19 Aprile 2018

“Un uomo coltissimo, che incantava: per parlarmi mi inviava dei nastri registrati”: Gio’ Pomodoro a Urbino. Dialogo con Marisa Zattini

I due fratelli che hanno cambiato il modo di concepire la scultura in Italia di cognome fanno Pomodoro. Uno, Arnaldo, lo conoscete tutti. Le sue ‘sfere’, i ‘dischi’, le ‘vele’ sono gli elementi ancora oggi più visibili negli spazi pubblici. L’altro, Gio’, scomparso sedici anni fa, è tra i grandi scultori astratti del secolo scorso, compagno di via di Piero Dorazio, Lucio Fontana, Gastone Novelli, artista dalla cultura sorprendentemente vivace. Invitato nel 1956 alla Biennale, a 26 anni, espone le opere estreme dedicate a Ezra Pound, su influenza della lettura dei ‘Canti pisani’ e lì, a Venezia, è colpito dalle opere di Jackson Pollock. Capace di dare movimento, musica, vita alla forma inerte con talento memorabile, Gio’ Pomodoro torna alla Biennale di Venezia nel 1962, con una sala personale, e comincia a esporre ovunque. Negli anni Settanta, la prima grande opera pubblica, in Sardegna, è nel nome di Antonio Gramsci, mentre il 1980, per La Fenice di Venezia, cura la scenografia del Flauto magico di Mozart. Artista ‘classico’, avanguardista perché abbagliato dalla tradizione – secondo il gesto di Pound, che muta la forma lirica guardando a Dante, Omero, Confucio – finalmente una mostra lo onora a dovere. Apre il 19 aprile, infatti, nel Palazzo Ducale di Ubrino, sede della Galleria Nazionale delle Marche, “Gio’ Pomodoro. Panta rei”. La mostra – in sede fino al 15 luglio, le notizie le trovate qui – voluta da Peter Aufreiter, direttore della Galleria Nazionale, su nomina del Ministero, è curata da Marisa Zattini, strepitosa mente de Il Vicolo di Cesena (architetto, artista, editore, pensatrice eccentrica, fautrice di eccellenti eventi musivi), insieme a Bruto Pomodoro, figlio dell’artista. Un gesto importante, finalmente, che rilancia la provincia italiana come uno dei luoghi culturalmente più creativi del Belpaese. Bello solo a saperlo valorizzare come si deve.

Parto con l’ovvio, per i non udenti artistici. L’importanza di Giò Pomodoro nell’arte italiana. Dicci.

Gio’ Pomodoro è un protagonista d’eccellenza della grande storia della scultura italiana del XX secolo. In lui si condensano visionarietà, ricerca, rigore, stile, storia, riflessione e impegno etico. Un marchigiano “doc” nato a Orciano di Pesaro nel 1930, riconosciuto nel mondo già a partire dalla fine degli anni Sessanta. Pensiamo che solo nell’anno 1959 è invitato a “Documenta II”, a Kassel, con Fluidità Contrapposte, e ancora a Pittsburgh, Amsterdam, Parigi, Roma, Bruxelles, New York, Minneapolis, San Francisco e a San Paolo, in Brasile. Si è da poco conclusa la ricerca sui segni “in negativo” – trama e ordito scavati su “letti” d’argilla, una sorta di geroglifici informali nati dalle suggestioni ritmiche dei Canti Pisani di Ezra Pound – ed è appena iniziata quell’avventura, straordinaria e solitaria, sulle superfici in tensione restituite nelle forme in bronzo, o nelle fibre di vetro e poliestere, o sulle ondulate superfici marmoree come la Grande Ghibellina (1964-’65, Collezione Rockefeller, New York). Si tratta di un artista indubbiamente “classico”, attratto dai miti e dalle interazioni fra arte e scienza, geometria, matematica e numero, astronomia, poesia e filosofia. Nelle sue opere si fondono memoria antica e ricerca del nuovo. Il tema degli elementi acqua, aria, terra e fuoco rivisitato come in un canto e controcanto perfetto.

Quando nasce il tuo studio e il tuo interesse nel lavoro di Pomodoro, cosa ti affascina? Mi pare tu abbia già lavorato su di lui…

Sin dagli anni Ottanta ero affascinata dall’energia dei suoi lavori e dalla sua personalissima ricerca. Il dinamismo delle forme, la tensione plastica che caratterizzava tutto il suo lavoro, l’attenzione al disegno e alla “progettualità”… quell’approccio molto simile alla praxis dell’architetto. Se si osservano attentamente le sue tavole sinottiche si capisce il suo modus operandi, si comprende pienamente la profondità della sua ricerca “filosofico-naturalistica” e si percepisce la funzione esplorativa di un pensiero teso all’approfondimento progettuale di ogni sollecitazione emozionale. Lo conobbi negli anni Novanta, a Milano e la nostra amicizia si approfondì a Firenze in occasione della sua mostra a Palazzo Vecchio. Ci ritrovammo poi nel 1996, in occasione di alcune mostre del figlio Bruto che curai per la città di Siena e successivamente per alcune personali a Rimini, Cattolica e Cesena. Nel 1998 ci ritrovammo durante la sua presidenza al Museo Marino Marini, un tempio della scultura moderna allestito nella Chiesa di San Pancrazio. Dopo la ristrutturazione della cripta curai la mostra dedicata a Luciano Minguzzi e per il Comune di Firenze, l’installazione della sua opera monumentale Sole per Galileo Galilei. Un’esperienza straordinaria e illuminante: era un uomo coltissimo, un affabulatore che ti incantava. Durante la preparazione di questo evento ci sentivamo molto spesso e ci incontravamo nel suo studio a Milano. Quando doveva dirmi cose urgenti non telefonava ma mi inviava dei nastri registrati… Una meraviglia!

La mostra. Cosa ‘sveli’, per così dire, cosa ‘mostri’, quali le nuove ipotesi di ricerca e di studio nell’opera di Pomodoro.

La mostra di Urbino, negli spazi di Palazzo Ducale rendono onore a questo grande artista a 16 anni dalla sua morte. Tutto questo grazie al Direttore Peter Aufreiter che ha letteralmente rivoluzionato questa assonnata città. L’architettura rinascimentale, nelle sue perfette geometrie, accoglie l’opera di Gio’ Pomodoro instaurando nuove fruttuose relazioni emozionali. L’imponente Quadrato della mente II (1965), collocato nel Cortile d’Onore, all’ingresso, “apre le danze” di questo itinerario espositivo facendoci subito intuire che fra «trame e orditi [si svolgono] complessi grumi d’energia nella rete». Il tema è quello “prossimo” alla Grande Ghibellina e al Quadrato Borromini (I e II), anch’esse del 1965. Qui, è la scala reale del corpo umano e dello spazio che l’estensione del corpo stesso occupa ad essere indagata. Uno specchio dimensionale ideale dell’essere stesso dell’artista nello spazio, fisicamente e psichicamente, recuperando l’idea rinascimentale dell’uomo al centro del mondo, fortificante e al contempo consolatoria e salvifica. Per la mostra urbinate ho privilegiato i bronzi lucidissimi delle Folle e delle Tensioni, declinazioni poetiche delle superfici, opere “musicanti” che risuonano in noi al primo sguardo. Poi i grandi poliesteri, meno noti e attualissimi e alcuni grandi disegni, inediti. Vorrei che il visitatore percorresse questa mostra a passo lento, lasciandosi emozionare dall’opera e dal luogo che la ospita. Respirando queste spazialità. Perché «l’arte è sempre luogo di emergenti rapporti» (G.P. 1959).

Mi interessa il concetto di ‘vuoto’, che tu espliciti nella curatela. Spiegaci che rapporto ha Pomodoro con il ‘vuoto’?

Il concetto di ‘vuoto’ è quanto mai affascinante: la ricerca della natura del vuoto e delle forze energetiche in esso agenti è sempre perseguita con ostinazione da Gio’ Pomodoro. A tale proposito scrive: «desideravo far coincidere in un tutto continuo, come un flusso, la “forma” piena con il suo “spazio vuoto”. Con le “superfici tese” credo di aver raggiunto questo risultato di coincidenza, di risoluzione dell’antitesi che governa e insieme sempre insidia non solo le opere prodotte, ma anche i processi formativi delle forme scolpite». Se Cartesio (1596-1650), confutando la tesi degli scolastici, aveva ipotizzato uno spazio pieno di materia, un “plenum” composto da piccolissime particelle mosse da movimento centrifugo e vortici, ecco che lo spazio apparentemente vuoto ridiventa per Gio’ Pomodoro campo germinale fertile nel quale si svolgono processi continui che vanno “catturati”. Estremamente interessante è, a questo proposito, osservare la serie di fotografie degli anni Sessanta che ritraggono l’artista nel suo studio a Milano, in via degli Orti, durante la preparazione di questi “dispositivi”, stoffe o gomme (diaframmi spaziali né rigidi né pesanti) che divengono “letti” per accogliere le colate in gesso. Lo vediamo impegnato a predisporre la scena, per carpire ogni spazialità, in concavo e convesso, tendendo tiranti e fili come in una orchestrazione perfetta di stampo teatrale-cinematografico. Ecco allora che, in un flusso di continuità, gli opposti si incontrano e coincidono. Ed è su queste superfici che si modellerà poi il bronzo finale, plasmandosi in andamenti dinamici e organici sensibili alla luce. Sculture aperte, “luoghi” fisici dove le energie dello spazio circostante sono state imprigionate e il vuoto si è fatto pieno e viceversa. Il luogo che accoglierà l’opera finale, sia essa di piccolo formato o di grandi dimensioni, la renderà ancor più metamorfica grazie al gioco di rispecchiamento sulle sue “superfici fenomeniche”, riflettenti stranianti e deformanti, in una perfetta osmosi emozionale. Nelle opere di questo fantasioso, inconfondibile artista, spirito straordinariamente vigile e quanto mai consapevole, assistiamo a mutamenti ab intrinseco, dall’inizio alla fine. Proprio come accade nella vita, perché tutto è in continua trasformazione.

Prossimamente. Cosa ti inventi?

Prossimo evento a Salonicco, in Grecia, nella Moschea Yeni. A maggio… con una mia personale dedicata agli Erbari/Bestiari!

Gruppo MAGOG