03 Settembre 2024

“Ogni abbandono è un abbandono del corpo”

Con un titolo da romanzo di fantascienza e un sottotitolo che svela invece un saggio, Ultracorpi – La ricerca utopica di una nuova perfezione di Francesca Marzia Esposito, edito da Minimum Fax, è un libro complesso quanto illuminante, di grande chiarezza e modernità, di certo tra i più interessanti dell’anno. Affronta il tema attuale e spinoso del corpo e delle sue trasformazioni, più o meno desiderate o subite, spaziando dal body building alla danza, dagli archetipi classici all’immaginario contemporaneo pop, mescolando la propria storia familiare a quelle di personaggi come Ronnie Coleman, Arnold Schwarzenegger, Carla Fracci, Rudolf Nureyev e Roberto Bolle, partendo dal personale per arrivare all’universale.

Abbiamo incontrato l’autrice, laureata al Dams di Bologna e insegnante di danza, che ha già all’attivo due romanzi – Corpi di ballo (Mondadori, 2019) e La forma minima della felicità (Baldini & Castoldi, 2015) – e una vivace bacheca Facebook, su cui tratta numerosi temi con stile raffinato e pensiero sempre fuori dagli schemi.

Ultracorpi si può definire un saggio narrativo, poiché alterna una trattazione razionale e competente del tema a squarci di vita intensi e struggenti. Il punto di partenza è autobiografico, un incidente che occorse a tuo fratello, quando eravate bambini. Lo chiami “Il momento cardine dopo il quale io mi sentirò per sempre abbandonata e lui si sentirà per sempre in fin di vita”. Da lì in poi due reazioni opposte, il desiderio di un corpo sottile da parte tua, di un corpo grosso da parte sua. “Corpi che cercheranno protezione, attenzione. E che si deformeranno di conseguenza”. Il parallelismo tra l’anoressia e la meno nota vigoressia percorre tutto il libro. In che modo secondo te quel fatto dell’infanzia ha portato a queste due diverse reazioni?

I percorsi di chi sceglie di modificare e piegare il corpo al proprio volere, sono strettoie tortuose che vivono di segreti e istintivi automatismi. Le modalità di vita che metti in atto come conseguenze a un dolore che ti ha attraversato, sono sempre compensative e mai risolutive. Al momento ti paiono le uniche possibili. Ogni abbandono è un abbandono del corpo. La salvezza per quel senso di abbandono vissuto, trova riparo nella presa in carico del tuo corpo. Il corpo era stato abbandonato da qualcuno, da qualcosa? Ebbene te ne prenderai cura tu. Solo che la cura che applichi è sinistra. Sembra quella giusta, invece, mano a mano rivela il suo lato violento, diabolico. Modificare il corpo e piegarlo al tuo volere, richiede estremo controllo e sacrificio. Diciamo che, se per non essere abbandonati, ci prendiamo in braccio da soli per tenerci in salvo, il rischio è che quelle braccia comincino a stringere e stringere ancora di più rischiando di stritolarci. 

La prima parte del libro è dedicata a un tema insolito per la letteratura, il body building. Porti vari esempi di famosi campioni della Open, la categoria senza limiti di peso, spesso finiti male a causa dell’abuso di sostanze anabolizzanti. Il corpo eccessivo (lo definisci “esuberante, teatrale, drammatico, irragionevole”) dei bodybuilder è il primo esempio di ultracorpo: un corpo deformato, portato volontariamente all’eccesso, verso la propria idea di perfezione, che non necessariamente coincide con la bellezza. Spesso per un senso di rivalsa personale e sociale, non di rado a costo della vita o minimo della salute. Come giustamente fai notare il corpo dei bodybuilder è spesso deriso, associato alla scarsa intelligenza, e quando accade qualche incidente fatale si tende al “se l’è cercata”. Come mai secondo te nonostante il politicamente corretto sostenga, spesso falsamente, la bellezza e la dignità di ogni corpo, lo sguardo sui bodybuilder rimane così severo?

Il politicamente corretto si occupa di tutelare i corpi minori. Quei corpi diversi perché ammanigliati a una condizione di svantaggio dovuta a un’imperfezione estetica, fisica. Il bodybuilder è un corpo sì anormale, diverso, ma non in quanto debole. Ha un corpo in maggiore. Additivo. Completo. Satollo. Zeppo di forma. Non gli manca nulla. E in tutta la sua ostentata completezza può benissimo respingere le offese che il mondo gli lancia addosso. Le parole su un corpo così rimbalzano. Non intaccano. Almeno, così sembra. In più è lui che si è cercato quella forma. Non gli è capitata, per sventura o per nascita. Quindi non suscita istinto di protezione. Non merita la nostra pietas o ipocrisia linguistica che dir si voglia. Ma siamo sicuri che i corpi forti siano davvero i veri forti?

Proprio parlando dei bodybuilder, ma vale per ogni ultracorpo, introduci il tema, che definirei filosofico, della libertà e della volontà. “Siamo liberi di decidere come gestire il nostro corpo, laddove non arrechi danno ai corpi altrui? O questa libertà arreca comunque indirettamente un danno?”. Danno che verrebbe, in sostanza, dal turbare la stabilità altrui con un cattivo esempio, che sia l’uso di anabolizzanti o l’eccessiva magrezza, perché “il nostro corpo non appartiene mai solo a noi”. A ben guardare è un dilemma morale che può riguardare ogni comportamento. Come conciliare quindi autodeterminazione e impatto sociale? Abbiamo il diritto anche di farci del male?

È il problema cardine su cui ruota tutto il discorso del libro. Ho provato ad articolare questo dubbio amletico scrivendone per molte pagine.

Il corpo è sia sociale che individuale. E vive di questa vicendevole, insoluta e binaria gestione. Ho diritto a fare del mio corpo quello che mi pare ma di sicuro questa condizione di libertà che esperimento è una percezione dettata da un contesto sociale. Non esiste nemmeno il libero arbitrio per come lo intendiamo utopicamente noi. Non siamo liberi di scegliere. Applichiamo la nostra preferenza di idea di libertà, per come ce l’hanno insegnata. Per come la intendiamo noi, individui inseriti all’interno di una cultura, storicamente e geograficamente circoscritta. Le nostra libere scelte sono dettate dal nostro gusto, dalla nostra modalità di vita, dal nostro percorso: da tutta la rete sociale che ci sostiene, mantiene, e intrappola al tempo stesso. Abbiamo solo una percezione soggettiva di libertà. Dove il nostro punto di vista soggettivo non fa altro che stratificare sensi e significati di altri sguardi soggettivi che ci hanno formato. Con questa consapevolezza di mancata perfetta libertà, possiamo scegliere di incamminarci su un percorso deviato, insano, moralmente giudicato. La nostra scelta, per un effetto farfalla, provocherà dei movimenti tellurici che per cerchi concentrici andranno a riverberare sugli altri corpi. In un certo senso è proprio un’invasione – di ultracorpi.

Ad un certo punto, parlando dei sacrifici disumani di ballerine e ginnaste, accennando ad alcuni scandali che hanno coinvolto allenatori troppo severi e umilianti, fai un’affermazione molto scomoda: “lo sport sano, se è un concetto che può funzionare a livello amatoriale, quando si entra nel mondo professionale risulta un’utopia”. Per arrivare ad altissimi livelli è necessario giocarsi tutto, rischiare anche la salute e la vita? E credi sia una questione negoziabile o inevitabile?

Quando hai una grande passione, le rinunce non le vivi come tali. Non stai togliendo nulla alla tua vita, proprio perché hai una priorità, una meta in testa. Un desiderio forte ti attraversa e sposta il tuo centro pulsante. Se poi la grande passione si lega a un grande talento, la spinta performativa aumenta, i risultati arrivano e tu diventi un tutt’uno con questo bisogno di alzare continuamente l’asticella. Mi farò del male, così? Sarebbe meglio che facessi meno? I pensieri ragionevoli sono adatti ai corpi medi, a talenti medi, a desideri medi. Un ultracorpo consapevole della sua eccezionalità sa osare. Deve osare. È perfettamente cosciente di essere un corpo pezzo unico. Non fa media. Non è seriale. Svetta tra gli altri e quindi sa che può pretendere. Rischi la vita? Ne vale la pena? Gli ultracorpi rispondono quasi sempre con un Sì. E poi si muore tutti i giorni, in mille stupidissimi modi diversi. E ancora: mettersi al riparo cercando di prevenire la morte ti renderà più felice? Sono scelte – inevitabili – appunto. 

Nonostante l’orgoglio curvy si stia facendo strada è innegabile come il legame tra bellezza, leggerezza e magrezza rimanga ben saldo nella nostra società. Leggendo il tuo libro a un certo punto mi sono chiesta: ma un obeso, un grande obeso, è un ultracorpo? Vigoressici e anoressici forgiano il loro corpo estremo nella fatica, nel sacrificio e nella volontà. Un obeso no, alla volontà sostituisce la non-volontà, al sacrificio il non-sacrificio, e per questo è percepito come indolente, vizioso, disprezzabile. Eppure la sua deformità ha alle origini altrettanti disagi, ferite, traumi. Quindi ti chiedo, un obeso è oppure no un ultracorpo?

Osservazione interessante che mi hanno già fatto altre volte. Un corpo obeso in quanto irregolare e fuori norma, può in certo senso essere considerato un ultracorpo. Nel senso più stretto che ne do io, però, l’idea di ultracorpo ha in matrice una diversità che scaturisce da un delirio di perfezione. Un corpo obeso non cerca controllo sulla forma. Non vuole domarla. Non vive la reinvenzione del corpo attraverso un’onnipotenza creativa. Quella forma apparentemente ultra data dal suo peso eccessivo, non è dettata da un bisogno di modifica consapevole. Non ha spinte utopiche. È una forma problematica, diversa, che trasborda fuori dall’ovvio per mancato controllo. In un certo senso è proprio l’opposto. Abbandona il corpo alla sua deriva. Lascia perdere il concetto di bellezza della forma. E quindi no, necessariamente gli manca l’intento da ultracorpo.

Nel libro si incontrano numerose contrapposizioni, tra apollineo e dionisiaco, tra perfezione tecnica ed espressività (molto interessante ad esempio il confronto tra Nureyev e Bolle) nelle diverse arti. Questa contrapposizione vale anche nella scrittura?

La scrittura, come tutte le forme d’arte, deve avere entrambe le cose. Per forza. Ci vuole il fuoco dionisiaco, la passione che brucia e che fa infiammare la pagina, e poi la disciplina compassata della forma. L’arte è questo continuo saper gestire forma e contenuto. Passione e ragione. Non se ne esce.

Il balletto classico sembra essere la roccaforte della rappresentazione della coppia eterosessuale: lei sulle punte, evanescente, pura, lui con i piedi a terra che la sostiene. Prevedi che l’attuale rivoluzione dei generi porterà novità in questo senso?

Come dico nel libro, si sta cercando di contaminare il canone dominante fiabesco della ballerina romantica evanescente accanto al ballerino principe che la trarrà in salvo, con immaginari più contemporanei.  Stiamo insomma cercando di integrare alle favole, qualche narrazione più urbana, contemporanea, reale. Al momento però le alternative sono appunto delle alternative, e quindi piani B in risposta a quello A che rimane al primo posto stabile sul piedistallo.

Entriamo nell’era dell’ultrapiatto, dello slim, del sottile, dei telefonini ogni anno più schiacciati, più potenti, più leggeri. L’egemonia degli schermi rappresenta la sconfitta dello spessore”. Ad un certo punto fai un paragone molto interessante tra la sottigliezza del fisico e la virtualità, il mondo social in cui ci liberiamo del corpo e proponiamo una nostra immagine più o meno reinventata, e in cui tanti, dai bodybuilder alle giovanissime con disturbi alimentari, raccontano il loro dolore, a volte trovando conforto, a volte lucrandoci sopra. Tu hai una bacheca Facebook molto interessante e seguita, senza eccessi e senza ostentazioni. Hai un consiglio da dare per una corretta gestione dei social, per scrittori e non?

Il virtuale come luogo di corpo s-materiale mette di nuovo al centro la nostra sete di perfezione. Tramite filtri e tagli copia incolla, riusciamo a creare una versione utopica di noi. Proprio perché la vita è raggiungibile. Proprio perché la materia ci tradisce sempre. E quindi viviamo attraverso lo schermo una seconda strada, utopica e praticabile. Il come poi gestiamo questo corpo virtuale ha a che fare con la nostra capacità di gestire e accordare il limbo dei social, che è proprio un istmo che lambisce le due sponde pubblico e privato. Io lo faccio piuttosto intuitivamente. Dico cose e le dico nell’unico modo che so. Nel modo in cui mi piace dirle. A volte in maniera abrasiva e lapidaria. Difatti poi vengo redarguita da una serie di contatti che io chiamo: gli spioni del balcone di fronte. Quelli che non postano nulla, non ti mettono mai un like manco a morire, e però ti controllano, stanno lì in attesa, e appena sfori, eccoli pronti ad alzare il ditino. Per carità, fa parte del gioco. Io preferisco chi si espone a chi se ne sta con le chiappe sedute sul balcone di casa ad attendere la mossa falsa dei vicini, con buona pace di Ballard.

Viviana Viviani

*In copertina: Arnold Schwarzenegger, Mr. Olympia, 1980

Gruppo MAGOG