«Sotto Luigi Filippo fa il suo ingresso sulla scena storica il privato cittadino [per cui] lo spazio vitale entra per la prima volta in contrasto col luogo di lavoro. Il primo si costituisce nell’intérieur. Il suo complemento è il comptoir. Il privato cittadino, che tiene conto della realtà nel comptoir, esige dall’intérieur di essere cullato nelle proprie illusioni. Questa necessità è tanto più pressante in quanto egli non pensa affatto a estendere le sue considerazioni affaristiche a riflessioni d’ordine sociale. Nel configurare il suo ambiente privato egli rimuove le une e le altre. Di qui hanno origine le fantasmagorie dell’intérieur. Per il privato cittadino, esso rappresenta l’universo. In esso egli raccoglie il lontano e il passato. Il suo salotto è un palco nel teatro universale»[1].
Così Walter Benjamin descrive le necessità domestiche del privato cittadino del XIX secolo, prodotto di una classe che trova lo scopo primario nella cura dei propri affari. Alienato dalla pressante dimensione del comptoir, egli crea nella dimensione domestica il luogo dove le illusioni possono essere coltivate liberamente, generando quelle che Benjamin definisce «fantasmagorie dell’intérieur». Affinché il privato cittadino possa sviluppare questo spazio, esso deve essere un luogo sottratto all’ambiente esterno (da qui deriva l’avversione nei confronti di luce e aria che ha influenzato una parte dell’arredamento del XIX secolo). Ogni scambio con l’esterno è una minaccia all’integrità del regno illusorio che il borghese costituisce all’interno della sua abitazione. Se il fuori corrisponde alla veglia, l’intérieur è il luogo del sogno e, acciocché esso duri il più a lungo possibile, occorre che la luce, come ogni rimando all’esterno, abbia la minima incidenza possibile. Lo spirito dell’inquilino dell’interno si distingue per «un’avversione per lo spazio aereo libero, per così dire uranico»[2], e abitare nell’intérieur significa «restare intessuti ed ermeticamente inviluppati in una ragnatela, intorno alla quale l’accadere del mondo sta sospeso come corpi di insetti cui è stata succhiata la linfa»[3].
L’inquilino dell’intérieur, ritirandosi nel suo reame di sogno, penetra nel sistema dell’arredamento stabilendo singolari relazioni con esso. L’uomo abita l’interno come in un guscio e, contestualmente, vi dissemina le sue tracce.
«Se qualcuno entra in una stanza borghese degli anni Ottanta, allora, in tutta la comoda e tranquilla agiatezza che essa irradia, l’impressione “qui tu non hai niente da cercare” è la più forte. Qui non hai niente da cercare – perché qui non c’è alcun luogo nel quale il suo abitante non abbia già lasciato una traccia: sulle mensole mediante ninnoli, sulle poltrone mediante una copertura con il monogramma, davanti ai vetri delle finestre mediante gli striscioni, di fronte al camino mediante il parafuoco»[4].
Dietro l’iperproduzione di tracce, l’inquilino dell’intérieur risolve il problema del nascondimento, affrancandosi dalla necessità della segretezza. Come nella migliore letteratura vittoriana, l’altra faccia della medaglia si cela dietro le apparenze più evidenti. Non si tratta più di nascondere l’identità, ma di affermarla, eclissando dietro di essa il mistero che si pretende di negare. Per questo, nelle considerazioni di Benjamin, la dimensione dell’intérieur svela un inquietante risvolto poliziesco, suggerendo che l’interno sia sempre una scena del crimine, dove le tracce attendono l’occhio del detective.
«Dello stile dei mobili nella seconda metà dell’Ottocento l’unica soddisfacente descrizione […] la dà un certo tipo di romanzi gialli nel cui centro dinamico sta il terrore suscitato dalla casa. La disposizione dei mobili è insieme la mappa delle trappole mortali, e la fuga delle stanze prescrive alla vittima l’itinerario della sua propria fuga. […] L’interno borghese tra gli anni sessanta e novanta, con le sue enormi credenze sovraccariche d’intagli, gli angoli senza sole occupati dal palmizio, la verandina dietro la barricata della balaustra e i lunghi corridoi col sibilo della fiamma a gas può essere degna dimora soltanto di un cadavere. “La zia, su questo sofà, si può solo assassinarla”. La fredda sontuosità delle suppellettili diventa davvero confortevole solo in presenza della salma. […] Dietro i drappeggi dei pesanti kilim il padrone di casa celebra le sue orge coi titoli di borsa, può sentirsi mercante levantino, pigro pascià nel canato degli imbrogli, finché un bel pomeriggio quel pugnale nel pendaglio d’argento sopra il divano segnerà la fine della sua siesta e di lui stesso. Questo carattere della casa borghese, anelante all’assassino senza nome come una vecchia lasciva al suo ganzo, fu afferrato da alcuni romanzieri che in quanto “scrittori di gialli” (e forse anche perché, dalle loro opere emerge una porzione del pandemonio borghese) sono stati defraudati dei dovuti onori […]»[5].
È nell’interno borghese che il padrone di casa, «pigro pascià nel canato degli imbrogli», commetterebbe quei crimini privati che sono il riflesso di quelli prodotti durante l’attività pubblica al comptoir. In quest’ottica l’ambiente domestico sarebbe una diretta conseguenza della coscienza di chi vi abita: colpe pubbliche significherebbero colpe private; crimini del comptoir genererebbero crimini dell’intérieur.
Rispetto alla concezione dell’ambiente domestico come proiezione di forze inconsce e di incubi onirici, a Benjamin non sono sfuggite le relazioni con l’opera di Kafka. Per il filosofo, come scrive neipassages, il senso più profondo della letteratura kafkiana si esprimerebbe in uno sguardo che, dirigendosi verso una finestra, «si imbatte sempre in una famiglia seduta a tavola o in un individuo solitario che, sotto la luce di una lampada, siede a tavolino, intento a cose misteriosamente inutili»[6]. Anche negli scambi epistolari di Kafka si incontrano tracce della potenza simbolica attribuita a mobilia e arredamento. In una lettera indirizzata alla fidanzata Felice Bauer, egli descrive in questi termini l’orrore provato quando, a Berlino, la coppia fece compere di mobili e arredi:
«Mobili pesanti che una volta collocati non era forse più possibile rimuovere. Tu apprezzavi soprattutto la loro solidità. La credenza mi opprimeva, era un perfetto mausoleo o un monumento della vita impiegatizia di Praga. Se durante la visita avessimo sentito suonare in fondo al deposito di mobili un campanello funebre, nulla sarebbe stato più adatto»[7].
Se da un lato il mobile rappresenta la solidità del fidanzamento – e quindi, del vincolo – dall’altro emana quell’atmosfera funerea che impressionò Benjamin quando, descrivendo un interno borghese tardo ottocentesco, scrisse che «la fredda sontuosità delle suppellettili diventa davvero confortevole solo in presenza della salma»[8]. Quest’ultima osservazione, così come i vari passi in cui Benjamin attribuisce all’intérieur una dimensione mortuaria, non contraddice il passaggio contenuto in Infanzia Berlinese, in cui egli afferma, descrivendo la casa della nonna materna, che in luoghi come quelli «il bisogno non poteva avere cittadinanza […] Non c’era posto in essi per morire, per questo i loro abitanti morivano negli ospedali […]»[9].
A niente sarebbe servito tentare di allontanare la morte attraverso la solidità delle suppellettili ed evitando le visite al capezzale: essa vi sarebbe penetrata nelle forme più sottili del delittuoso senso di colpa di classe o della inconscia pulsione di morte dell’inquilino, che nega la vita chiudendosi nella coltre delle sue stanze.
Antonio Soldi
*
Bibliografia:
E. Canetti, L’altro processo. Le lettere di Kafka a Felice, Milano 1973
W. Benjamin, Infanzia Berlinese, Torino 1981
W. Benjamin, I «passages» di Parigi, Torino 2002
W. Benjamin, Strada a senso unico, Torino 2006
[1] Benjamin 2002, I, p. 11
[2] Benjamin 2002, I, p. 229
[3] Benjamin 2002, I, p. 229
[4] Benjamin 2006, pp. 110-111
[5] Benjamin 2006, pp. 7-8
[6] Benjamin 2002, I, pp. 231-232
[7] Canetti 1973, p. 82
[8] Benjamin 2006, p. 7
[9] Benjamin 1981, p. 50
*In copertina: nella sua stanza borghese, Sherlock Holmes (raffigurato dalla penna di Sudney Paget) rimugina intorno a delitti compiuti in altre borghesi stanze…