Si passa davanti a questa superficie, a questa stanza imprescindibile, come per voler assistere all’eccentrico, oppure alla perdita di fermezza, a quel siparietto sbottonato che lascia intravedere la suggestione. Si resta forse delusi, se si è abbastanza ingenui, perché c’è qualcosa di perfetto tenuto sotto chiave, qualcosa che nel binomio non riesce a liberarsi. Non è imminente, non è profetico ma cerca sue soluzioni, suoi canti, è una smania. In questo e in nessun altro libro di Friedrich Nietzsche si assiste ad un fare disinvolto come di opera umana, di romanzo, luogo di oggetti e coperture; dovrebbero uscirne volti, dialoghi, ambienti, ma la pretesa non vuole in alcun modo scomporsi, si arresta sull’offesa più grande. È questo il perfetto spazio, tra chiuso e atteso, di un’ossessione lasciata abitare, senza una sua propria proposta; e tra quelle più immedesimate e oblique nella voce, quelle scagliate violentemente, c’è la questione del prossimo, della compassione.
“Per me tutto questo è solo debolezza, un caso di incapacità a resistere agli stimoli – […] Rimprovero i compassionevoli perché perdono facilmente il pudore, il rispetto, la delicata sensibilità alle distanze, perché basta un niente e la compassione puzza di plebe e somiglia alle cattive maniere fino a confondersi con esse”.
Questo vorrebbe dire che Friedrich Nietzsche si sia precocemente concentrato su di sé oppure che abbia maledetto con forza l’assistenza che gli veniva dall’esterno, da quelli che lo adocchiavano; che sia soltanto l’ennesima trasvalutazione dei valori; che abbia analizzato lui stesso i doni e i premi e si sia genuinamente trincerato nel ribrezzo, ribrezzo autentico di chi non può sentire mani appiccicose toccare il gesso; che si sia soprattutto avvelenato nell’osservare quelli che con aria indaffarata gestiscono i traffici, perché di traffici si parla, della bontà?
Un uomo, come davanti ad un lazzaretto di chiacchiere, ad un immenso padiglione di storture e finzioni, tocca con viscere e patemi ma anche con scintille d’albore, di scoperta matura, la carne dell’altruismo, la torre di sangue, e avverte quel senso di peste, di contagio, di strana e assoluta morbosità che infiacchisce e si eleva a seconda dell’infermità; e lo fa con lena di discepolo e maestro insieme, prima con la mite sorpresa, poi con il traguardo in tasca, con i diritti tutti in asse.
Tutto ciò non deve però stare a significare che solo l’interesse e l’utile spingono le certezze di chi si prodiga anzi spesso la colpa è essere gratuiti occupatori, vite che si intromettono nell’unica vita e osano pensarsi gradite prima che benefiche. Già pensare al prossimo come una corrente di infermi, di mani tese a convogliare nell’aiuto non è un buon inizio e Nietzsche arriva a domandarsi se sia effettivamente necessario sperperare le nostre forze nello sperperio generale delle forze, dove tutto è spendibile a vuoto; se si possa essere compassionevoli ma non languidi, se si possa usare la forza senza l’abuso.
In questi ultimi istanti sembra dimenticarsi anche delle vecchie e nuove imprecazioni, si dimentica del Cristo, il Buddha manicheo, del corno, il cielo e la terra rubati alla nascita, e quelle palpebre scese, zigomi stretti, affossati nella notte, nella noia, nel sonno. Parla lentamente, avvolto, lo si può benissimo immaginare seduto, in una posa raccolta, ad accendere e spegnere qualcosa con abitudine. Tutto indugia e oscilla per effetto di una rassicurazione: la gioia nell’annientare. Ma se la storia è un passatempo riprenderanno vita solo icone non protette, si vorrà sfigurare tele e simboli senza curarsi di assassinare il cherubino che le veglia; non si penserà allo spirito, ci saranno distruzioni col pestaggio, con la folla, senza veleni o balsami di malattia e guarigione: oggetti informi e frammenti vorranno bruciare e prendersi la materia.
Nel frattempo sembra che moltitudini di mendicanti e confessi abbiano bussato alla porta e lui svogliato, ma ancora crudo, non abbia voluto aprire, si sia messo in un angolo a protestare con calma e operandosi macchinosamente un braccio abbia alzato la testa senza somigliare all’animale. Questi bussano e sembrano tutti isolati, non giunti fin lì per un tracollo ma ognuno per suo conto, ognuno col proprio risentimento: si perdono i nomi e nessuno ode se stesso o gli altri. Sono cellule di sconforto, linearità senza stranezze, polsi legati alla giusta corrente, trascinati dalla verosimiglianza. Il prossimo, i prossimi, sono molti, stanno fuori ad ansimare? Chi sono e quanto roventi, quanto accalcati? Da chi è sospinta la corrente, chi vuole un guarito senza un combattimento, chi vuole chiamare prossimo ciò che è vicino a mutare, a diventare d’argilla meschina? Un battello statico di ombre tutte disegnate e infelici, tutte succubi e asimmetriche; ridono, piangono, portano in piena armatura i loro vizi, sono contenti, accontentati, e alla vita non devono nulla, neppure il loro macigno di disapprovazione.
La salute non è una ricostruzione postuma, delicata delle disintegrazioni, un affratellamento con i sobborghi insensati, puerili del corpo e della coscienza; non un maledire l’avvenuta ustione, il calcio, la fregatura; non vi si pone rimedio perché non si può completare. La malattia non è sua antipatia e neppure suo giogo. Malattia è arrivare in alto, scarnificarsi, senza mai farsi semplici o più degradati. Salute è sovrabbondanza, eccessivo mutamento. Malattia è ritiro, eccessiva unzione. Da entrambe si disperdono donatori, ingannatori, gestori, predicatori. Urtare un pezzo unico, un cuore, diventa sempre più infinito, esclusivo e le piaghe si aprono generose per ciascuno che non contenga e voglia crearne una catena, una sequenza, una consanguineità di meticcio, di gemiti e silenzio.
Colui che dona, che si prodiga, conserva sempre il gesto donato, nulla viene totalmente annullato. Non può chiedere indietro il dono ma può conservarne la soddisfazione indiretta, può usufruirne al contrario o in ogni altra direzione e curarsene sempre più, sempre meno, finché non sarà traviato, rimosso. Questo accade al gesto rozzo, forzato, al recupero di forze ammalate e rimesse in azione ai lati del vero riconoscimento. Così si subiranno altri gesti, si troverà un altro donatore, non perché sia avvenuta una perdita ma perché si è aperto e chiuso il controllo, si è alternato, lasciando scogli, sponde e altre basi solide dove il turno è continuo. Di questo passo un altro donatore avrà già i suoi moti di conservazione e lo scarto resterà, resteranno aspetti contriti e insoliti, vi resteranno schiacciati il bene e il male.
Ma se si chiedesse ad uno di questi una richiesta in più al suo spargimento, se si desse lui un impegno virtuale di salvezza, come si comporterebbe? Mettiamo caso che dovesse aiutare un’anima e per giungere alla sua posizione percorrere molte strade e affaticarsi, percorrere un cammino tutto interiore di sofferenze e debiti. Sarà davvero in grado di salvare? Certamente no, giungerà stremato, tutto intimorito dai suoi nuovi triboli e potrà a malapena riconoscere il proprio lucore. Allora cosa lo spinge a partire, istintivo per questa missione, pure se impreparato? Forse troverà maggiore agio nel perdere e ritrovare se stesso più volte sul cammino che immaginare qualcosa di integro all’arrivo. Quella sua fatica vale già come un aiuto, aiuto senza risonanza, donato come svenimento, come ultimo spasimo di debolezza.