È molto difficile al giorno d’oggi potere scrivere dei luoghi, soprattutto dei luoghi dove si è depositata troppa letteratura, dove troppe parole sono state spese per descrivere talora in un circolo vizioso e ripetitivo paesaggi e monumenti ormai stranoti anche a chi non vi ha mai messo piede. La smodata inflazione verbale e visiva del mondo attuale incrosta di parole e immagini il più delle volte superflui luoghi che dovrebbero invece esserne depurati, riconsegnandoli a una percezione più immediata, a uno sguardo immemoriale.
“I viaggi sono finiti”, scriveva Claude Lévi-Strauss in Tristi tropici.
L’uomo ha esplorato in lungo e in largo ogni più riposto angolo dell’orbe terracqueo, ha ristretto nei limiti della geografia conosciuta quello che prima era materia di sogno, di fantasticheria, e si può dire che anche la letteratura di viaggio spesso non faccia che ripercorrere i sentieri già battuti, relegandosi a una fascinazione dell’esotico tanto più anacronistica quanto più è morto l’esotismo stesso. Forse l’esotico può essere ancora rintracciato non in certe destinazioni remote, appannaggio dei turisti più che dei viaggiatori (il turismo è una categoria fisica, il viaggio è una categoria spirituale), ma proprio in ciò che sta sotto i nostri occhi, nei luoghi domestici, nelle città dove abbiamo sempre vissuto.
I turisti di oggi vengono rimbalzati da un aeroporto all’altro del globo spesso senza farsi nessuna domanda profonda su ciò che hanno visto mentre, per contro, si può a volte fare il giro del mondo anche restando nella propria città o, addirittura, nella propria stanza. Quando Raymond Queneau scrisse la sua guida Connaissez-vous Paris?, formulata ludicamente a domande e risposte, ebbe a dire che percorrendo la propria città aveva avuto la sensazione di avere compiuto il giro del mondo.
Ogni arrondissement di Parigi, anzi, ogni suo scorcio presenta una fisionomia unica e dissimile da tutte le altre. Parigi non è una città ma un mondo; è, come disse Montaigne nel Rinascimento, “la gloire de la France est l’un des plus nobles ornemens du monde”.
Che cosa dire su Parigi che non sia già stato detto e ripetuto fino alla nausea?
Solamente la penna di un grandissimo scrittore può compiere il miracolo di rendere nuovamente fresca e vergine la percezione di una città che fu “la capitale del secolo diciannovesimo”, per dirla con Benjamin, e che come nessun’altra ha scatenato l’immaginazione degli scrittori, degli artisti, dei cineasti. Il miracolo è riuscito a uno scrittore come Julien Green che, nato e morto a Parigi, nutriva un amore fisico per la propria città, amata carnalmente, come si amerebbe un essere umano, e che di essa conosceva i più riposti segreti, gli angoli più celati.
Adelphi manda ora in libreria la prima traduzione italiana, egregiamente eseguita da Marina Karam, del piccolo e prezioso libro Parigi, la cui incomparabile bellezza preclude in partenza la possibilità di parlarne se non affidando la parola allo stesso Green. Non si troverà in queste pagine la Parigi del turista (invisa a Green, che non nasconde la sua avversione, covata sin dall’infanzia, per la Tour Eiffel, che mille volte aveva desiderato affondasse), di chi percorre itinerari obbligati sottoponendosi a tours de force massacranti in cui talora nulla si vede veramente e i cui tempi sono dettati non da una misura interiore ma da esigenze esterne ed eterodirette. Vi si troverà invece un tesoro molto più gelosamente nascosto, quello della Parigi del flâneur, di chi può smarrirsi in una città, negli infiniti meandri delle sue strade e delle sue atmosfere, di chi può disporre del tempo e del lusso di perderlo, senza dirigersi verso una destinazione precisa. Per viaggiare si deve essere investiti dalla Grazia di potere perdere tempo.
Il libro, in una sorta di elogio della serendipity, si snoda come “una lunga passeggiata senza meta, nel corso della quale non si trovano le cose che si cercano ma molte altre che non mi stavano cercando”. Quasi non fa parola dei grandi monumenti, delle glorie architettoniche maggiori. L’Arc de Triomphe non è mai menzionato e Green non ci conduce per mano tra le sale del Louvre; giunge a vagheggiare la scomparsa nella notte del Gran Palais e del Petit Palais (“disonore del Cours-la-Reine”), il Beaubourg con le sue tubature colorate lo irrita e su Notre Dame non vuole scrivere più di tanto perché, pur amandola perdutamente, non saprebbe che cosa aggiungere a quanto già è stato detto nei secoli.
“Le mie preferenze vanno alle vecchie pietre, lo ammetto, ma morirei di noia se dovessi scrivere una pagina sull’Hôtel des Invalides, perché, pur amandolo moltissimo, non saprei davvero cosa dire. Allo stesso modo resterei muto di fronte a Notre Dame… Personalmente preferisco tacere e Notre Dame rimane per me Notre Dame e basta”.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, vissuta negli Stati Uniti, Julien Green resta separato per cinque anni dalla sua città natale e cade in preda a una lancinante nostalgia, giungendo a compiervi delle fughe in sogno quasi ogni notte, abolendo le distanze, abolendo la gran massa d’acqua dell’Oceano. Proprio la distanza gli consente di mettere meglio a fuoco quella Parigi oggetto d’affezione che solo una separazione fisica poteva però fargli scorgere con maggiore lucidità. Da allora non si separa più da Parigi se non per brevi viaggi che servono solo a fargli percepire meglio lo spirito della metropoli e dei suoi abitanti, lo spirito ribelle di ogni parigino, l’“irritante mistero” che serba ogni sua esistenza, anche la più semplice, la somma dei suoi segreti che lo stimola e a volte lo schiaccia, dando nutrimento, oltre che a queste pagine, anche ai suoi romanzi e alle prose d’invenzione.
Indugia sulla Senna e sulle cassette colme di vecchi libri polverosi dei bouquinistes e nel grande fiume scorge il riflesso di tutto ciò che è inconscio, istintivo, inespresso (vien da pensare al “torbido” della Senna in cui si rimescola e si riconosce Ungaretti ne I fiumi).
La città assume contorni visionari, si smaterializza quasi; la materia si avvicina all’invisibile.
“Era una Parigi fatta di visioni quella in cui passeggiavo allora, una Parigi intensamente reale, ma che migrava in maniera impercettibile dalla carne allo spirito”.
L’anima della città gli si rivela dall’alto, magari dalla cupola del Sacré Coeur, “ed è nel silenzio del cielo che si ode l’immane, patetico grido di orgoglio e di fede che essa innalza verso le nuvole”.
La memoria, in questo itinerario nella Parigi segreta dove i turisti non penetrano, vaga nella Passy semibucolica di inizio ’900 in cui Green muoveva i suoi primi passi, facendoci visitare scorci dimenticati del quartiere; una Passy dal sapore ancora agreste opposta alla boria dei parvenus, dei nuovi ricchi che l’hanno colonizzata.
Lo guida lo sguardo della memoria e, se vuole rivedere la Parigi perduta, è dentro di sé che la ritrova. Lo incantano gli ippocastani del Trocadéro (di cui è rievocato il palazzo moresco, demolito per l’Esposizione del 1937), uniti a lui da quell’amicizia particolare che si concede solo agli alberi; si perde nelle ombre e nelle vetrate di Saint-Julien-le-Pauvre, la cui parvenza da chiesa di campagna è tuttavia “quadrata, salda e placida come un ragionamento di San Tommaso”.
Green evoca edifici e atmosfere definitivamente perdute, cose apparentemente futili e banali del quotidiano che restituiscono la vividezza degli istanti e degli esseri umani con il nitore di una fotografia di Henri Cartier-Bresson o di Robert Doisneau. Parigi lascia il segno, imprime il suo suggello su ogni cosa. “Nel bene e nel male, ciò che esce dalle mani di Parigi è Parigi, che sia una lettera, un pezzo di pane, un paio di scarpe o una poesia”. Quegli stessi umili oggetti della vita di ogni giorno in un’altra città avrebbero un’altra aura ed un altro significato.
Le scale lo inquietano, sembrano condurlo in profondità dell’inconscio che preferirebbe non sondare, ma a popolare queste pagine è anche il vago turbamento delle tante scalinate parigine che appaiono talora nelle prospettive più stranianti. Ci accompagna in luoghi poco noti come il chiostro delle Billettes o nel piccolo e meraviglioso atelier di Delacroix in Place Furstemberg, “un’oasi nel nostro secolo, così tristemente privo di poesia”.
Nel quartiere del Palais Royal lo ammaliano “i negozi di seterie, di passamanerie, di vecchi libri, i venditori di vecchie bambole con capelli veri” e vi si materializzano i fantasmi di Cocteau e di Colette, entrambi abitanti del Palais Royal e dei cui salotti Green fu assiduo frequentatore.
“Tolta Parigi, il resto del mondo diventa terra lontana, come per Villon”.
“Perché attraversare mari, catene montuose, vedere… donne gialle, verdi e azzurre, affrontare le turbolenze degli aeroporti e la noia delle crociere per andare a cercare dall’altra parte del mondo, in mezzo alle folle o nei pochi luoghi deserti che restano, ciò che la nostra città ci offre con tanta generosità: in primavera, cieli cangianti come le stoffe marezzate sui banchi di rue du Mail o di rue du Quatre-Septembre; in autunno, il fascino dell’ora blu subito prima delle luci sulfuree della sera; d’inverno, i suoi cieli verniciati di rosa e i suoi marciapiedi luccicanti; e d’estate, nelle strade vuote, i suoi tramonti da fare invidia alle pareti vertiginose del Grand Canyon, mentre, riflessa da migliaia di finestre, l’esplosione rossa di quel cuore immenso non smette, come il mio, di battere per Parigi”.
Alessio Magaddino
*In copertina: Robert Doisneau, Baiser Blotto, Paris 1950 © Atelier Robert Doisneau