
Lui è un genio e voi siete dei vili! Sul trattamento riservato a Émile Zola in Italia
Politica culturale
Luca Bistolfi
Bizzarrie del nuovo millennio: l’opera di Henry Miller è ancora di pimpante necessità. Lo dimostra il fatto che se fino a ieri l’autore di Tropico del Cancro – titolo bellissimo – era ritenuto ‘liberatorio’, oggi è decisamente dissacrante, fa ancora paura.
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(Per poi specificare che non c’è nulla di liberatorio nel sesso e nella narrazione di una avida sessualità: il sesso, dissipato, c’incardina alla carne, alla tortura del tramonto, alla dissennata disseminazione del seme, all’alcova come carcere, al corpo come stortura, al piacere come dovere. Ed è proprio per dire la claustrofobica escrescenza della carne che Miller tematizza il sesso – come altri, in modo diverso, intorno a lui, da un lato all’altro del mondo, da James Joyce a Jun’ichiro Tanizaki).
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Per allenamento, sfoglio Tropico del Capricorno. Traduzione nobile (Luciano Bianciardi). Anni d’oro. Prima edizione parigina, 80 anni fa; prima edizione americana nel 1961 – per 22 anni i democratici puritani l’accusarono di atti osceni in luogo letterario; prima edizione italiana nel 1967, Feltrinelli. Incipit scintillante. “Una volta mollata l’anima, tutto segue con assoluta certezza, anche nel pieno del caos. Dal principio non fu mai altro che caos: un fluido che mi avviluppava, e io vi respiravo per branchie. Nei substrati, dove la luna brillava ferma e opaca, era liscio e fecondo; sopra era frastuono e discordanza. In tutte le cose io vedevo subito l’opposto, la contraddizione, e fra il reale e l’irreale, l’ironia, il paradosso. Ero io il mio peggior nemico”.
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Il gesto esteticamente rivoluzionario di Miller – cugino di Wilde, parente di Céline, che adorava, bisnipote di Faust – che dissenna il romanzo con l’acume autobiografico, la porcata espressa con filosofia cinica (“Lei volle voltarmi il culo. Così me ne restai lì col cazzo duro contro il culo di lei e glielo detti per via telepatica. E per Cristo, lei deve aver ricevuto il messaggio, addormentata com’era, perché non fu fatica entrare dalla porta di dietro e poi non occorreva guardarla in faccia, che era un bel sollievo”), la bestemmia sinfonica (“Non avevo bisogno di Dio, più di quanto Egli avesse bisogno di me, e se un Dio ci fosse, dicevo spesso fra me, andrei a trovarlo calmo calmo e Gli sputerei in faccia”) è diventato cliché per un po’, poi vintage, e ora, ancora, insopportabile.
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L’era dell’edonismo indotto, dei piaceri anali-digitali è tornata puritana? Già. Il pretesto è un libro del poeta scozzese John Burnside, On Henry Miller, Or, How to Be an Anarchist, pubblicato dalla Princeton University Press. In sostanza, Burnside difende Miller dagli antichi attacchi femministi (Sexual Politics di Kate Millett è del 1970), dimostrando che il caro vecchio Henry non è “un pornografo cacciatore di femmine”, ma l’antidoto al delirio odierno, la ricetta per vivere felici. “Miller ha scritto che ‘non c’è salvezza nell’adattarsi a un mondo che è folle’, e in questo libro si dimostra come Miller insegni a diventare meno adattabili al mondo, a resistere alla condanna a vita del condizionamento sociale, intellettuale, emotivo, materiale”. Mille come ecologia della mente. Siamo, insomma, ancora e sempre in cerca di qualcuno che ci liberi – e mai nessuno che legga i romanzi per ciò che sono, ipotesi sul cranio dell’impossibile.
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Il libro di Burnside, che tenta di redimere Miller come panacea per il male occidentale, manda in furia intellettiva Elaine Blair che in un’articolessa pubblicata sulla The New York Review of Books, dal titolo esemplare (“Men’s Lib”) ci spiega perché il caro vecchio Henry sia – oggi più di ieri – sgradito agli zar della purezza dei costumi. “Povero John Burnside. Non è davvero il miglior momento, questo, per pubblicare una appassionata difesa di Henry Miller, i cui libri sui Tropici, scritti nei Trenta, furono banditi per decenni negli Usa con l’accusa di oscenità e furono incriminati dal critico femminista Kate Millet come l’esempio lampante degli atteggiamenti sciovinisti nei riguardi delle donne… Difficile parlare di romanzo se si parla di Miller quando parti dei suoi libri (“Spaccherò ogni ruga della tua fica”) paiono uno di quei tweet che qualche giocatore assatanato ha inviato a Brianna Wu, sviluppatrice di videogiochi accusata di aver criticato la natura sessista della sua industria (esempio: ‘Ho un Ka-bar, vengo a casa tua e te lo ficco nella tua brutta fica femminista’). Cinquant’anni dopo che gli ultimi processi per oscenità hanno aperto la strada a contenuti sessualmente espliciti nell’arte, la scrittura di Miller viola ancora gli standard della comunità come si dice, ma per una ragione diversa dal loro essere espliciti. Alla nostra accettazione del linguaggio sessuale è subentrato un linguaggio pubblico fatto di intimidazione violenta e misogina… Le nostre oscenità contemporanee sono il linguaggio sessista, razzista, omofobo dell’odio, un linguaggio che ci ricorda la nostra capacità – il nostro desiderio, si direbbe – di brutalizzare intere categorie di persone”.
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Il linguaggio nasce per comunicare – la prima comunicazione è la recinzione del proprio privato (‘questo è mio’), non certo una ammissione di generosità (‘questo è mio: prendilo’). Dunque, la comunicazione c’è per offendere – chi infrange il privato: ‘no, questo non è tuo, è mio’. Poi c’è chi con il linguaggio elude la comunicazione banale e scrive una poesia.
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Ottant’anni fa Henry Miller conclude Tropico del Capricorno con una ammissione. “La morte è dietro di me e anche la vita. Adesso voglio vivere fra le malattie della vita. Voglio vivere la vita spirituale del pigmeo, la vita segreta del piccolo uomo nella boscaglia selvaggia. Dentro e fuori si son scambiati di posto. L’equilibrio non è più la meta, la bilancia dev’essere distrutta… Lasciami marcire nello splendore mentre il sole ti scoppia nell’utero”. Dire che Miller – come conclude la Blair – “non si è occupato abbastanza delle donne” è una cretinata, perché Miller ha l’indecenza del poeta, ha la malizia di chi titilla il caos. Non è un filosofo, non è un petulante opinionista – lo scrittore può permettersi ogni cosa, nell’unico spazio non conforme, anormale che l’uomo ha scavato come riparo ai vizi e agli angeli. Per salvare la propria natura dalla barbarie sociale.
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L’artista “deve rovesciare i valori costituiti, deve fare del caos che lo circonda il suo ordine, deve seminare fermento e discordia, così che, per uno slancio emotivo, i morti possano essere restituiti alla vita”. Questo era il compito di Miller, specie di Isaia-iena, di profeta a contrario. Per me gli artisti non hanno doveri precostituiti – l’apologia del caos equivale all’elogio dell’ordine – ma ossessioni da verificare, storie in cui affondare. Però, lo scrittore dà la vita ai morti; i censori dell’era presente invece vivono per dare la morte, per mortificare la scrittura. (d.b.)