“Qualcosa come il mare, / Momento d’acqua non elaborato, / Ma che va da qualche parte, / Costruendo e ritirandosi”, scrive Lawrence Durrell nei primi quattro versi di Style, così definendo la sua visione dello stile poetico.
Come l’acqua marina, elemento fondamentale dello scrittore maniaco delle isole, che sempre amò vivere nei pressi di un porto, apolide di sangue irlandese, nato tra le vette indiane e a lungo rifugiatosi sulle rive mediterranee.
Dato messo in evidenza da Henry Miller, suo mentore, primo a credere nella sua scrittura, è l’ancòra greca Alessandria d’Egitto, crogiolo o stagno di culture e religioni, il vero e proprio tema di fondo della personalissima Ricerca del tempo perduto in quattro romanzi, – il “Quartetto di Alessandria”, – che Durrell scrisse nel corso del suo ulteriore esilio, dopo esser fuggito dalla tanto agognata e amata Corfù per poi sbarcare a Rodi: “La città [Alessandria] non gioca qui un semplice ruolo di scenario: è un’entità vivente, un essere un poco mostruoso fatto di carne, di pietra, di crimine, di sogno o di mito”, e in essa il corpo, o per meglio dire l’erotismo, si fa gioco di specchi della memoria, come annunciato dalla prima delle due citazioni, questa dalle lettere di Freud, – l’altra è del Marquis de Sade, – poste in esergo alla prima opera della serie, Justine, titolo che già di suo evoca il ben più delirante e scandaloso narratore della perversione cui ha dato per l’eternità il proprio stesso nome: “Comincio a credere che ogni atto sessuale sia un processo nel quale quattro persone si trovano implicate.”
E così ovviamente è nella tetralogia, il cui gioiello è il secondo volume, Balthazar, che a leggerlo fa venire voglia di parafrasare la secca premessa di Giuseppe Berto a La cosa buffa, con una frase del tipo: “Io sono per un mondo durrelliano e ciò è impossibile.” Già, impossibile, forse, o semplicemente sempre più arduo, ma ancora realizzabile in luoghi che non garantiscano solo e soltanto quella che Carmelo Bene, freddamente, crudelmente, definiva l’invivibilità della vita: senza bisogno di menzionarli, gli si opponga dunque l’Alessandria di Durrell – l’Alessandria romanzesca ma anche quella delle poesie, raccolte nelle pagine di una collezione ovviamente mai stata tradotta in italiano. Perché non c’è romanziere e poeta che nel Novecento sia riuscito a trascrivere con eguale efficacia, a livello di sensazioni tanto esteriori quanto interiori e vale a dire in moderni correlati oggettivi, tra il concreto e il mentale, l’intima dimora, il fatto che i luoghi modellano e rimodellano l’anima – siano essi una città, una villa, la stanza di una pensione o una terrazza battuta dai venti, aggettata sulla costa mediterranea.
È “L’Occhio Immenso” delle isole greche, e qui quello del Faro di Alessandria e della città tutta, “un paesaggio come un occhio” che guarda, e, riguardando gli esseri, ne definisce i pensieri, le meditazioni, le ugge e gli amori, che vi si riflettono.
La poesia durrelliana è fatta così del suono della pioggia contro una finestra e di una curva di donna, del mare increspato e di lenzuola stropicciate, di un tavolo, di un bicchiere di vino e di un piattino d’olive, e dei Genî dei luoghi che li abitano.
È una poesia della dimora, scritta paradossalmente da un vagabondo dalle Indie all’Inghilterra, dalla Grecia all’Argentina, a Belgrado, a Gerusalemme, e alla Provenza, infine. Meno paradossalmente da un cerebrale che in un suo verso greco-egiziano si dichiara presunto solitario e in fondo, a dispetto di tutto, specie di tanti abbandoni, piuttosto felice. Perché si ritrovò a scrivere in luoghi che seppe amare, e che ebbero modo e seppero farsi amare, sufficientemente a lungo, e in cui la grafomania esplose e trovò una sua forma. Moderna come quella di Proust, di Joyce, dello stesso Miller, e del miglior Millet, autore di un meraviglioso Dictionnaire amoureux de la Méditerranée, in epoca più recente.
Una forma moderna come poche. Di quelle in cui il flusso della narrazione e delle descrizioni scivola come le onde sulle battigie di Alessandria o di Patmos: “Non sono né felice né infelice: vivo nella sospensione, come una piuma”. Così si tratteggia in Justine, tra le cui pagine lamenta tuttavia in modo costante il proprio eterno esilio, ritirarsi e costruirsi. Ancora: “Una città diventa un universo allorché si ama uno solo dei suoi abitanti.” Oppure: “Nella grande tranquillità di queste sere d’inverno c’è un orologio: il mare.” Turbolenta superficie, sulla quale scarabocchia idealmente parole come in una fuga: “Vuote cadenze delle onde che si leccano le loro proprie ferite, fosche nelle sciancrature del delta, effervescenti su queste spiagge deserte… vuote, eternamente vuote sotto il volo circolare dei gabbiani”. Con l’amore e la morte che tentano se mai ciò è possibile di compensarsi a vicenda: “Ah, la miseria dei porti e i nomi che evocano quando non avete nessun posto dove andare! È come una morte, una morte di tutto l’essere, ogni volta che si pronuncia la parola Alessandria, Alessandria.”
Se tutte queste citazioni sono dalle pagine di Justine, in questo testo c’è una frase – “i luoghi modellano e rimodellano le anime”, da cui la necessità di vivere in luoghi il cui genio sia quello della grazia, della dolcezza, dello sguardo, della delicata intensità, – una, che non è tratta né dai versi di Durrell né dalla sua tetralogia, ma che l’appassionato lettore si appuntò in quel di Avignone – città cui lo scrittore anglofono, dopo l’alessandrino “Quartetto”, dedicherà, negli ultimi anni della sua ritirata esistenza a Sommières, non lontano da Nîmes, un “Quintetto”, – il giorno 24 giugno 2011, sotto la citazione posta in esergo a Caesar’s Vast Ghost – Aspects of Provence in traduzione francese (libro di viaggio del 1990, con cui l’autore si congedò da questo mondo, lasciato il 7 novembre di quello stesso anno). È da una lettera di Van Gogh al fratello Theo, e richiama al legame tra Provenza e Grecia, marmorizzato nelle Veneri di Lesbos e di Arles, nate dalla spuma delle acque (Arles, sebbene oggi sia difficile immaginarlo, fu un importante porto che rivaleggiava con Marsiglia, la perla foceana).
La seconda delle due Afroditi è il pezzo forte del museo locale, non lontano da quegli Alyscampes in cui la nobiltà di un intero Continente sognò per secoli d’esser sepolta. Le ceneri di Durrell riposano a Sommières, nella cappella di Saint-Julien.
I passi tradotti da Justine, lo sono dalla versione francese (via l’editore Buchet-Chastel, anno 1959, da decenni “Le Livre de Poche”, al grazioso prezzo di 7 euro e 40 centesimi – e sempre siano lodati li franzosi, direbbe un altro Marchese, quello del Grillo, perché loro sono loro e altri invece no), e non da quella italiana (e dice: “Einaudi!”), cui manca un titolo del Quartetto, Clea, evidentemente fuori catalogo (fa eco: “Appunto!”), grazie agli editori italioti, che, dopo il primo lancio del grande scrittore da parte di Longanesi (era il lontano 1966), sono, purtroppo, quel che sono, ovvero italioti, per non esser scurrili come il nobile romano interpretato da un Alberto Sordi magistrale; cui pure non si può che prediligere la grazia della poesia della dimora di Durrell, magari con caminetto d’inverno – ma senza ingombro del Quattro, del Cinque, del Sei, del Settecento, e solo con la visione di un Novecento, visto con Style, e giova, ed è gioia, ripetere: “Qualcosa come il mare, / Momento d’acqua non elaborato, / Ma che va da qualche parte, / Costruendo e ritirandosi”, amin!
Marco Settimini
***
Conon ad Alessandria, I
Mucchio di cenere di quattro culture,
Delimitato da Mareotide, un lago salato,
Sul quale la pioggia invernale risuona e imbianca,
Nelle acque, contrae come occhi.
Sono stato vincolato qui per quattro anni:
Un tempo di condanne accanto allo sgabello:
Profezie da coloro che son nati morti,
Che han perso il loro carattere ma conservato il loro gusto.
Un presunto solitario piuttosto felice,
Che scrive quelle interminabili querule lettere,
Sulle lunghe spiagge increspate dalla pioggia,
Assaporando il vento insulare
Soffiato contro labbra umide e persiane fuori Rodi.
Dico “presunto”, ma non l’avrei detto altrimenti.
***
Dei passi van giù al porto
Oltre il Faro. Oh, miei amici cari,
Di certo presto finiranno queste notturne visitazioni
Di isole nel sonno di una persona?
Sono stato a guardare vicino agli altri,
Ma sempre il più premuroso, il più esigente:
Le famigliari carte su un tavolo accanto al letto,
Al piatto di olive e al bicchiere di vino.
Pensereste che pensieri tanto a lungo provati
Come la secca frizione di corde nella mente
Cesserebbero di condurmi là dove in Grecia
Brucian le candele alla mandorla e le statue.
I freddi fuochi ribollenti della luna su questa città bianca,
Per quattro febbrai non ho dimenticato.
***
Stanotte le stelle premono indolenti sui nervi
Come in una ragnatela, pesanti con disseminazione:
Punti di rugiada in un universo troppo largo
Troppo formale per esser più che terribile.
“Ci sono lati del sé che uno può
“Mostrare raramente. Vivono ancora e ancora
“Sempre in un’emergenza d’angoscia,
“Attendendo dei genitori in un’altra.”
Direste che in seguito, leggendo
Una così semplice preposizione, lo storico
Potrebbe trovarsi a dire: “Il critico
“In lui ha fatto dello spirito, di questa passione.
“Le equazioni di una mente troppo cosciente delle idee,
“Finzioni, non baci, attraversavan l’acqua tra di loro”?
***
Conon ad Alessandria, II
E poi, Primavera, che esige queste separazioni
Non farà che definirti ulteriormente mentre muore
In fiori puri e senza peli come la guancia di Portia,
Forse interrompendo le conversazioni di amici
Su terrazze su cui le fontane a volte planano,
Per lasciar precipitare questo piccolo acido nella memoria,
Di qualcosa di piccolo, mandato a puttane e buttato da parte.
“Separazioni come questa sono fortunate. Perlomeno feriscono.”
E poi il focolare di una filosofia
Che potresti avere aggiunto: “Il deserto, sì, per esilî.
“Ma la sua immensità ne racchiude soltanto uno ulteriore.
“La sua fine sembra sempre in se stesso.”
Un abito macchiato sotto l’ascella dal corpo di una donna.
Una lettera non conclusa, perché l’inchiostro è finito.
***
Gli amanti che descrivi mentre “si separano l’un l’altra
“Ulteriormente a ogni bacio”: e il tuo ritratto
Di un uomo “occupato ad attendere amaramente
“Il giorno in cui l’arte dovrebbe diventare inutile”,
Erano nello stile e nell’ordine, come quando dici
“La libertà, da sola, imprigiona”; ma mostrano un amore,
Tutto frammentato dalla coscienza e dall’inganno,
Finendo su questa costa di fari rimossi?
O quella negletta e immeritata Abitudine,
La struttura che così a lungo permeò la nostra crescita?
Domande per il muro di un giardino d’infanzia! Ma son conformi?
Ho passato tutta questa giornata in quella che chiamerebbero pazienza.
A non scrivere, solo alla mia finestra, col mio flauto,
Avendo letto in una lettera quell’ultimo immortale febbraio
Che “La musica è soltanto amore, in cerca di parole”.
***
Mareotide
Ora la Primavera si apre dappertutto
Come una palpebra ancora sfuocata,
Non ancora vigile nell’espressione o nella profondità,
Ma integra e sorridente, nel risvegliarsi dal sonno.
Gli uccelli hanno inizio, truffatori del mattino.
I fiori e le maniere selvagge hanno inizio:
E la navigazione del corpo nel suo amore
Attraverso ali, messaggi, telegrammi
Sciolto e disincarnato vaga per il mondo.
Solo noi siam qui trattenuti
Sull’amore razionato — un paesaggio come un occhio,
In cui il vento digrigna i denti davanti a Mareotide,
Indurisce le canne e il sale luccicante,
E nelle antiche strade il vento,
Non sottile, non confidente, tocca ancora una volta
La malinconia il gomito la guancia e la carta.
***
Alessandria
Ai fortunati che hanno ora amanti o amici
Che si muovon verso i loro dolci fini inesplorati, felici,
O imbrogliati dalla cospirazione, dal grande inganno,
Auguro queste foglie turbinanti d’autunno:
Promontori spruzzati dal mare salato,
Nel buio dal tram un cigolante suono
Verso orizzonti d’amore o buona sorte o più amore —
Come me che sto ora a passare,
Attraverso tante negazioni, verso ciò che sono.
Qui nell’ultimo freddo il Faro tra la Grecia
E tutto ciò che amo, le luci confidano
Un’oscurità più profonda alle sfreganti onde;
Porte chiuse, e noi, viventi che si rinserrano
Tra le ombre e i pensieri della pace:
E così in stanze ammobiliate ripassiamo
Da gesti possibilmente dimenticati, gli indici
Delle nostre amanti e dei nostri amici,
Ma i fini delle brame come nervi scollegati,
E in questa tranquilla prova dei loro atti
Sogniamo di loro e li accudiamo come Fatti.
Ora quando il mare cresce irrequieto come un coscritto,
Eccitato dal vento fresco, scavallando il frangiflutti,
Gli cammino accanto e penso a voi tutti
B. col suo rispetto per l’Oggetto, e D.
A cercar nel sesso come in una grande dispensa di barattoli
Con scritto “Prugna e mela”; e la piccola, crudele
Figura di Dorian che suona come un allarme col suo segnale —
Proprio tutti quelli che la guerra o il tempo rigettaron
Su questo litorale e che queste maree non potevan superare
Erano oggetti del mio studio e del mio amore.
E poi voltandomi là dove l’ultimo pallido
Faro si erge, come un Sansone accecato,
E fa girar sulle sabbie l’enorme occhio suo carbonizzato
Penso a te — davvero soprattutto a te,
In cui uno scrittore nominerebbe e soltanto perderebbe
L’ammaccato labbro del ragazzo e le strette
Spalle del Sagittario; ma qui per ritrovare
Tra maree e guasti del tempo, nella pioggia
Che tutto, il critico e l’amante, sa lavare.
Alle porte dell’Africa così tante città fondate
Su una separazione potrebbero diventare Alessandria, come
La moglie di Lot — una metafora del pianto;
E lo strano studente nella sua piccola calda
Stanza al decimo piano sopra il porto ode
Le sirene che scuoton l’albero del suo cuore,
E chiude il libro che sfoglia,
Mentre le più inesprimibili nostalgie come ferite non ricucite
Agitano in lui l’inquieto fantasma di una qualche fanciulla.
Così noi, imparando a soffrire e a non condannare
Possiamo solo augurarvi questo grande puro vento
Condannato dalla Grecia, che come un timone si trova a girare
Verso la terra dove fumano i fuochi degli uomini,
Fa volteggiar le banderuole sulle fattorie e sorprende
Gli amanti nel loro alterco tra le lenzuola;
O come camminando nel buio potrebbe fare un uomo
Che bussa e distoglie l’artista dalle sue carte,
Là sulle alpi della notte, lassù da solo.
***
Gli aneddoti, VI – Ad Alessandria
Di nuovo tutta la notte il vento tra prismi:
Di nuovo solo, di nuovo sveglio nella casa del Sufi,
Gravato da questo amore che non espira,
Inceppato come una cartuccia nella culatta
Lasciando il letto col suo cuscino ammaccato,
Il paio di scarpe allertate sul pavimento.
È più della somma dei suoi errori, la vita?
Vasche di carne chiara, donne egiziane:
Favori, kohl, sapore di negro dei semi,
Pepe o limone, che a qualcuno sfuggon dai denti
Biforcati come gambi di sedano gementi.
Molto dopo viene il bussar sul pannello,
Il corvo nei terreni:
Alle quattro e mezza l’odore del raso, del cuoio:
La pioggia che cade nello specchio sopra il demente
Mescolìo di vasi di fard e costoso profumo,
E la sensazione di un qualche grosso scandalo incombente.
***
Gli aneddoti, VII – Ad Alessandria
Potremmo venir tutti insieme ogni tanto
E sarà tempo di porre fine
A questo piccolo strofinarsi insieme di parole minime,
Per lasciar che la Parola Prima riposi a suo modo
Come il tuorlo riposa nella sua fortezza di albume,
Contento della proprietà circolare
Della sua amaca nel formale respirante uovo.
Proprio come in scultura l’idea
Non deve con la sua stessa aneddotica grossolanità
Affondar lungo l’armatura della materia,
Il modello della sua veste terrestre:
Ma essere un filo a piombo per il peso nello spazio…
Il tutto basandosi sull’ideogramma
Come su una lama di coltello, che mai davvero taglia,
Eppur sempre affilata, come questa esatta metafora
Per la perpetua e inutile sofferenza esposta
Dalla coscienza nell’atto stesso della scrittura.
Lawrence Durrell
*traduzioni di Marco Settimini