06 Aprile 2020

“Siamo stati l’ultima avanguardia! Ma nessuno ci ricorda più”. Dialogo con Giancarlo Pagliasso sull'Arte Debole

Chiacchierando col teorico dell’Arte Debole, GianCarlo Pagliasso, ho potuto finalmente comprendere che cosa fu il movimento da lui guidato, e quali furono le critiche che questo portava in essere. Proprio perché si fondava su una critica, Pagliasso rivendica: «Siamo stati l’ultima avanguardia! Ma nessuno ci ricorda più». Effettivamente quel periodo dell’arte italiana, seppur molto prolifico, ci è ancora troppo vicino per “meritare” una storicizzazione compiuta, quasi come se occorresse la morte d’ogni suo partecipante per poter chiamare in ballo la storia. Contrariamente a ciò, oggi, quest’ultima è talmente contemporanea da estinguersi compiendosi; come dice Pagliasso: «Se non vieni storicizzato sul nascere, oggi non esisti».

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Renato Alpegiani, “Senza titolo”, 1997

L’Arte Debole fu un movimento artistico comparso a metà anni ottanta, e che si sciolse nei primi anni novanta. Il nucleo fondatore era già impegnato in una precedente realtà: il Gruppo di Ricerca Materialista (G.R.M.; composto da Pagliasso, Ghiazza e Saini), che si prestava particolarmente all’arte performativa. A questo si aggiunse una coppia di pittori, Alpegiani e Antinucci; e tre designer: Santachiara e gli scomparsi Ester e Scacchetti. Come suggerisce il nome stesso, l’Arte Debole si votò all’insegnamento del filosofo Gianni Vattimo e del suo Pensiero debole – essendo stato, Pagliasso, allievo di Vattimo quando ancora insegnava Estetica nella sua Università di Torino. Alla luce dell’importante prassi teoretica vattimiana, consolidatasi nel 1983 con l’opera Il pensiero debole, Pagliasso ritiene d’aver trovato il punto d’appoggio per sostanziare la ricerca già intrapresa dal G.R.M. – ciò porterà all’Arte Debole, prendendo in prestito una definizione del critico Flavio Caroli.

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La poetica della detta avanguardia (descritta da Pagliasso nella raccolta di saggi Déjà Chimera) è strettamente legata al raggiungimento vattimiano: laddove l’Essere non può più essere indicato nell’ente, l’arte non potrà più intrappolare l’Assoluto (né discuterne) – giacché ipotizzarne la ricerca, e soprattutto l’esistenza, sarebbe una presunzione metafisica; su questa riga l’Arte Debole tentò di rappresentare il superamento della comprensibilità dell’Essere attraverso i suoi metaforici “resti”: degli elementi bruti. Internamente alle dinamiche postmoderne, il Pensiero debole segnò il passaggio (ultimo) dalla metafisica all’antropologia filosofica – con questa “grave colpa storica” subì un’infinità di critiche da parte dei propri avversari teoretici (possiamo ricordare le querelle tra Vattimo e il fu Viano), e l’incomprensione dei più: che ancora non sanno intendere il significato del termine debolezza, nel dizionario debolista. La stessa sorte toccò all’Arte Debole: tacciata d’impoverire la missione dell’arte, di ridurla all’inutilità. Ciò fu completamente scorretto, proprio perché l’Arte Debole si poneva profeticamente come segnalatore d’un pericolo (internamente al mondo artistico): essa temeva che l’arte potesse divenire una realtà fredda, incapace di dialogare umanamente coi propri fruitori – il suo intento, infatti, era marxianamente critico, dice Pagliasso: «Volevamo prevenire la deriva mercatista creando un’arte popolare, capace di comunicare con chiunque: anche mediante gli oggetti quotidiani, e quelli disusati».

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GianCarlo Pagliasso, “L’inganno”, 1990

Proprio per questo, l’Arte Debole, tentava di riscoprire il kitsch (da sempre, e inconsapevolmente, prediletto dal gusto massificato) con opere plastiche dal carattere povero e relativamente gradevole. Infatti in una replica d’annata, Pagliasso asserì che l’Arte Debole cercasse di descrivere la superficie dell’esistente come un ornamento sporco: l’accusa a cui rispondeva imputava, al movimento, una superficialità intenzionale. Pagliasso ebbe così modo di definire ulteriormente la propria visione dell’epoca postmoderna, per l’Arte Debole stessa il reale era un ornamento sporco: l’uomo occidentale, allora, stava votandosi alla promessa di progresso personale posta dal liberismo; il senso sociale era ormai pesante da sopportare, oltreché invalidante per la corsa all’oro dei singoli; la divisione interna degli individui, anziché unirli, li stava atomizzando… Il futuro sembrava già perduto, e l’Arte Debole intendeva lamentare debolmente questa precognizione: senza alcuna arroganza comunicativa, ma anzi con un carattere sommesso. Questo rese il movimento un maestro di “verità”, un esemplare “stare al mondo” – seppur “poco competitivo”, secondo l’insegnamento odierno. Per questa debolezza (che è l’unica vera fortezza desiderabile) è toccata loro una sorte peggiore dello stesso Pensiero debole – giacché, seppur criticato ininterrottamente, Vattimo ha saputo evolvere la propria riflessione portandola su questioni teologiche e politiche, fino a indebolire Marx (nella speranza d’una rivoluzione socialista che ci converta globalmente – abbattendo il capitalismo, e instaurando una società che ponga la carità e l’intersoggettività al primo posto); altresì l’Arte Debole trovò ben presto fine, sentendosi ancora addossare la colpa d’una presunta morte dell’arte (di hegeliana memoria), la quale (se è) ha le proprie cause in ciò che questo movimento artistico indicava come un pericolo.

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È forse una caratteristica dei profeti essere oggetto di risa, e bersaglio delle sassaiole? Effettivamente oggi l’arte cerca per sé la via d’una nuova classicità, per purgarsi d’ogni “avanguardismo anti-borghese” – quasi pensando d’eliminare così dal presente le conseguenze della riduzione dell’arte a mercato, ciò dimenticando che il capitalismo assume tutto in sé (pure i propri detrattori), e che divora anche sé stesso per sopravvivere. In tutto questo, evidentemente, non c’è spazio per i rivoluzionari cortesi: che questa consapevolezza sia la nostra storicizzazione, allora.

Paolo Pera

*In copertina: Luigi Antinucci, “A-mare n. 2”, 1998

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