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Letterature
Riccardo Peratoner e Marilena Garis
L’universo in letteratura non è sottoposto alle medesime leggi fisiche dell’universo non letterario: nello spaziotempo in cui siamo tenuti tutti a convivere a un Big Bang deve fare seguito un Big Crunch, se proprio si vuole confidare in un prossimo Big Bang. In letteratura i Big Bang possono sovrapporsi e coesistere, senza prima dover obbligatoriamente passare per l’annichilimento. Soffermandosi solo alla letteratura del Novecento c’è stato il Big Bang letterario di James Joyce, c’è stato quello di Marcel Proust, propagazioni di nuove dimensioni romanzesche che dalla loro deflagrazione non hanno più smesso di espandersi, entrando in collisione senza però fagocitarsi a vicenda, inaugurando nuove forme di intendere e esprimere e esperire il rapporto tra le cose e sé stessi, vale a dire in sostanza che hanno varato nuove forme di vita, nuove leggi che regolano lo spazio e il tempo in cui la vita avviene.
L’altro grande Big Bang letterario è esploso dal polmone malato di un uomo che in una lettera del 24 settembre 1917 scrive: “(Oggi un’oca da ingrasso macellata giaceva fuori nel catino, esposta come una zia morta)”, scrivendolo proprio tra parentesi, come fosse un dettaglio non omesso per amor di civetteria e non perché ce ne fosse la necessità, così come sempre tra un paio di parentesi c’è l’altra annotazione: “(…) Ma i topi non sono una fantasia, visto che la gatta entra da me la sera magra e la mattina viene portata via grassa”. In questi due piccoli dettagli, domestici e macabri, consuetudinari e spaventosi, c’è l’universo letterario di Franz Kafka, lo scrittore che ci ha spinto attraverso la sua porta, con un timido sorriso più costrittore di un forcone puntato nella schiena; un universo a cui ha dimenticato di creare la porta di uscita, dopo aver sancito che niente può ripassare attraverso quella di ingresso.
La lettera di Franz Kafka è contenuta, assieme a tutte le altre del suo carteggio con Max Brod, in Un altro scrivere (traduzione dal tedesco e introduzione di Marco Rispoli e Luca Zenobi, indispensabili per me che il tedesco non lo capisco per niente); ho letto il volume nell’edizione economica della Beat, la sua prima apparizione è stata per la Neri Pozza, nel mese di luglio, comprando il volume a ridosso dell’anniversario della nascita di Franz Kafka, nato per la prima volta a Praga il 3 luglio; leggendone le lettere ho avuto l’impressione che Kafka sia nato almeno due volte, la seconda volta a Zürau. Zürau è il villaggio boemo dove Franz Kafka fu ospite di sua sorella Ottla tra il settembre del 1917 e l’aprile del 1918, o così dice Wikipedia, ma se si cerca su Google Zürau non appare Zürau, appaiono gli aforismi di Zürau scritti da Franz Kafka. Il villaggio di Zürau non resisterà mai, nella realtà condivisa, quanto gli aforismi che Kafka scrisse quando vi soggiornava. Questo è solo un piccolo esempio di come l’universo letterario sia più indistruttibile dell’universo comune a tutti.
È del 13 settembre 1917 la lettera in cui Kafka scrive: “Così non si va avanti”, ha detto il cervello e dopo cinque anni il polmone si è dichiarato pronto ad aiutare. A Kafka viene rivelata la verità che fino a lì aveva provato a sospettare soltanto: ha la tubercolosi, di tubercolosi è più probabile morire che sopravviverne. Kafka scopre di essere condannato a morte, come tutti. Allora può essere finalmente sé stesso, nascere in quanto scrittore, dunque perdendo ogni forma di pudore. Le lettere di Kafka, dopo Zürau, cambiano. Prima a scrivere era un impiegato delle assicurazioni, ansioso, con una famiglia ingombrante, con un padre da manuale freudiano, impacciato, in continuo ritardo, un rimandatore, un uomo che si profonde in scuse. Dopo è l’uomo delle oche macellate e dei gatti ingrassati dopo aver fatto la scorpacciata notturna dei topi. Il latore di una oscurità la cui oscurità rappresenta una forma inesplorata della luce.
Leggere i carteggi privati di uno scrittore è un affare da guardoni, lo dicono in tanti e sono d’accordo, detesto leggere i carteggi privati, però ho letto il carteggio di Kafka perché di Kafka sono appassionato e insomma, essere un guardone per amore è meno grave che esserlo per capriccio, o meglio: è gravissimo, è ancora più grave, ma cosa conta di fronte alle lettere di Franz Kafka?, d’altronde leggendole è legittimo chiedersi per tutto il tempo a chi le stia scrivendo. Certo, nelle intestazioni è chiarissimo: sta scrivendo a Max Brod; ma è poi vero? Max Brod quando scrive le sue lettere a Franz Kafka è proprio al suo amico Franz che sta scrivendo, ma di Kafka è più corretto dire: Franz Kafka scrive. Brod è semplicemente il fortunato primo lettore di Franz Kafka. Non che Brod non lo sappia: lettera del 18 dicembre 2017: “Werfel scrive entusiasta del tuo racconto sulla scimmia e ritiene che tu sia il più grande scrittore tedesco. Anche io la penso così, come sai da tempo”.
Qualcosa a proposito di Max Brod e Franz Kafka, per non lasciare niente di non detto: io, se volessi uno scrittore, vorrei che quello scrittore fosse Franz Kafka, ma se volessi un amico indubitabilmente vorrei che quell’amico fosse Max Brod. Non sono un kafkologo ma so che brutta fama, e che sfortuna critica, sia toccata in sorte a Max Brod il quale, come Zürau, ha smesso di esistere in quanto sé stesso: è diventato una delle propaggini con cui l’universo letterario di Kafka incrocia e invade l’universo comune. Max Brod è l’uomo della felix culpa: ha tradito la volontà dell’amico, ne ha venduto le spoglie letterarie, ha provato a brodizzare Kafka, facendone un Kafka religioso: buuuh a Brod, evviva Kafka, il Kafka che ha kafkizzato Brod, rendendolo un dettaglio del suo universo letterario, come le oche macellate e le gatte grasse. Come se a Brod non dovessimo se non tutto certamente moltissimo. Kafka non sarebbe diventato pienamente Kafka se Brod non si fosse rivelato il suo migliore amico: l’amico disubbidiente che ha infranto gli indugi, l’amico rivelatore, quello che il 24 settembre 1917 confessa: “io sono ancora un novizio dell’indecisione”. D’altronde lo scrittore lo è quando è delatore, secondo Aldo Busi.
Max Brod e Franz Kafka si sono conosciuti nel 1902 a una conferenza su “Schopenhauer e Nietzsche” tenuta da Max Brod, quale occasione più propizia, e la prima lettera conservata nel carteggio tra i due è del 1904; andrà avanti fino al 1924 e se s’interrompe è perché Kafka muore. Per i primi anni il tenore dei biglietti e delle cartoline è praticamente telegrafico: Ci vediamo da me? No facciamo da te. Oggi stacco nel pomeriggio. Ce ne andiamo al bar a parlare di letteratura ceca? Quando le Poste erano tutto il Whatsapp a disposizione.
Brod, inizialmente, è come il vampiro nel “Dracula” di Stoker: non appare mai ma non solo si parla continuamente di lui: si parla a lui direttamente. Il giovane Kafka dell’agosto 1904 gli scrive di una giornata con la testa penzoloni ma: “Il giorno dopo una ragazza indossò un vestito bianco e poi si innamorò di me”. E cosa fa Kafka a metà agosto del 1907, a 24 anni? “Vado molto in motocicletta”.
Per il mio immaginario in motocicletta ci andavano solo Che Guevara e James Dean: che ci fa Franz Kafka su una motocicletta? Relativamente recente è stato lo scalpore critico di un Kafka sessuato: conservava foto osé, di donne che a guardarle adesso sembrano buffe tanto sono vestite, andava ai bordelli, anche assieme all’amico Brod. Un Kafka, scandalo!, normale. Fosse pure stato il Kafka della lettura che ne dà Brullo in Ingmar Bergman: la vita sessuale di Franz Kafka, libidinosamente incestuoso e dotato di un cazzo che non perdona, ancora più perturbante, per il mio immaginario impreparato, resta il Franz Kafka ventiquattrenne che va allegro in giro sulla motocicletta d’estate e che alcuni anni prima, nel 1904, scrive sempre a Brod che “una massa legata da amicizia serve solo nelle rivoluzioni”. Al giovane Franz è mancato tanto così per finire sui poster e sulle t-shirt della migliore gioventù antagonista.
Da Brod intanto ancora nessun cenno. Probabilissimo che semplicemente le lettere di risposta di Brod siano andate perdute, ma questo è già indicativo: Brod conservava i messaggi di Kafka, Kafka no. E comunque io ho letto Un altro scrivere non come un documento ma come un testo narrativo vero e proprio, con le sue strategie retoriche, con volute lacune e reticenze, che costringono – con un timido sorriso pericoloso come un forcone – a inventarsi la propria versione dei fatti.
Quando leggo sono come Kafka quando scrive a Brod il 9 luglio 1912: “Mio caro Max, ecco il mio diario. Come vedrai, proprio perché non era destinato solo a me, ho inventato qualcosa, di’ pure quel che vuoi, in ogni caso non vi è alcuna premeditazione dentro a un simile inventare, viene anzi dalla mia più intima natura e in realtà dovrei guardarvi con rispetto”. Kafka non può scrivere la verità se non attraverso il filtro dell’invenzione. Quando il 29 gennaio 1910 scrive: “Domani mi regalo una lavanda gastrica, ho la sensazione che ne usciranno cose ributtanti”, non si sta limitando a dare una informazione confidenziale: sta anticipando la sua poetica. Ho detto che l’universo letterario di Kafka è esploso dal suo polmone malato; è vero, ma quell’universo prima ha fermentato nelle sue viscere.
Brod si manifesta per la prima volta nel 14 luglio del 1913, con una cartolina, chiede a Kafka dove può depositare dei libri. È il Brod dei primi successi nell’agone letterario, che si sposa e che tradisce sua moglie innamorandosi ora di un’altra ora di un’altra ancora, che con Franz scambia materiale a stampa e burro e pernici, che dal 1918 gli manda le confessioni sentimentali, e che per primo, per primo!, parla di bruciare dei lasciti, il 21 dicembre del 1918, in seguito alla morte imprevista dell’amica Bertha Fanta. Brod scopre che può morire tramite la morte di una amica. Kafka l’ha scoperto trovando il morbo e la promessa della morte sulla via del suo stesso respiro. Kafka torna sul tema del fuoco, come chiedendo a Brod di reciprocare il favore a casi invertiti, con un bigliettino che si pensa risalga all’autunno/inverno 1921, ripiegato e indirizzato, e lo ribadisce per bene il 29 settembre 1922, quattro anni dopo la richiesta del fuoco di Brod, il Brod delle prime teatrali, delle composizioni musicali, l’uomo degli affari di Praga e di Berlino, con i suoi avatar da casella postale: Max Koschel, Martin Salvat. Brod è l’uomo della doppia vita, delle doppie doppie-vite, che continua a scrivere a Franz Kafka, l’amico che aveva mancato l’unica vita che avesse disperdendola, e appiccandola, tra un romito luogo di cura e l’altra. Max Brod a Franz Kafka ripete continuamente la domanda più oscena perché la più intima: Franz, come stai? Una domanda che, a partire da Zürau, equivale a domandare: Franz, a che stadio della tua morte ti trovi?
Franz Kafka scrive a inizio marzo 1921: “Quando si fa buio si accenderà ancora una candela e quando sarà bruciata sino in fondo si rimarrà quieti al buio. Proprio perché nella casa del Padre ci sono molte dimore, non bisogna far chiasso”. Kafka lo scriveva in un mondo appena uscito dalla Prima Guerra Mondiale e che aveva fretta di precipitare nell’orrore del nazifascismo, del genocidio degli ebrei, della Seconda Guerra Mondiale. A quale universo si deve appartenere per avere la forza di scrivere, con l’origine del male che risale dal polmone per venire detto assieme alle parole scritte, che di fronte al buio si accenderà una candela e che quando la candela sarà bruciata resteremo quieti nel buio? Come si può ripeterlo oggi, con il mondo che sembra venir di nuovo aspirato indietro nel polmone malato di Kafka che il 6 febbraio 1914 scriveva: “È l’inquietudine, l’onda di inquietudine che non terminerà finche la storia della creazione non verrà percorsa a ritroso”?
Max Brod ha tradito Franz Kafka ma anche Franz Kafka ha mentito a tutti, fin dall’inizio, come quando in una delle prime lettere del 1904 ha scritto a Max Brod: “non voglio farti nulla di male”; invece ne ha fatto a tutti, e a che serve dire: era soltanto per prepararci a quello che stava per avventarsi ferocemente sull’universo più fragile, quello extraletterario, il nostro?
Antonio Coda