06 Giugno 2019

“La comunità internazionale fa arrivare alle vittime aiuti umanitari, ma per il resto rimane a guardare il massacro”: le lotte giudiziarie di Carla Del Ponte (che in Serbia chiamavano “Karla la pu**ana”)

C’era un macello, dove oggi sorge la sede principale dell’ONU, a Manhattan. Dove ora sventolano le bandiere di tutti i 193 stati membri e si staglia un Palazzo di vetro, con oltre trecento dipinti e opere d’arte, una vera galleria. Fuori, la pistola della celebre scultura ha la canna annodata, mentre la Statua delle spade in vomeri ritrae un possente fabbro intento a piegare una spada, un dono dell’Urss. Insomma, si inneggia alla pace. “Fin dalle prime visite mi ero chiesta se la politica e l’arte non fossero in contraddizione. Negli ultimi decenni l’onorato edificio di trentanove piani aveva promosso in tutto il mondo la sua idea di pace, poi i risoluti leader del passato avevano lasciato spazio ai portavoce e agli oratori”. A rompere il silenzio, facendoci spiare tra le stanze segrete dell’ONU, è Carla Del Ponte, procuratrice generale svizzera, procuratrice capo del Tribunale penale internazionale dell’Aia per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia e il genocidio in Ruanda. Dal 2011 al 2017, ha fatto parte di una commissione internazionale dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, incaricata di indagare sulle violazioni commesse durante la guerra in Siria. Proprio da quest’ultimo capitolo è nato, un pugno di mesi fa, il suo libro denuncia Gli impuniti – i crimini in Siria e la mia lotta per la verità, appena pubblicato da Sperling & Kupfer, scritto con Roland Schäfli (traduzione di Anna Maria Foli). La copertina nera, la scritta in bianco “gli impuniti”, lo stesso bianco dei suoi capelli, tagliati da uomo, lo sguardo corrucciato di una che si aspetta una risposta. Una donna di ferro, peraltro, che aveva affrontato, faccia a faccia, Slobodan Milošević, “insieme pericoloso di sfacciataggine, fiducia in se stesso e, lo ammetto, anche di fascino”. Personaggio non così lontano, a suo dire, dall’attuale capo di Stato siriano, Bashar al-Assad, il figlio di Hafiz al-Assad – al potere dal 1971, dopo il colpo di stato militare – medico oculista, “il dottor Jekyll che si era trasformato in mister Hyde sotto i nostri occhi”.

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“Carlita la peste”, “la puttana Del Ponte” (com’era stata definita dall’ex ministro di giustizia serbo), “Karla, la puttana” come recitavano manifesti sull’autostrada della Serbia, la procuratrice scomoda, dopo cinque anni di missione diplomatica siriana, ha deciso di dimettersi. Come mai l’amica di Kofi Annan, uno dei primi personaggi forti a comparire nel libro, ha lanciato questo libro-bomba (che, guarda caso, raccoglie poche recensioni)? Perché continuiamo ad abbassare lo sguardo? Perché facciamo finta di niente? “La comunità internazionale fa arrivare alle vittime aiuti umanitari, ma per il resto rimane a guardare in modo distaccato il massacro che sta avvenendo. Ancora una volta evitiamo di assumerci la responsabilità storica”. È ripiombato il silenzio sulle strazianti torture subite dalla popolazione, martoriata dal regime, come dai ribelli e dai terroristi dell’ISIS. Più volte la Del Ponte definisce l’ONU e le potenze occidentali un muro di gomma: “troppo spesso mi viene in mente l’espressione muro di gomma, con cui si intende un atteggiamento di riluttanza e chiusura. Di per sé quel muro non è visibile, ma dietro si trincerano persone influenti che lasciano rimbalzare le domande come sulla gomma, illudendo l’interlocutore di aver ascoltato attentamente e di aver preso in considerazione la sua richiesta”.

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Le prove degli eccidi commessi da Assad e dai suoi oppositori e dall’ISIS sono state raccolte dalla commissione della Del Ponte per anni. Nelle 600 pagine di rapporti, sono raccolte oltre cinquemila testimonianze, dentro le pareti d’acciaio delle casseforti. Confermato l’utilizzo del sarin e delle bombe sporche: le barrel bombs, “bombe barili, ordigni improvvisati fatti con vecchie caldaie o scaldabagni riempiti di esplosivo e pezzi di metallo”, spesso fatte esplodere nelle panetterie, nell’aria il profumo del pane appena sfornato, la folla inerme di madri e bambini. Le scuole non erano più un obiettivo civile protetto, “venivano bombardate anche se non erano usate come rifugio dai ribelli”. Così come gli ospedali, senza nessuna pietà per i bambini: “le forze di polizia costrinsero il personale medico a fornire informazioni sui pazienti e vietarono loro di curare i bambini visti come nemici del governo”. La convenzione di Ginevra non vale niente: “poco per volta mettere sotto attacco i medici era diventato una specie di trend. Non veniva risparmiato nessuno: autisti di ambulanze, infermieri, volontari”. I pazienti trattati come prigionieri, il simbolo del soccorso umanitario un bersaglio. I continui attacchi costrinsero ad aprire le sale operatorie in cantine o sottoterra, in cave hospital. Presto tutti “volevano sapere perché le Nazioni Unite non intervenissero. Non volevano capire che l’opinione pubblica mondiale stava a guardare la Siria che moriva dissanguata”. Ad Assad “nemmeno il segretario generale dell’ONU, la più grande istituzione del mondo preposta alla difesa della pace, diede una tirata d’orecchi”. Non c’è uno straccio di alibi per l’Europa: “L’Unione Europea brillò per la sua assenza e agì come se non fosse stata invitata alla festa”. E gli USA? “Il senso di giustizia degli americani si stava indebolendo molto, constatai”, del resto il tentennamento di Obama la dice lunga, “un segno di debolezza politica”.

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L’ostinata Carla non voleva chiudere gli occhi, voleva occuparsi di crimini, portare alla sbarra i criminali, mentre i suoi colleghi si curavano di tenerla lontana dai microfoni. Il segno delle violenze dipinge un inferno: “per estorcere una confessione, il regime non disdegnava la violenza sessuale. I torturatori bruciavano i genitali con sigarette, accendini e plastica fusa; collegavano gli organi sessuali a cavi elettrici finché la scossa non provocava la morte. Si ricorreva alla violenza sessuale anche per ricattare i membri della famiglia: se una donna si trovava nella camera della tortura, i parenti maschi dovevano arrendersi senza combattere in cambio della sua liberazione”. Quando consegnò il rapporto c’erano ancora più di 3200 donne e bambini nelle mani dell’ISIS e migliaia di uomini risultavano dispersi. La spiegazione delle migliaia di sparizioni era semplice e sempre la stessa: “sembra che in Siria muoiano tutti di infarto”. Decine di persone in coda alla polizia militare per chiedere notizie, si sentivano rispondere: collasso cardiaco, attacco cardiaco. La responsabilità del governo esclusa sempre. Alcuni avvocati inglesi, per conto del governo francese, pubblicarono il rapporto Caesar, un membro della polizia militare siriana era stato incaricato di fotografare i prigionieri morti: “53.000 stampe di cui 28.707 mostravano detenuti che non erano usciti vivi dalla cella”. Poteva essere la svolta. I metodi di tortura contemplavano anche l’estensione dell’agonia, le ferite curate solo in parte perché continuassero a sanguinare. Le prove strazianti furono verificate dalla FBI. Ma l’album privato di Assad non era sufficiente. “Fare giustizia non è possibile, quando manca la volontà politica”, Carla Del Ponte, al momento delle dimissioni, si stupì nel vedere i membri della sua commissione tirare un sospiro di sollievo, rassicurati. “Bisognava ribellarsi al palazzo. Conoscevo troppo bene i meccanismi dell’ONU. Sedute infinite al termine delle quali si rinviava la discussione a un altro giorno. Avevo la sensazione che non si andasse mai avanti in quei corridoi lunghissimi”. Un muro di gomma, una pistola, come quella della scultura russa, dalla canna troppo annodata per spaventare qualcuno, o per prendere la mira. Per colpire i criminali di guerra, ancora impuniti.

Linda Terziroli

Gruppo MAGOG