Quarant’anni fa, William Golding è premiato con il Nobel per la letteratura. I suoi diari – finora inediti, mostrati a brandelli dall’efficientissima William Golding Limited – registrano un aplomb statuario.
“6 ottobre 1983. All’una e cinque la notizia è passata alla radio e alla tivù: ho vinto il Nobel. Il telefono ha squillato per tutto il giorno. Ho preferito andare a cavallo”.
Il giorno dopo, per festeggiarsi, Golding invita la moglie a cena. Si chiamava Ann, l’aveva sposato molti anni prima, nel 1939; avevano due figli: David e Judith. “Ho infranto la mia astinenza bevendo una bottiglia di vino bianco”. Dietro l’algido Golding, cristallizzato in un cupo humour, si nascondeva un uomo marchiato dagli abissi dell’alcolismo.
Il Nobel scatenò patetiche polemiche. Gli scommettitori avevano puntato su Jorge Luis Borges e Marguerite Yourcenar; “un giudice svedese dissentì dal verdetto del Nobel dicendo che non ero altro che un piccolo fenomeno inglese senza importanza”. William Golding aveva compiuto da poco 72 anni: la barba bianca e lo sguardo penetrante gli conferivano lo status di un navigatore, di un re dei mari. Impegnato nella Royal Navy, in effetti, durante la Seconda guerra, Golding si era distinto partecipando allo sbarco in Normandia e nella battaglia che aveva portato all’affondamento della corazzata tedesca “Bismarck”. Durante il discorso per il conferimento del Nobel, Golding cominciò stigmatizzando la propria età (“sono tra i laureati Nobel più vecchi”) e la nomea che lo accompagnava:
“Chiunque di voi abbia una qualche conoscenza del qui presente oratore… si sarà rassegnato a una mezz’ora di tetraggine senza scampo”.
Lo scrittore che aveva sondato i meandri del male, disse, in sostanza, che un grande artista “deve ricordare di non prendersi con inappropriata serietà”. Nei diari un pensiero analogo è espresso in forma più audace, così:
“Mi sento come un imperatore romano il cui schiavo prediletto, al cospetto del suo trionfo, continua a sussurrargli: Ricorda che sei soltanto un misero mortale”.
Tre anni prima del Nobel, William Golding aveva pubblicato uno dei suoi romanzi più belli, più noti, Riti di passaggio. Ambientato ai primi dell’Ottocento, su una nave inglese diretta in Australia, il libro ha al centro la caduta del reverendo Colley, “sopraffatto dalla gentilezza d’animo e da due o tre sorsate in più di liquore”, reo di sodomia. La società ‘chiusa’ – la vita nella nave – è spietata: assegna al romanzo una potenza claustrofobica. La morale della favola – “Sto diventando un po’ pazzo, credo, come tutti gli uomini che, in mare, vivono troppo vicini l’uno all’altro e troppo vicini, quindi, a tutto ciò che c’è di mostruoso sotto il sole e la luna” – è in puro stile Golding: l’uomo, creatura posseduta da bassi istinti, tigrata dalla colpa, è lupo per il prossimo suo. Riti di passaggio vinse, nel 1980, il Booker Prize, sovrastando romanzi a tratti mirabili: Gli strumenti delle tenebre di Anthony Burgess, Chi ti credi di essere? di Alice Munro, Chiara luce del giorno di Anita Desai.
Il libro di Golding stupì per l’arditezza compositiva: al diario di Edmund Talbot, giovane, spavaldo aristocratico destinato ad alti compiti nel Nuovo Galles del Sud, s’intrecciano le lettere di Colley, che svela il torbido dall’interno. L’inglese adottato da Golding – volutamente involuto – è quello dei libri di bordo dell’epoca: per chi ha dimestichezza con il genere, ricordano i taccuini di James Cook, l’augusteo esploratore. Riti di passaggio è il primo tassello di una trilogia, “Ai Confini della Terra”, compiuta con Calma di vento (1987) e Fuoco sottocoperta (1989). Il ciclo, nell’antica traduzione di Pier Francesco Paolini e Mario Biondi, ritorna per Longanesi: venduto come “la grande trilogia del mare” non ha nulla a che fare con l’energumeno Moby Dick o con i libri all’assalto di Joseph Conrad. Insegnante di scuola, steineriano per un tot, con la fissa di Dio e del suo ustorio opposto, il demonio, William Golding ha la stoffa del puritano inglese, dell’oratore puro che alterna la Bibbia a Laurence Sterne.
Nonostante il successo critico di Riti di passaggio, Golding pigliò il Nobel – motivazione come di consueto anodina: “per i suoi romanzi che… illuminano la condizione umana nel mondo di oggi” – grazie a un libro scritto trent’anni prima, Il Signore delle Mosche. Romanzo di catartica bellezza, che rovescia i crismi della children’s literature (per dire: L’isola del tesoro, Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie etc.) in cupa speculazione sulle umane ferocie, deve tutto al genio di Thomas S. Eliot. All’epoca direttore editoriale della Faber, Eliot aveva rifiutato La fattoria degli animali di George Orwell, autore con cui aveva poca sintonia, ma s’innamorò del manoscritto di Golding. Secondo i documenti della casa editrice – in parte svelati da Toby Faber in Faber & Faber. The Untold Story, 2021 – il romanzo di Golding non era piaciuto al lettore cui era stato affidato. Lo aveva descritto come una “Fantasia assurda e poco interessante sull’esplosione di una bomba atomica nelle colonie. Un gruppo di bambini sbarca in una giungla prossima alla Nuova Guinea. Noiosa spazzatura. Inutile. Rifiutare”. Charles Monteith, braccio destro di Eliot, formidabile editor – ha lavorato, tra gli altri, per Samuel Beckett, Ted Hughes, Alan Bennett e P.D. James – intuisce qualcosa di buono in quella perfida nota. Legge il manoscritto. Convoca l’autore. Si consulta con Sua Maestà Eliot. Per prima cosa, cambiano il titolo. “Strangers from Within” diventa Il Signore delle Mosche, ponendo il romanzo sotto egida biblica, demoniaca. Segue microscopico lavoro di lima. Infine, Monteith esulta: “Ormai l’ho letto quattro o cinque volte, e il mio parere è condiviso da altri in redazione. Alcuni, dopo la lettura, hanno avuto gli incubi. Che libro fantastico!”.
Il romanzo si rivelerà uno dei casi editoriali del secolo: per decenni sarà il libro più letto dai liceali insieme al Giovane Holden. Uscito in concomitanza con il primo volume del Signore degli Anelli, ne rappresenta il coerente contrario. Il romanzo epico di Tolkien racconta la lotta contro il Male, un male senza spiragli di conversione; il romanzo iperrealista di Golding dice che il male alligna perfino nell’innocente cuore dei bimbi, pronti a scannarsi appena si offre succulenta occasione.
William Golding – autore difficile, difforme, estraneo ai salotti – continuò a scrivere romanzi forse non eccezionali, ma sempre eccessivi. Uno di questi, Il destino degli eredi (1955) è stato riproposto da Mondadori un paio di anni fa: racconta, con linguaggio prelogico, d’invenzione, la storia di una comunità di uomini di Neanderthal. La guglia (1964), ambientato nel Medioevo, narra il delirio del decano Jocelin, impegnato nella costruzione di una babelica torre campanaria. The Scorpion God (1971), per dire dell’onnivoro talento di Golding, assembla racconti ambientati nell’antico Egitto, nell’antica Roma e nell’Africa preistorica: in Italia non l’ha ancora tradotto nessuno. Secondo Filippo Donini, dietro il palese menefreghismo dell’editoria italica nei riguardi di Golding, premio Nobel ridotto a un unico libro, ci sarebbero questioni ‘politiche’ più che di poetica:
“non marginali sono le responsabilità della critica di scuola marxista, per lungo tempo predominante nel nostro Paese, che ha visto in uno scrittore così tragico, feroce ma per nulla interessato ai conflitti di classe, un narratore poco adatto a essere inserito nelle sue categorie di riferimento”.
Quanto a Golding, aveva capito tutto subito. In una poesia – Golding nasce poeta, con un libro, Poems, del 1934, pressoché introvabile –, lo scrittore descrive una fenice che “si alzò in volo, la cresta/ e il piumaggio perfetti… pari a un gioiello volto verso il sole”. Gli uomini – re e volgari, borghesi e schiavi – guardano la belva simbolica “senza capire”. Perfetta metafora dello scrittore, che si libra frainteso da tutti. “Scrivo poesie in latino per non correre il rischio di diventare un poeta alla moda”, specificò Golding.
Dopo il discorso tenuto a Stoccolma, era l’8 dicembre del 1983, allo scrittore fu offerta una cena il cui pezzo forte era una bistecca di renna. “Piuttosto buona”, ricorda William Golding. Sul menù era istoriato, in corsivo, a lettere d’oro, il suo nome. Gli parve di aver mangiato se stesso.