04 Agosto 2022

“Quando non esisterà più nulla a cui poter legare il mio cuore”. Il romanzo estremo di Marlen Haushofer, un Morselli donna

Scriveva i suoi romanzi sul tavolo della cucina, per lo più di mattina presto, quando gli altri – il marito, i due figli – dormivano ancora. Cerco una sua foto in rete, il colletto a righe, le labbra serrate, lo sguardo deciso e sbircio la biografia di questa scrittrice austriaca poco conosciuta, Marlen Haushofer (1920-1970), per capire come possa essere nato il suo distopico La parete (e/o, 2013, traduzione dal tedesco di Ingrid Harbeck, Postfazione di Gunhild Schneider), un romanzo robinsoniano, apocalittico, senza pace, profondamente maschile. Scritto, però, da una donna. Un romanzo da comparare, anche secondo Schneider a Dissipatio H.G. di Guido Morselli (Adelphi, 1977), scritto pochi anni prima e senz’altro da inserire in un’ideale seminario di letture comparate da pandemia (e un kit di pronto soccorso) come La peste di Albert Camus e il Risveglio della terra di Knut Hamsun.

“Non ti piacerà, è la storia di una gatta” diceva la Haushofer allo scrittore Hans Weigel. Ma, in verità, al centro del racconto c’è una donna, che sopravvive in montagna, tagliata fuori dal mondo a causa di una parete – inizialmente doveva essere “una parete di vetro” – e fa i conti con una feroce sopravvivenza, con il taglio della legna per il fuoco, con la difficile coltivazione di un campo di patate, con l’allevamento degli animali (non solo gatti, ma anche mucca e toro). Perché gli animali sono – come nel quadro di Dissipatio H.G. – i sopravvissuti, laddove l’uomo è scomparso, nel caso di Morselli parentesizzato, volatilizzato, dissipato, nel caso di Haushofer quasi pressoché defunto, mummificato, pietrificato.

Come per il romanzo di Morselli, anche per quest’opera austriaca, il successo non arriva subito. Pubblicato per la prima volta nel 1963, La parete fu ristampato nel 1968. Soltanto – guarda caso – quindici anni più tardi, tredici anni dopo la morte dell’autrice, il romanzo diventa di culto, negli anni ’80, precisamente nel 1983. Come per il romanzo italiano, non si conosce la causa della “catastrofe”.

“La catastrofe mi aveva sollevato da una grande responsabilità e, senza che lì per lì me ne fossi accorta, imposto un nuovo fardello. Quando infine fui in grado di farmi un’idea più chiara della situazione, ormai non ero più in condizione di modificarla”.

Il romanzo procede con una cronaca razionale, lucida, dettagliata, quasi quotidiana. Si sofferma sui dettagli, come se la sopravvivenza fosse ancorata al foglio in cui scrivere le date, per non cedere il passo alla pazzia.

“Ma preferisco soffermarmi sul 2 luglio, il giorno in cui realizzai che la mia vita dipendeva dalla quantità di fiammiferi rimasti. Questo pensiero, come tutti i pensieri spiacevoli, mi aggredì alle quattro del mattino. Fino a quel momento, per quanto riguarda i fiammiferi, avevo vissuto spensieratamente, senza considerare che ogni zolfanello bruciato poteva costarmi un giorno di vita”.

Anche i più piccoli particolari fanno da contrappunto a riflessioni esistenziali e filosofiche che tirano in ballo la vita “di prima”, il passato che non potrà più ritornare, con le sue false, miserabili illusioni di libertà.

“La nostra libertà si trova in ben tristi condizioni. Probabilmente non c’è mai stata, altro che sulla carta. Quella esteriore si può dire che non sia mai esistita, e tanto meno ho conosciuto una persona che fosse interiormente libera. E non ho mai percepito questo fatto come umiliante. Non riesco a vedere cosa ci sia di poco onorevole a portare la soma impostaci come qualsiasi altro animale, e alla fin fine morire come qualsiasi altro animale”.

Una sopravvissuta poteva tranquillamente scordarsi “d’essere una donna”. “Le mani, sempre ricoperte di piaghe e di callosità, erano i miei principali arnesi. Da tempo mi ero tolta gli anelli. Chi mai adornerebbe i propri arnesi con anelli d’oro? Averlo fatto in passato, mi parve assurdo e ridicolo”. La donna che lei era prima appare poco simpatica, ma non è il caso di giudicarla troppo duramente. “Da giovane, senza averne coscienza, aveva preso su di sé un pesante fardello e aveva fondato una famiglia, e in seguito si era sempre trovata imprigionata in un’opprimente abbondanza di preoccupazioni e di doveri”.

Ma che cosa è esattamente questa parete che la divide dal mondo di prima?

“La parete è diventata a tal punto una parte della mia vita che non ci penso per settimane intere. E anche quando ci penso, non mi appare più inquietante d’un muro di mattoni o della siepe di un giardino, che mi impediscono di continuare il mio cammino. Cos’ha poi di tanto particolare? Un oggetto fatto di una materia la cui composizione mi è ignota. Nella mia vita oggetti del genere ce ne sono stati sempre più del necessario. La parete mi ha costretta a iniziare una vita tutta nuova, ma le cose che mi toccano veramente sono rimaste identiche a prima: la nascita, la morte, le stagioni, la crescita e il declino. La parete è una cosa, né viva né morta, in verità non mi riguarda affatto e per questo non la sogno”.

La parete, benché dia titolo al libro, non è che la premessa alla solitudine, il suo escamotage, la scintilla che crea l’incontro della protagonista con il suo nuovo presente di montagna. Non è forse quello che si vive durante un confinamento? Non pensiamo poi più di tanto al motivo di quello che ci capita, ma cominciamo a fare provviste, tagliare e accatastare la legna, scaldare la stanza in vista dell’inverno. E poi primavera, estate, e ancora autunno e inverno, esattamente come in questo romanzo.

“Ci sono ore nelle quali penso con gioia al futuro, quando non esisterà più nulla a cui poter legare il mio cuore. Sono stanca che alla fine tutto mi venga sempre portato via. Non c’è via d’uscita, perché fin quando nel bosco esisterà una creatura che io possa amare, lo farò; e se un giorno veramente non esistesse più nulla, cesserò di vivere”.

La causa prima della rovina, della catastrofe, è del genere umano. “Se gli uomini fossero stati tutti del mio stampo, non sarebbe mai esistita una parete e quel vecchio non si troverebbe pietrificato per terra davanti alla sua fontana”. Tra il prendere cura e il distruggere si sceglie la seconda strada, la più facile:

“Amare e aver cura di un altro essere è un mestiere molto faticoso e assai più difficile che non uccidere e distruggere. Per allevare un bambino occorrono vent’anni, per ucciderlo dieci secondi”.

Le piccole cose, come il ritrovamento di un sacco di farina tra una nidiata di topi, in uno chalet, può suscitare meraviglia. Il bosco di montagna tende ad assomigliare alle pieghe dell’anima, si fa paesaggio d’anima. Il bosco, un giorno, prenderà il sopravvento sull’uomo. “Ogni tanto i miei pensieri si aggrovigliano, ed è come se il bosco allungasse le sue radici dentro di me per pensare col mio cervello i suoi vecchi, eterni pensieri”.

Lei è Marlen Haushofer (1920-1970)

Stare soli, esuli in un bosco di montagna significa ritrovarsi, lontani dagli affanni quotidiani del mondo, immersi nella natura e nelle sue istanze, senza necessariamente uno scopo che non sia quello di vivere, sopravvivere.

“Non cercavo più un senso che mi rendesse la vita più sopportabile. Un simile desiderio mi sembrava quasi arrogante. Gli uomini avevano giocato i loro giochi, ed erano quasi sempre finiti male. Di cosa potevo lagnarmi; ero una di loro e non potevo condannarli, perché li capivo troppo bene. Era meglio distogliere i pensieri dagli uomini. Il grande gioco del sole, della luna e delle stelle sembrava riuscito, difatti non era stato inventato dagli uomini”.

Ora che non ci sono più gli uomini, il pianeta è vivo. Lo scriveva anche Guido Morselli, nel 1973: “il mondo non è mai stato così vivo, come oggi che una certa razza di bipedi ha smesso di frequentarlo. Non è mai stato così pulito, luccicante, allegro”. Lo scriveva, sin dagli anni ’60, Marlen Haushofer: “Avevo solo questa piccola vita, e non me l’hanno lasciata vivere in pace. Tubi del gas, centrali elettriche e oleodotti; ora che gli uomini non esistono più mostrano la loro vera, misera faccia. E a quel tempo ne avevano fatto degli idoli, piuttosto che oggetti di consumo”.

Le automobili, vuote, spente, troverebbero nel bosco, la loro ideale collocazione per le nidificazioni. Per sopravvivere, nel bosco immerso nella solitudine da genere umano, sembra necessario un fucile da caccia. A Steyr, dietro la parete dell’ultima annotazione nel diario di Marlen Haushofer, prima della sua morte, si ritrova lo stesso disincanto disarmante di queste pagine:

“Che cos’è l’anima? Probabilmente non l’hai mai avuta, solo intelletto, e quello non si curava dei sentimenti. Oppure c’era forse, ogni tanto, qualcosa di diverso? Per brevi attimi? Alla vista di campanelle o degli occhi di un gatto e della pena di un uomo, o di certe pietre, alberi, statue; delle rondini sopra la grande città di Roma”.

Nel 2011, il regista austriaco Julian Pösler realizza un film tratto da La parete, presentato al festival di Berlino l’anno successivo. La sopravvissuta, interpretata dall’attrice Martina Gedeck, presenta una vaga somiglianza con la scrittrice austriaca Marlen Haushofer.

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