Solo i pavidi si sconvolgono. In un Paese letterariamente ottocentesco, risorgimentale, letteralmente alieno all’eccesso, esteticamente democristiano e cerchiobottista, è chiaro che si parli con timidezza del romanzo di Davide Orecchio, Il regno dei fossili (il Saggiatore, 2019). Alla meglio, ci si scherma scrivendo che è un libro coraggioso, al limite si elogia la peripezia retorica dell’autore (già autore di libri felicemente fuori norma, Stati di grazia, Mio padre la rivoluzione, Città distrutte). Per me è un libro ovvio. Davide Orecchio, cioè, è uno che si confronta con la ‘forma’, non fa finta che siamo ancora qui a fare i gargarismi canticchiando Carducci. Ha letto Witold Gombrowicz e William T. Vollmann, conosce Marcel Schwob e Thomas Bernhard e Viktor Šklovskij, è conscio di Uwe Johnson e di Claude Simon e di Arno Schmidt, sa di Hermann Broch e di Julien Gracq. Insomma, si confronta con la letteratura imbracciando una strategia formale alta, vertiginosa, che scandalizza i lettori occasionali, affari loro. Poi, si pone un problema morale altissimo, di sempre. Come dico la Storia, ora, nel turbinio dei documenti, nella contraffazione dei fatti? O meglio: che tipo di estetica incardinare sulla politica? Così, sorge un romanzo lietamente difficile, dove lo scrittore fa lo scalpo – a 100 anni dalla nascita – a Giulio Andreotti, testata d’angolo, cardine e altare del Belpaese fossilizzato nel corrotto. Scrittore coi controcosi, Orecchio affronta la Storia con un affronto, con salutare spavalderia: mescolando studi e dati – denunciati nella Nota in appendice –, dando vita a personaggi fittizi (Albina, storica, setacciata da un incidente capitale, ossessionata da Andreotti di cui è il replicante in deformità), svaligiando il vero (“E Giulio Andreotti tastava il suo zaino e singhiozza Sei vuoto di Dio!, e il tempo di morte spruzzava una violenza più forte del nero di seppia, dell’acqua, delle grotte dove nessuno trovava rifugio”), scrivendo della vita e della morte. Ad Andreotti, nel cataclisma romanzesco – d’altronde, come dire i nostri decenni se non sprofondando nel caos senza scafandro, indifesi? – si contrappone la figura di Aldo Moro, in pagine dal clangore dantesco (“E dalla voce di Aldo Moro – sempre più acuta e irriverente – noi ascoltammo Mi sarei atteso che Giulio Andreotti si agitasse, si preoccupasse; e ascoltammo Nulla di quello che pensavo o temevo è invece accaduto; e Aldo Moro disse Andreotti è restato indifferente, livido, assente, chiuso nel cupo sogno di gloria”). Per capire cosa può la scrittura in virtù d’evocazione bisogna leggere Il regno dei fossili dopo aver guardato Il divo di Paolo Sorrentino. Romanzo degenerato, questo, che riassume geologicamente saggio e racconto, poema e sinfonia sinistra, periplo politico e sabba, finalmente, perché allo scrittore è chiesto il rischio formale, dissanguarsi tra i verbi, percorrere le battaglie perse, deformare l’Eden, sfregiare le speranze, fallire, perfino. Purché ci sia splendore. (d.b.)
Volevo capire il punto di svolta. Quando sei arrivato a concepire un romanzo su Andreotti? Questo particolare tipo di romanzo. Cioè: qual è stato l’episodio, il nodo biografico, la sfasatura, che ti ha costretto a scrivere un romanzo come questo.
Tutto nasce dal capitolo “Esordio”, dove il personaggio di Albina incontra il suo biografema nell’incidente automobilistico e nell’operazione chirurgica. Costretta dal trauma e dalla cicatrice a una postura ingobbita, e ammaccata nel corpo, questa bambina ispira al nonno una somiglianza con l’Italia “fatta” da Giulio Andreotti e con Andreotti stesso. Siamo nella seconda metà degli anni ’70, stagione a mio parere dominata dalla presenza costante di Andreotti in qualsivoglia mezzo di comunicazione. Era il più “proiettato” degli uomini politici, il più visibile, udibile, leggibile. Andreotti occupava l’intero campo semantico del discorso pubblico italiano, dalla barzelletta, dal film con Alberto Sordi, fino al giuramento politico e istituzionale davanti alle Camere. Non poteva che essere lui, quindi, la suggestione di una ragazza nata nel 1966 e cresciuta nei decenni successivi, durante l’età terminale della cosiddetta Prima Repubblica. Una ragazza che poi diventerà una studiosa di storia. Nei capitoli che raccontano la vicenda di Albina la figura di questo personaggio politico è un fantasma, un’allusione continua. Nei capitoli biografici su Andreotti rielaboro la storia politica e nazionale e provo a esporla.
Dico ‘come questo’, perché è volutamente involuto, questo romanzo, procede per visioni. Non ‘rappresenta’: squarcia. Insomma, non hai scritto un romanzo storico, hai preferito la via del magma – a volte dell’enigma. La questione è quella di come dare ordine, oggi, al caos della Storia, quale via intraprendere. Tu, che via hai preso?
Ragionando sulla tua domanda, mi viene da rispondere che ne Il regno dei fossili non ho provato a dare ordine al caos, ma semmai a dargli voce. Da qui la struttura contorta, consapevolmente imperfetta, non comunicativa del libro. Il caos al quale mi riferisco, però, non appartiene alla storia come concatenazione di eventi e forze, ma riguarda la coscienza storica, il disorientamento etico e pragmatico che affligge i tre personaggi “comuni” ritratti nel libro. Non è un caso che siano tre storici o studenti di storia: hanno un rapporto intimo, prossimo, con una materia che però, nel suo abito presente e futuro (perché la storia non è solo passato, tutt’altro) li frastorna e rende malinconici, orfani quali sono di una parte politica sconfitta, la sinistra italiana, che era convinta di incarnare la Storia stessa. Le tracce biopolitiche e fantascientifiche del libro sono anche un’“esplosione” narrativa di quel disorientamento. Insomma è un Regno in cui gli idoli sono caduti, l’orizzonte verso cui tendeva il cammino è perduto, per cui né i personaggi né l’autore dispongono di una soluzione che dia ordine al caos.
Scrivere vuol dire prendersi una responsabilità con il tempo. Tu, di che responsabilità ti sei fatto carico? Ad esempio, che carica ‘morale’ ha il tuo romanzo? Che idea hai di Andreotti, ad esempio?
Andreotti per me è uno degli artefici dell’Italia ammalorata. Un Paese già costruito difettoso nel suo farsi, dopo la guerra. Un Paese volutamente messo in piedi friabile e fradicio dalla classe dirigente democristiana. Questo è certamente un punto di vista morale (e parziale) sulla nostra storia, ed è quello che ho adottato nel romanzo. In una pagina riporto la promessa che De Gasperi fa a Andreotti nel 1944: costruire una terza via che non sia il capitalismo e che non sia il comunismo. Dalle macerie dell’Italia fare un Paese antifascista e antitotalitario, ma non piegato al libero mercato incondizionatamente. Intento encomiabile. Il risultato non fu all’altezza delle aspettative.
Perché “Il regno dei fossili”? Il tuo romanzo è forse una fessura nel fossile, nella fossilizzazione. Il tuo romanzo ha anche un carisma ‘politico’?
Sulla fessura, non so, forse hai ragione tu. Dipende dall’immagine che abbiamo del tutto e delle parti. Potremmo anche definirlo un regno di larve spirituali, di eredi di una storia morta. Sul carisma politico non so risponderti, ma alcuni piani del romanzo sono decisamente politici. Mi riferisco alle pagine sulla longevità, sulla relazione tra essere umano e Stato, sulla vita postbiologica.
Che cos’è il potere, come te lo figuri? Nel tuo libro la parola potere la associo, chissà perché, a orfano.
Non ho un buon rapporto col potere. Da sempre. Dal tempo dei genitori. Dal tempo degli insegnanti. Per me il potere è un rompiscatole. Forse l’orfano è in una condizione di libertà dal potere, e ne è reso potente e al contempo debolissimo. In questo libro il potere è Andreotti. Dunque sembra (ma non è) un potere poco serio, poiché ride o sogghigna. Ed è un potere che guarda e controlla, che osserva. È un potere curvo che si autoarchivia attraverso il diario, nell’illusione di prolungare il controllo anche nel futuro dopo di sé. Qualsiasi politico tenga e pubblichi un diario sta cercando di condizionare il giudizio che i posteri avranno di lui, sta insomma provando ad allungare la vita del proprio potere. Non credo che la memorialistica andreottiana sfugga a questa regola.
Insomma: perché scrivi? Chi sono i tuoi maestri, cosa ti piace leggere?
Perché scrivo… me lo chiedo anch’io. Scrivere mi soddisfa. Ed è anche uno strumento di conoscenza. La scrittura può essere uno studio della realtà, o no? Parafrasando Walter Siti, è solo quando scrivo che capisco le cose. E aggiungo: è solo quando leggo che capisco le cose. I miei maestri… Ora non vorrei mettere qui il solito elenco di nomi e titoli. Diciamo che apprezzo quei libri nei quali la scrittura è talmente forte da farsi essa stessa argomento, tema dell’opera. Penso, tra i contemporanei, a DeLillo, Peace, Mari. Tra i classici: Woolf, Faulkner, Bernhard, Gadda. Poi c’è una letteratura sotterranea e plurisecolare, che non è romanzo né racconto, ma scrittura di vite, di biografie reinventate, che (almeno nella modernità) va da Schwob a Michon, passando per le vette di Borges e Kiš, e in Italia arriva a Pontiggia: la frequento e apprezzo moltissimo. Ecco, ho messo il solito elenco.
*In copertina: Giulio Andreotti è nato 100 anni fa; Davide Orecchio è più giovane di lui di 50 anni