza modernista, e contribuì ad animare la vita letteraria del paese dirigendo le riviste Azul e Musa Joven, dove apparve il suo primo calligramma, Triàngulo Armònico.
Nel 1916, in piena guerra mondiale, si trasferì a Parigi, dove cominciò ad abbozzare la sua teoria creazionista della poesia ed entrò in contratto con i principali esponenti delle avanguardie europee. È al 1917, infatti, che risale l’inizio della sua collaborazione con la rivista Nord-Sud, dove pubblicano, tra gli altri, Tristan Tzara, Jean Cocteau, André Breton, Max Jacob e soprattutto Guillaume Apollinaire; all’urgenza sperimentatrice di quest’ultimo, incantatore dell’esprit nouveau del ventesimo secolo, si intrecciano le intuizioni letterarie del giovane poeta cileno, che, nelle istanze della simultaneità cubista e nell’esigenza di una lingua di fiamma capace di forgiare mondi inauditi, vide le premesse di un dire poetico finalmente redento, nucleo di brace del poeta nuovo, demiurgo e liberato, dunque sovrano. La raccolta Horizon Carré (1917), che include poesie già apparse ne El Espejo de Agua (1916) e tradotte in francese, contiene l’espressione germinale della sua nuova estetica: accanto all’eliminazione della punteggiatura, decisivo rinnovamento formale già intrapreso da Apollinaire in Alcools (1913), egli va qui mostrando la ricerca di un’«algebra del linguaggio», dove i segni linguistici sfuggano al loro significato sostanziale, ovvero alla propria funzione referenziale, facendosi tabernacolo di una bellezza altera, pura, incomparabile. La poesia, secondo Huidobro, deve farsi strumento di creazione assoluta: una poesia creata è dunque essenzialmente un’entità primigenia, un evento incommensurabile sceso nel mondo come fenomeno singolo e slegato da ogni elemento di realtà che non sia quella che si propone di plasmare in sé stessa; il poeta quindi
«crea il meraviglioso e gli dà vita propria. Crea situazioni straordinarie che non potranno mai esistere nel mondo oggettivo, per cui dovranno esistere nella poesia perché esistano da qualche parte. Quando scrivo: “L’uccello fa il nido nell’arcobaleno”, si presenta un fatto nuovo, qualcosa che non avevate mai visto, che mai vedrete e che tuttavia vi piacerebbe molto vedere. Il poeta deve dire quelle cose che mai si direbbero senza di lui. Le poesie create acquisiscono proporzioni cosmogoniche; ci danno in ogni momento il vero sublime».
Se in El Espejo de Agua la ricerca formale accompagna già l’orrore del poeta di fronte al pensiero della morte – si vedano El hombre triste, Nocturno, Nocturno II e Año Nuevo, – il sentimento si caratterizza ancora con un tremore esistenziale, metafisico. Horizon Carré segna invece il passaggio a una produzione nel cui incedere scorre inesorabile la fiumana ferita della storia, che dilaga l’anno successivo, nel 1918, con la pubblicazione di quattro libri, Ecuatorial, Poemas Árticos in spagnolo, Tour Eiffel e Hallali in francese.
È in quest’ultima opera, di seguito proposta integralmente in una traduzione inedita, che la violenza del primo conflitto mondiale emerge nella sua tragica assurdità. Poesia di guerra è infatti il sottotitolo della raccolta, ed è attorno alla grande guerra, definita nel più tardo Altazor (1931)un emblema della «estupidez humana», che la composizione immaginifica dello spirito creazionista, propriamente caleidoscopica e rabdomantica, consegue quella detonante coerenza espressiva capace di evitare la trappola enigmatica dell’associazione intimista in un faro sgranato a picco sul dolore, quasi fosse la catastrofe il grumo atteso, dalla gola del poeta, per ritrovare l’esatto incendio nelle parole:
Un grido d’angoscia
Si è affogato nelle nebbie
E un bambino in ginocchioSolleva le mani
TUTTE LE MADRI DEL MONDO PIANGONO
Il titolo, Hallali, da grido d’incitamento di guerra e di caccia, si fa inno amaro di una barbarie evidente, basso ironico di un’allegria fatalmente minacciata: la trincea non è l’ambiente adatto alle celebrazioni, la poesia ci sopravvive a stento e, se lo fa, prosegue trasfigurata («E la canzone nella trincea / […] / il primo ucciso è stato un poeta / hanno visto un uccello fuggire dalla sua ferita»). In 1914 Huidobro traccia il ritratto di un’Europa spiritualmente riunita («Tutte le torri d’Europa si parlano in segreto») e devastata («Le città che fumano come pipe») dove «gli uomini se ne vanno» a morire in nome del «patibolo dell’Aurora», al quale tutte le città sono appese; ne La trincea l’orrore sembra conquistare anche il mondo animale («Sul cannone / Un usignolo cantava /Ho perduto il mio violino») e quello inanimato («Tutte le stelle sono crateri di granate»). La speranza, però, si insinua tra i versi piegati dalla desolazione («Eccola / La Francia di ieri sotto l’erba / Più bella di una donna nuda») e nell’ultima poesia, Il giorno della vittoria, emerge il sogno tanto invocato, «la fiaccola al fondo del secolo»: la Pace.
Laggiù
Sul confine del mondo
Qualcuno canta un inno di trionfo
Di fronte al tremendo, l’uomo Vicente Huidobro prende stanza, e si schiera. Egli condivide con il paese che lo ospita il desiderio struggente di una vittoria che ponga fine al terrore, alle divisioni, allo straniamento, alle lotte intestine, all’abbrutimento nella povertà, allo strisciante sfruttamento coloniale. Lungo la raccolta compaiono infatti quei simboli della sua poetica che sono comunemente associati al potere creativo (la pipa, il sigaro, le torri, le trombe); ma è qui in atto un processo di defamiliarizzazione lessicale in cui gli stessi strumenti e mezzi della guerra (cannoni, aerei, granate, soldati) sono travolti da una precisa disposizione etica del poeta: non si tratta, infatti, della celebrazione della tecnica in sé, di un’estetica di potenza autoreferenziale incarnata nell’arma, bensì le armi nuove sono salutate come possibilità di una fine, per un avvenire di benessere per la comunità oltre l’errore storico, al di là del male banale di una prospettiva giudicata distorta.
Sebbene dalla parte degli Alleati, Huidobro non risparmiò comunque un forte criticismo alla loro politica sociale e imperialista, specialmente nei confronti dell’Inghilterra, cui, in Ecuatorial e nel più tardo Finis Britanniae (1923), rivolge accesi slanci accusatori: «Conficcano lance fresche nel Congo / Il cuore soleggiato dell’Africa / Si apre come un fico beccato». È importante ricordare, infine, l’aspra critica che il poeta cileno condusse contro l’estetica della guerra e il suo bagaglio di morte e devastazione, condivisa dagli animatori delle avanguardie storiche del vecchio continente, in particolare i futuristi capeggiati da Marinetti. Nel 1914, nel manifesto Futurismo e maquinismo, egli scriveva già:
“I futuristi sostengono di aver fornito tutti i materiali per l’arte e la poesia che noi facciamo e che i poeti moderni fanno ovunque. Questo è assolutamente falso; non è altro che un freddo sogno imperialista… Cantare la guerra, i pugili, la violenza, gli atleti, è qualcosa di molto più antico di Pindaro”.
Huidobro, con la sua poesia nuova, volle dimostrare la radicale incommensurabilità del modernismo ispanoamericano rispetto al modernismo vociante e invasato dei colleghi europei: il Creazionismo e l’istanza rinnovatrice incarnata dalla sua poesia era intrinsecamente progressista e non decadente, era etico, morale e umanamente superiore al nichilismo esaltato e inchiodato («rivé», direbbe Levinas) alla pura inebriante immanenza di coloro che salutavano «la sola igiene del mondo», abbracciandone i pericoli, le tecniche innovatrici di morte e la distruzione rigeneratrice.
Il poeta Vicente, ambasciatore di una sete suprema di Assoluto, dinasta di fulgidi e inediti mondi temprati dalla fede nell’unica vetta fuori dal tempo – l’astro agrodolce della Poesia, che diluvia i suoi dardi di comunione sui cuori inquieti e sognanti – poteva quindi confessare serenamente la rotta che accompagna al mare:
Guidato dalla mia stella
Con il petto vuoto
E gli occhi inchiodati all’altura
Salii incontro al mio destinoOh miei cari amici
Mi avete riconosciuto?
Ho vissuto una vita che non può essere vissuta
Però tu Poesia non mi hai abbandonato un solo istante
1914
Nuvole sulla fontana d’estate
La notte
Tutte le torri d’Europa si parlano in segreto
Tutto a un tratto un occhio si apre
Il corno della luna grida
Hallali
Hallali
Le torri sono trombe appese
AGOSTO 1914
È la vendemmia delle frontiere
Dietro l’orizzonte accade qualcosa
Al patibolo dell’Aurora tutte le città sono appese
Le città che fumano come pipe
Hallali
Hallali
Ma non è una canzone
Gli uomini se ne vanno
*
LE CITTÀ
Nelle città
Si parla
Si parla
Ma non si dice niente
La terra nuda rotola ancora
E anche le pietre gridano
Soldati vestiti di nuvole blu
Il cielo invecchiato tra le mani
E la canzone nella trincea
I treni se ne vanno su corde parallele
Si piange in tutte le stazioni
Il primo ucciso è stato un poeta
Hanno visto un uccello fuggire dalla sua ferita
L’aeroplano bianco di neve
Ringhia tra le colombe della sera
Un giorno
si è smarrito nel fumo dei sigari
Nubi delle fabbriche Nubi del cielo
È un trompe-l’oeil
Le ferite degli aviatori sanguinano in tutte le stelle
Un grido d’angoscia
Si è affogato nelle nebbie
E un bambino in ginocchio
Solleva le mani
TUTTE LE MADRI DEL MONDO PIANGONO
*
LA TRINCEA
Sul cannone
Un usignolo cantava
Ho perduto il mio violino
La trincea
Fa il giro della Terra
Che freddo
Tutti i padri vestiti da soldati
Si fischia dietro alla propria vita
CRAONNE
VERDUN
ALSACE
È un bel bersaglio la luna
L’ombra di un soldato
Era caduta in un buco
A terra si vede sanguinante
L’aviatore che sbatté la testa contro una stella spenta
E meglio di un cane
Il cannone sorveglia
A volte
Abbaia
LA LUNA
Tutte le stelle sono crateri di granate
*
IL CIMITERO DEI SOLDATI
L’ombra che cade dagli alberi
Si è bagnata nell’acqua
Il vento non si vede
Ma la foresta metallica
Canta come un organo
Eccola
La Francia di ieri sotto l’erba
Più bella di una donna nuda
La terra ancora tiepida
Conserva gli ultimi segreti
Dove le mani sono tutte tagliate
Una campana suona
Dietro le nuvole
Rivolta all’oceano filiale
Chiamava qualcuno
SILENZIO
SILENZIO
*
IL GIORNO DELLA VITTORIA
Un giorno la Pace verrà
Fiaccola al fondo del secolo
Allora i soldati gli occhi pieni di pioggia
Rientreranno a Parigi
UN UCCELLO CANTERÀ SULL’ARCO DI TRIONFO
E il ritorno
Rischiarerà tutte le finestre
Aerei
Soldati
Cannoni
Anche i ciechi
Usciranno in balcone
E i loro fiori cadranno sulle teste dei soldati
Il corteo verrà da secoli più lontani
La folla danzerà negli occhi dei cavalli
Un grido si leverà come una scintilla
E i cappelli saliranno nell’aria
Meglio delle palle sui getti d’acqua
Aerei
Soldati
Cannoni
GLI AEROPLANI GLI AEROPLANI
Non chiuderanno le loro ali quella mattina
GLI AEROPLANI GLI AEROPLANI
Da quale cimitero di eroi
Queste croci si sono involate
A cantare la gloria dei loro morti
Il giorno della Vittoria
Tutti i popoli canteranno
E i mari
Si tramuteranno in miele
Soldati
Cannoni
Un dirigibile getta un mazzo di fiori
I marinai lontani
I marinai color di pipa vecchia
Canteranno in ginocchio sulle onde
La Senna scorrerà piena di fiori
E anche i suoi ponti
Saranno archi di trionfo
LE CITTÀ E I TAMBURI RIMBOMBANO
E quando la notte verrà
Le stelle cadranno sulla folla
E poi
Dalla cima della Tour Eiffel
Accendo il mio sigaro
Per gli astri in pericolo
Laggiù
Sul confine del mondo
Qualcuno canta un inno di trionfo
*La traduzione e la cura del testo sono di Alessandro Bernardini