28 Aprile 2023

François Weyergans, lo scrittore anticonformista tra i folli del deserto

A volte, la cecità editoriale nostrana ha i tratti dell’invidia, l’itterizia delle scelte isteriche.

In memoria di François Weyergans, morto a Parigi nel 2019, Gallimard ha raccolto in unico volume i suoi Romans: tomo monolitico – 1376 pagine – per affrontare “l’opera singolare di uno scrittore anticonformista”. Per lo più sconosciuto nel nostro paese. Eppure, si tratta di uno degli scrittori più onorati di Francia – si è intascato il prix Renaudot nel 1992 e il Goncourt nel 2005, sconfiggendo all’ultimo miglio Michel Houellebecq, che concorreva con La possibilità di un’isola –, ricevuto tra gli “immortali” dell’Académie nel 2009, nonostante i suoi sussiegosi ghigni (“l’uniforme dell’Académie è complicata, la giacca verde, lo spadino… correvo e lo spadino mi sbatteva sulle gambe, la gente si fermava, i turisti pensavano che stessi girando un film comico in costume”). Fu introdotto tra i togati da Erik Orsenna, andando a ricoprire il seggio numero 32, che fu prima di lui di Alain Robbe-Grillet.

Per carità, la vita di François Weyergans non si presta all’agiografia o alla polemica facile. Nato in Belgio nel 1941, cresciuto in Francia, folgorato dall’opera di Bresson e di Godard, il ragazzo si applica, in primo luogo, nei ranghi de “Les Cahiers du cinéma”. Pratica come regista. Il primo corto è un documentario dedicato a Béjart; gira alcuni film, dimenticati; l’ultimo, Couleur Chair, viene mostrato a Cannes nel 1978, vale la pena almeno per gli interpreti: Dennis Hopper e Veruschka. D’altronde, dal 1973, con Le Pitre, François Weyergans comincia una attività letteraria di notevole prestigio.

Il libro della svolta esce per Gallimard nel 1981: è la storia di Macaire le Copte, schiavo di Coptos, Egitto, che nel IV secolo sceglie la via del deserto, dopo aver scoperto il Vangelo. Il romanzo – ancora inedito in Italia, di cui traduciamo le prime pagine, in calce – viola il genere agiografico, alterna la novella all’analisi psichica, bordeggia l’eresia: e se nella filiera dei miraggi, tra i deserti, Dio non è che scorpione e sciacallo, nient’altro che l’icona dell’io, morso grave di specchi, inganno, invito a una decapitazione? La scrittura – che avvince per forza sintetica, non priva di momenti aguzzi, d’estasi – convince. Il romanzo vince una manciata di premi, il più importante è il prix des Deux Magots, una sorta di anti-Goncourt, andato, negli anni, a Raymond Queneau, Roland Topor, Inès Cagnati e Raymond Abellio. Da lì, in sostanza, François Weyergans si consegna per intero alla letteratura.

Tradotto in Italia per la prima volta da Gaffi – nel 2007 con Tre giorni da mia madrealcuni libri, La demenza del pugile (2018) e Franz e François (2015), sono stati pubblicati da L’Orma, sia lode a loro. A Stefano Montefiori, intervistato per il “Corriere”, lo scrittore francese disse che in letteratura è naturale confondere autobiografia e finzione, mescolare identità e menzogna e che ai lettori non si devono spiegazioni in merito; disse di aver “passato un pomeriggio con Saul Bellow, parlavamo di Herzog” e di essere stato in terapia, diciamo così, da Lacan. La parcella era eccessiva, la chiosa lacaniana e laconica: “Lacan è stato fortunato ad avere sotto mano un tipo come me”.

Un tempo, anche i giornalisti italiani – quelli col fiuto per i libri inconsueti – parlavano bene di François Weyergans. Forse è tempo di tornare a tradurlo.

Della fede – così pare – François Weyergans preferiva l’eroismo che fa sfoggio dell’assurdo, i paramenti con l’imprimatur del nudo urlo. La sacra lacerazione, per così dire. Il punto di non ritorno tra la rivelazione e la risata.

***

Vita di Macario

I

L’uomo trema. Il corpo, scarnificato, è in preda a tremori involontari. Un dolore, folgorante, gli trapassa lo stomaco. Rintana il grido. Palpebre infiammate: ogni volta che apre e chiude gli occhi, rapina di aghi. La febbre lo consuma. Non suda. La notte è gelida. L’acqua stagnante si raffredda. Non riesce più a sopportare, si gratta la coscia, ne percepisce la tenerezza: ha appena afferrato un rospo pieno di croste. Le dita sono intorpidite: non molla subito la bestia.

È irrigidito da contratture al petto e alla schiena. Crede che i denti stiano cadendo, tutti insieme. I nervi gli frustano il collo.

Sente il becco di un marabù che schiocca mentre inghiotte i resti di una carogna. Cupo guaito degli sciacalli tenuti a distanza dal marabù. Piena estate – gonfia, laida. I cadaveri dei roditori giungono quasi subito allo stato di putrefazione.

Ausculta il volo silenzioso di un gufo. Un uccellino si posa sul suo cranio, cerca del cibo nella melassa gelatinosa di uova di pidocchio che ricopre i suoi capelli. Non sa più alzare gli occhi al cielo: occhi iniettati di sangue, umori lunari. Guardare le stelle, d’altronde, non gli servirebbe a nulla. Il sole sarebbe sorto all’orizzonte. Quanto a lui, è destinato a scomparire.

Per tornare a casa dovrebbe camminare almeno sette o otto ore. Tante gli sono occorse per arrivare in quella palude. Nel frattempo, il corpo si è gonfiato. La via del ritorno vedrà morire.

La pelle abbronzata dai venti e dal sole, il corpo macerato dai digiuni: mero sacco di ossa. Non ricorda quanti anni ha; di certo, più di cinquanta.

Durante il giorno, la sabbia si scalda. Le pietre gli tagliano i piedi. Turbe di scorpioni gialli si confondono con la terra. Non può contare su alcun punto d’acqua. Non mangia e non beve da due giorni. A casa ha una dozzina di olive; a distanza di un’ora c’è una fonte.

Le zanzare lo attaccano. Grandi come cavallette. È a causa loro che è qui. Due giorni prima, nella sua cella, una zanzara lo ha punto e lui, che voleva farsi santo, ha ceduto all’ira, ha inseguito l’insetto finché non lo ha ucciso. Per espiare quel peccato, si è mosso, senza indugio: ha deciso di esporre la sua pelle nuda per quarantotto ore all’assalto delle zanzare che brulicano intorno alla palude di Guébélinn, un luogo maleodorante, che le carovane evitano con cura. Ha camminato sotto il sole cocente, si è nutrito del succo amaro di una zucca rancida, respirando polvere arsa. Sono bastate poche ore nella palude per diventare irriconoscibile. Lo prenderebbero per un appestato, per un lebbroso. Gli arti e il tronco sono gonfi. È pieno di enfiagioni e vesciche. La pelle è tesa: quelle zanzare, enormi, potrebbero bucare il corpo di un toro. Si è offerto interamente alla loro furia. Il loro perpetuo, sinuoso fruscio gli spacca il cervello.

Ha vissuto nudo per lunghi anni, la sua pelle è dura come pietra. Soltanto gli occhi azzurri rammentano l’aspetto piacevole che aveva un tempo. Ha rinunciato a incontrare gli uomini, non si attende più nulla, più nessuno. Si sforza di diventare una manifestazione vivente del mistero di Dio. Ad ogni passo falso, si punisce. Più la colpa è lieve, più è integerrima la punizione che si procura, come quella ideata dopo aver ucciso la zanzara in un momento di rabbia.

Gli sciacalli latrano. Il vento muta. Hanno fiutato una preda. Si allontanano. Presto il cielo sarà abbagliante.

Le zanzare continuano a succhiare il sangue del vecchio, immobile.

All’alba l’uomo ringrazia il Signore, recita i Salmi, aggiunge la sola preghiera che ama: “Signore, abbi pietà di me, misero peccatore”. Ha subito mille morti mentre attraversava quella via di glauchi giunchi e bronchi che punteggiano le acque. Il suo corpo è martoriato, non sopporta più alcun contatto.

Se ne va a quattro zampe. Le zanzare lo inseguono, poi lo lasciano.

Dopo due ore, cerca di alzarsi. Le ginocchia sembrano pance di pesci morti. Scorge due alberi, uno sull’altro, e striscia al loro cospetto per ripararsi dal sole. Bocca e barba piene di sabbia.

Si rimette in marcia, sfiancato dalla febbre.

*

II

Si chiama Macario. Non è il nome che gli hanno dato i genitori. Da tempo, non ricorda più neanche il nome dei genitori. Anche se si sforzasse, non riuscirebbe a ricordare i loro volti, il suono delle loro voci. Che ne è dei suoi fratelli, delle sue sorelle? Se sono ancora vivi, saranno gli schiavi di un ricco proprietario terriero del Delta, magari abitano ad Alessandria.

Macario crede che i ricordi siano serpi: sanno mordere e piagare la schiena. Non è riuscito a ucciderli tutto. Qualche innocua immagine ancora lo turba.

La sera prima, con gli occhi chiusi, ha visto il borgo della sua infanzia, nei pressi di Coptos, i maiali che badava con i fratelli, tenuti semibradi, nei campi, dove calpestano il suolo per conficcare il grano nella terra umida. Il vecchio Matoès ha insegnato loro che le scrofe mangiano i loro piccoli, si cibano di loro, e che nel cielo una grande Scrofa divina, all’alba, divora le stelle perché le stelle non sono altro che i suoi porcellini.

Insieme ai fratelli, Macario cattura uccelli a cui strappa le piume. Li mette in gabbia per un paio di giorni, poi li fa arrosto, nel forno costruito fuori casa, per non affumicare le due camere dove abita la famiglia. Macario è il maggiore, per questo è diventato schiavo prima dei suoi fratelli. Ha iniziato a lavorare sodo, dalla mattina alla sera, fin dalla tenera età. Dà da mangiare ai muli, ciechi, che tirano la macina.

Il padre, un piccolo artigiano, spesso malato, sapeva dipingere secondo la tecnica dell’encausto e tingeva le stoffe mediante la mordenzatura con allume. I lavori gli erano commissionati da ricchi cittadini, che hanno lasciato la regione. Così, i suoi figli, pur piccoli, hanno dovuto lavorare. Gli zii, che avrebbero potuto aiutarli, si sono trasferiti nel Delta. Quando decisero che Macario sarebbe diventato schiavo la madre, deformata dalle gravidanze, con grosse mammelle da capra, allattava l’undicesimo figlio. Dimostrava il doppio della sua età. Così è la miseria. Macario aveva quindici anni.

Insieme a un gruppo di adolescenti, Macario fu venduto a una famiglia ateniese che da generazioni viveva alla periferia di Alessandria. Vide il mare per la prima volta; imparò il greco. Fu sorpreso di sapere che le tombe dei faraoni si chiamavano “piramidi”, in greco, come i piccoli biscotti a forma di cono. Lavorava in un cantiere in cui costruivano barche piatte per il trasporto di animali sul Nilo. Il caposquadra lo derideva, figlio residuo di un popolo che adorava rapaci, scimmie e perfino coccodrilli. Per mesi è stato obbligato a squadrare tronchi d’albero.

La figlia del padrone visitò i cantieri, si accorse di lui, pretese che fosse messo al suo servizio. Era capricciosa, si chiamava Amazzonia. Aveva ventiquattro anni, odiava il sole, indossava abiti dai colori violenti per far risaltare il pallore della carnagione. Macario preparava i suoi infusi, aromatizzati al cardamomo. Gli lanciava sguardi infuocati, non le era antipatico. Quanto a lui: era magro, forte, bello. Una sera, mentre stava per congedarsi, lei lo volle a sé. Passarono insieme quattro notti.

Se da Roma il vescovo Callisto aveva da tempo autorizzato le relazioni colpevoli tra le donne e i loro schiavi, Macario sapeva che questi rapporti erano ora puniti con la morte: l’imperatore, che si era inchinato al cospetto dell’eremita Pafnuzio e gli aveva baciato l’occhio cavo, insisteva perché i suoi sudditi conducessero una vita moralmente integra. D’altra parte, Macario si chiedeva perché la giovane greca fosse così interessata a lui: “Indossa abiti tanto costosi e pregiati”, pensava. Al cantiere si diffuse la voce che era l’amante della figlia del padrone. Minacciarono di denunciarlo. Macario ne parlò ad Amazzonia che, folle per la paura, rifiutò altri incontri. Era intransigente. “Non voglio svegliarmi un giorno e scoprire che ti hanno tagliato la testa”. Fece sgattaiolare Macario dalle sue stanze: lui voleva baciarla un’ultima volta, lei scostò le labbra. Immaginava che qualcuno lo inseguisse. Allarmato, fuggì.

Si nascose nei pressi del porto. Un mago tentò di vendergli la statua di una donna in terracotta, con alcuni aghi d’argento. Se avesse infilato quegli aghi negli occhi, nei seni e nei genitali della statua, invocando i demoni Abrasax e Barbartha, gli sarebbe stato facile riconquistare l’amore della sua donna. Macario tentennò, rifiutò quando gli fu detto che la statua doveva essere posta nella tomba di una persona morta di morte violenta. Non aveva soldi per pagare il mago che prima cominciò ad insultarlo, poi gli chiese di lavorare per lui. Il mago era piccolo, storpio, sulla quarantina. Fissava gli uomini con occhi insopportabilmente scuri. Il suo sguardo affascinava Macario. Senza pensarci, accettò di aiutare quello gnomo che si faceva chiamare Chnoubis.

François Weyergans

Gruppo MAGOG