14 Febbraio 2022

"Popolarità e soldi non determinano la qualità dell’opera". Dialogo con Simone Cerlini

L’ora muta di Simone Cerlini, edito da Alter ego (2021) è un’opera multiforme, sia per quanto riguarda il genere che le tecniche narrative. Inizialmente romanzo di formazione, con protagonista Camilla, studentessa universitaria emiliana in cerca di sé tra esperienze più o meno estreme, diventa poi, tramite la storia familiare della ragazza, un romanzo corale e sociale che ripercorre la storia italiana tra gli anni Ottanta e il primo decennio del Duemila, ricco di riferimenti all’attualità di quel periodo, in particolare la crisi finanziaria di un’importante impresa di moda emiliana. La complessità della trama e delle tematiche trattate non toglie potenza e vitalità alla narrazione, in cui pubblico e privato, individuale e collettivo si compenetrano con sapienza, così come realismo e invenzione. Le vicende storiche e gli intrighi finanziari fanno da sfondo ideale ai sentimenti e alle pulsioni dei personaggi, sempre vivi, imperfetti e profondamente umani, tra battaglie, debolezze e desideri di rivalsa.

Il tuo romanzo si apre con due citazioni. Una classica, “risu cognoscere matrem”, dalla IV Ecloga di Virgilio, l’altra più pop, “Saper raccontare ai nostri bambini quando è l’ora muta delle fate”, dalla canzone C’è tempo di Ivano Fossati, che contiene anche il titolo del romanzo. A legare le due citazioni è la relazione tra genitori e figli, infatti il tuo romanzo racconta prima di tutto il rapporto tra un padre, Giorgio, e una figlia, Camilla. Il loro legame appare al lettore a tratti sano e costruttivo e a tratti disfunzionale, tu come lo definiresti?

Hai presente l’epochè in fenomenologia? In ultima analisi è la sospensione dell’elemento soggettivo che condiziona il giudizio. In letteratura è l’attenzione a non usare la storia a fini strumentali e soggettivi. “Come se” il romanzo fosse una lettera per un destinatario preciso. “Come se” il romanzo fosse uno spot per il suo autore. Il rischio esiste sempre e caderci sarebbe un errore che pregiudica dalle fondamenta la storia. Bisogna con molta cura sterilizzare quel rischio. Se fai questo, con molta attenzione, e molto amore per le parole, la scrittura diventa uno scavo della realtà. Tutto il valore di verità del romanzo sta nella sincerità dello scrittore e insieme nel suo togliersi da lì, scomparire. Allora quello che magari nella scaletta era un progetto con un significato preciso e un andamento nelle relazioni, nel tempo della stesura si stacca, assume autonomia, e l’unico valore con cui misurarlo e definirlo diventa la verità. Il legame tra Giorgio e Camilla è una relazione, vera, con tutte le sue contraddizioni. Almeno sembra che così venga percepita. E una relazione vera è spiazzante, è sconvolgente. Sentiamo insieme l’attrazione per qualcosa che riconosciamo e allo stesso tempo il rigetto di qualcosa che non si fa, di osceno. Siamo avvezzi alle maschere, arrivare all’osso ci sembra poco cortese, poco educato. Abbiamo consuetudine con una verità ostentata, e proprio per questo decisamente falsa. Una finzione con cui lo scrittore narciso si presenta al mondo: sono qui, sono questo qui, ammiratemi! La verità invece è neutra. Non fa bande, neppure entusiasmi. Però scava. Scava. Richiuso il libro t’accorgi che t’ha aperto un vuoto dentro. Perché ti costringe a cancellare le menzogne con cui siamo troppo abituati a travestirci.

L’altro tema fondamentale del libro è il lavoro. Giorgio ha un passato da dirigente, licenziato in tronco negli anni novanta per questioni ancora poco chiare, Camilla vent’anni dopo muove i suoi primi passi in azienda e si troverà ad affrontare situazioni analoghe, in cui cercherà di riscattare il destino del padre oltre che il proprio. Le vicende dei tuoi personaggi si intrecciano con eventi storici reali, tra cui la crisi che portò tanti licenziamenti in Italia nel 2009, ma ad un certo punto inserisci un’ucronia: un evento realistico ma non reale che innesca una serie di fatti alternativa a quel che fu in realtà, una rivolta popolare che in realtà non ci fu mai. Credi ancora, ai giorni nostri, nella possibilità di una ribellione popolare contro il potere, o le modalità per opporsi al sistema sono radicalmente cambiate?

Quell’evento è avvenuto, poco distante da noi. Nel dicembre del 2010 Mohamed Bouazizi si dà fuoco in segno di protesta contro il regime e la corruzione della Tunisia. Un venditore ambulante preso di mira più volte dalle forze dell’ordine perché non aveva possibilità di pagare tangenti. L’evento è un detonatore che fa esplodere la rabbia e la frustrazione in molti paesi nella riva sud del Mediterraneo. Confesso che il mio progetto era creare empatia con quanto era accaduto nei paesi arabi, evidenziando i punti in comune con quanto abbiamo vissuto. I licenziamenti, la corruzione, lo sguardo miope delle istituzioni. In Italia siamo molto più vecchi, quindi più deboli e disillusi. È però vero che la forza capace di annacquare l’indignazione in quegli anni è stata anche la paura di perdere i privilegi o la consapevolezza quiescente che nessuno è innocente. Con chi me la prendo, se io stesso sono parte dell’ingiustizia? E no, non è con la distruzione che penso possibile cambiare le cose. La storia ci ha insegnato che a gruppi privilegiati la violenza sostituisce altri gruppi privilegiati. Il grande equivoco è che un qualsiasi potere nuovo debba decidere come redistribuire le risorse: allora guarda caso saranno favoriti proprio quelli che stanno accanto al nuovo sovrano. Le famiglie che colonizzano i ministeri, gli avvocati che infestano i parlamenti, i baroni che dominano le università. E tutta la loro corte di giullari, figli cadetti, parenti con velleità artistiche. Tutti meschini che a ben guardare giocano, non mettono mai davvero a rischio niente, il fallimento per loro è una partita sfortunata a badminton nel parco di casa, brucia, sì, ma si rifaranno con un abbondante aperitivo. Invece quelli che non hanno una rete sotto e rischiano davvero hanno solo due strade: omologarsi o rientrare nel grande calderone degli sconfitti malmostosi. A volte, lo sai, la frustrazione è talmente gigantesca da condurci alla morte. Dovremmo, noi underdog, figli di nessuno, riscoprire l’orgoglio di essere ciò che siamo, senza scimmiottare i benestanti privilegiati, senza aderire ai loro sogni e assuefarci al loro immaginario. Mostrare loro che di qua dal muro noi intendiamo il lavoro non come fatica inutile che abbruttisce e dalla quale allontanarsi con ripugnanza, ma come contributo al bene comune, o come responsabilità verso le persone che ci sono vicine, come un qualcosa che ci fa stare nella nostra dignità di uomini e ci rende infinitamente migliori di loro. Noi per garantire un futuro ai nostri figli non incassiamo affitti, né guardiamo maturare il valore delle nostre azioni, ma ci impegniamo, ci facciamo il culo ogni giorno e quello che abbiamo lo abbiamo sudato.

Giorgio cede spesso all’alcol, Camilla, insieme all’amica Luisa, sperimenta vari tipi di droghe, la madre di Camilla, Aida, è assente per molti anni a causa di un grave problema di tossicodipendenza. Il tema della dipendenza ricorre quindi nel libro per molti personaggi. Una fuga dalla realtà o qualcosa di più? Qual è la tua esperienza, reale o mediata, riguardo alle dipendenze e da che cosa secondo te oggi siamo dipendenti più che da qualsiasi droga?

Immagina di essere un cane, in una stanza in cui ci sono porte in ogni parete. Le porte davanti a te sono sbarrate. Puoi uggiolare, raspare, ma non si apriranno mai. Ti illudi che oltre ci possa essere un prato, non lo potrai sapere. Altre porte sono aperte. Hai tentato e ogni volta ti sei preso bastonate. Tenti ancora, e prendi bastonate. Poi riprendi a uggiolare e raspare. È capitato a tutti. Ci guardiamo in mezzo alle zampe e troviamo il nostro osso salvifico. Sono i momenti in cui cerchiamo una gratificazione facile e immediata. Un sollievo, un piacere disperato qui ed ora, va bene qualsiasi cosa. Ecco a quel punto te lo fai bastare, quel conforto fine a se stesso. Ognuno ha la dipendenza che si merita. Facciamo quel che ci dà piacere, allontaniamo da noi il dolore. Se ci sono troppe porte chiuse, ci accontentiamo di un surrogato della felicità. Ti aspettavi che parlassi del lavoro come droga, o del sesso, o dei like sui social? In realtà la dipendenza nasce dal non avere alternative. Dimmi qual è la tua dipendenza e ti dirò se hai avuto una vita di merda. Sì nel romanzo si percepisce questa familiarità con le droghe. Mi è stato detto. Ma non sono Vanni Santoni, adepto reo confesso o antropologo dei rave party e sperimentatore dell’Ayahuasca. Solo, alla vita le ho messo la lingua in bocca talmente a fondo da trafiggerle il cuore. Non è una frase da Bacio Perugina, è una citazione da Underworld. Cosa significa? Significa assaporare fino in fondo il presente. E magari sì anche progettarsi nel tempo ma per la gioia che dà adesso quell’impegno e quello sguardo lontano. E quando aderisci così tanto alle cose, qualcosa ti rimane appiccicato addosso.

Il tuo libro è ambientato in Emilia, regione in cui sei nato e in cui vivi, molto ben descritta con il suo paesaggio naturale interrotto dal metallo e dalla ruggine delle industrie. In un mondo sempre più globalizzato, quanto ritieni che ancora oggi nascere in un luogo piuttosto che in un altro condizioni la nostra vita e le nostre scelte? Oppure il luogo è ormai indifferente (almeno rimanendo in Europa, lasciamo da parte le culture molto diverse dalla nostra) e quel che fa la differenza è la condizione sociale? O ancora,  è l’individuo quello che fa la differenza e quando raggiunge la piena maturità può realizzare le sue aspirazioni a prescindere dalle origini? In poche parole, per te contano di più le radici o le ali?

Se la tua identità nasce dalle esperienze che fai nell’età adulta e solo da quelle, allora viviamo in un grande universo di replicanti, la cui unica libertà è scegliersi la bolla sui social, in base alla comunione delle letture o dei film, o alla musica o alle serie guardate al liceo. L’identità nascerebbe dal caso e quello che sei non c’entra praticamente nulla. Se invece ci metti la continuità nel tempo e nello spazio, nella storia della tua famiglia, della tua piccola comunità, del paese, dei piccoli cerimoniali della tua gente, dei paesaggi che ti sono cari, allora l’identità ha un senso diverso. Siamo anche la nostra infanzia passata tra le stalle e i fossi, i furti delle pannocchie nei campi e i falò per abbrustolirle. Siamo le esplorazioni alla scoperta di castelli diroccati nelle colline, le giornate perse nelle tende sui nostri monti, accanto ai laghetti d’Appennino, siamo gli amici elettricisti o vignaioli, tecnici della meccatronica e disegnatori di ceramiche, venditori, rappresentanti e bottegai. Ci sentiamo sulle spalle la vita di generazioni che ci hanno preceduto, che hanno reso papà quel che è stato e hanno reso me quel che sono. E mette anche in qualche modo una ipoteca sul nostro progetto e il nostro futuro. Davvero possiamo fingere di non aver contratto un debito con chi si è sbattuto per farci essere ciò che siamo? Davvero possiamo fingere che la vita che hanno vissuto non debba da noi essere riscattata? Credo che riconoscerlo ci faccia essere finalmente liberi. Paradossalmente, sì. Perché altrimenti quel debito negato continuerà a pesarci addosso e a fare scelte al posto nostro. Le radici, per usare la tua metafora, ci nutrono. Ci fanno essere ciò che siamo. Poi sta a noi allungare i rami fin dove riusciamo, anche fino a circondare il mondo intero.

Ne L’ora muta utilizzi molti registri e numerose tecniche narrative: all’inizio appare come un romanzo di formazione, ricco di dialoghi vivaci e realistici, poi diventa un romanzo corale in cui ogni personaggio narra con la propria voce, poi Camilla racconta il passato del padre come fosse la sceneggiatura di un film, e a un certo punto incontriamo persino un finto articolo di giornale, a rivelare il passato di uno dei personaggi. Con quali diversi scopi e intenzioni hai utilizzato questa varietà di tecniche nei diversi momenti del romanzo?

Sì, ci tengo a specificare che L’ora muta non è un romanzo sperimentale. L’evoluzione nelle tecniche e nei registri si accompagna ad un andamento sufficientemente tradizionale da non risultare indigesto. Tutto è chiaro, sovraesposto, sufficientemente lineare. Ma hai ragione, il linguaggio cambia e cambia la tecnica. Questo perché la scrittura lo consente. Ogni scelta di montaggio ha un significato, il lettore lo sa e se ha sufficiente fiducia nell’autore si chiede qual è. L’indagine sul senso della forma è altrettanto appassionante per me che la ricerca della soluzione degli enigmi. Lavorare sulle forme consente di dire molto di più di quanto possa dire la storia e l’intreccio, possibilità che è una delle critiche fondamentali all’imperio dello storytelling. Allora risponderti alla domanda è un po’ come rivelare l’assassino. Però voglio darti un indizio: in una scena ambientata al Ponte della Bionda Camilla e Luisa, mentre disquisiscono di maschi e di merda, parlano di qualcosa che sembra riguardare la post-verità, ante litteram. Parlano della necessità di costruire la verità, in quanto è in ultima analisi inconoscibile. Scopriremo la storia di Giorgio da una sceneggiatura scritta dalla figlia che non poteva sapere tutto. Ha inventato sulla base di informazioni e testi raccolti. Poi alla fine il romanzo si chiude con un articolo, un’intervista, che sembra non c’entrare nulla, o quanto meno c’entra poco: da una rivista reale, a firma di un giornalista reale. Se digiti su google quel numero della rivista effettivamente compare. Ma allora quegli eventi di Aida sono reali? Ci sono nel romanzo mischiati tra loro in modo indistinguibile eventi reali ed eventi immaginati, come nella sceneggiatura di Camilla? Ma se le cose stanno così la parte reale riguarda solo la vicenda di un personaggio o riguarda tutti quanti? A quel punto il lettore è costretto a rileggere tutto con un’altra lente. E magari a rimettere in discussione quel che sa.

Gestisci anche un blog che introduci con la frase “Non ho la presunzione di esprimere concetti universali. Racconto quello che ho visto e che vedo. Quel che scrivo, dipende dal mio punto di vista. Della mia famiglia, della mia terra, della mia gente”. Eppure il tuo è un romanzo ad ampio respiro, non certo di uno che si guarda l’ombelico. Partire da sé stessi è inevitabile, ma quale credi sia per uno scrittore il metodo migliore per rendere le storie interessanti per chi legge e uscire dal micro biografismo in cui tanti cadono?

Non possiamo che iniziare a raccontare da un punto di vista. Solo dopo mettiamo in atto le necessarie tecniche per depotenziare e sterilizzare la soggettività (certo con una operazione poco di moda, oggi tirano i memoir più o meno mascherati della classe dei benestanti intellettuali). Non esiste una ricetta per rendere un libro interessante senza prima chiederci: interessante per chi? Vuoi scrivere per i giornalisti delle pagine culturali che poi ti recensiranno? Allora dovrai parlare il loro linguaggio e coccolare i loro interessi. Se sei della stessa cricca parti avvantaggiato. È un fatto di numeri e di bias cognitivi. Ci fidiamo del nostro simile. Le redazioni culturali sono infestate da rampolli di buona famiglia con studi classici. Quando un esemplare ha un back ground diverso ecco che immediatamente brilla di luce propria e lo riconosci ma sono mosche bianche. La gran parte segue un solito cliché. Ottimo parlare di arte contemporanea, decantare il ruolo salvifico della cultura, lottare per il riscatto femminile o per i diritti delle famiglie fluide. Benino parlare di temi esotici come il lavoro operaio o la vita degli emarginati a Rozzano e Gratosoglio. Meno bene trattare di famiglie cattoliche o impiegati e quadri le cui vite devono per forza essere grigie e prive di significato. Certo mi offende questa visione del mondo ma è quella che ci propinano quotidianamente e dobbiamo averci a che fare. Per questo è utile uscire dalla presunzione che ciò che raccontiamo sia universale o esito di uno sguardo oggettivo. Lo faranno loro, i capiscioni e saputi di sinistra (che i progressisti siano convinti di avere tutte le risposte lo dice John Stuart Mill nel suo discorso al parlamento del 1866, le cose non sembrano cambiate di molto). Io so che quel che vedo, i temi che scelgo, gli argomenti che tratto dipendono da uno sguardo obliquo. Credo che il mio libro sia interessante per chi viene dal nulla. Per chi ha studiato all’istituto tecnico, per i ragionieri, per chi ha nonni contadini. Per chi è impiegato o lo è stato, per chi conosce le aziende, per chi ha affrontato la vita senza paracadute o rete. Per noi coraggiosi, Viviana. Sarà un libro detestato dai paraculi e codardi, dagli sbruffoni e dagli arroganti, da chi crede di possedere la visione giusta delle cose, da chi si permette di giocare con la vita, perché tanto non rischia niente. Anche i pochissimi che non hanno amato il libro (troppo lungo, troppo ricco, troppi livelli di lettura), hanno trovato in esso qualità: a malincuore dovevano ammettere che i personaggi sono ben costruiti, che c’è padronanza nei dialoghi, che i temi sono interessanti. È singolare ma è così, avrà un suo significato. Per tutti gli altri il libro sarà un viaggio esotico in un mondo sconosciuto.

Ma quindi sei di destra?

Che domanda fascista! Chiedimi se sono eterosessuale! Ti rispondessi di sì verrei immediatamente derubricato dalla lista degli scrittori, perderei ogni possibilità di essere recensito e molti conoscenti mi toglierebbero il saluto. Quantomeno verrei recluso in una gabbia per non nuocere, con i miei simili, da stuzzicare ogni tanto come si fa con le scimmie. In realtà sono stato tirato su di fianco al Campanile, insieme a una ghenga composta da personaggi strani tipici delle mie parti, tendenzialmente i reietti e gli sfigati come me. Cattolicesimo più Emilia significa mondo cooperativo. Credo nella libera impresa per rispondere ai bisogni delle persone e alla responsabilità sociale dell’agire economico. Insomma troppo liberista per essere di sinistra e troppo vicino ai temi sociali per essere di destra. Come con la sessualità dovremmo superare classificazioni binarie e sdoganare le appartenenze fluide.

Ti capisco, anche a me hanno sempre tirato le pietre sia da destra che da sinistra, su vari argomenti. Torniamo al libro. Un personaggio molto interessante e ricco di sfaccettature è Moira, donna in carriera realmente partita dal nulla, che per mantenere una posizione di potere rinuncia alla possibilità di un figlio con l’uomo che ama. Non mi spingerei a dire che L’ora muta sia un romanzo antiabortista, ma di certo pone il problema della rinuncia agli affetti a favore della ricchezza e della scalata sociale e di quanto un fallimento lavorativo possa minare anche l’ambiente familiare. Eppure durante la pandemia ha iniziato ad affermarsi, soprattutto in Usa ma ora anche in Italia, un fenomeno chiamato great resignation. Forse per la riscoperta del tempo da dedicare a sé stessi durante i lockdown, forse per un senso di morte imminente che porta a non voler più sprecare la propria vita in cose che non si ha voglia di fare, molte persone stanno abbandonando posti di lavoro troppo totalizzanti o comunque insoddisfacenti per andare alla ricerca di un miglior equilibro tra lavoro e tempo libero. Cosa pensi di questo fenomeno? Ci vedi l’occasione per creare un mondo del lavoro più equo e a misura d’uomo o credi possa nascondere qualche insidia?

L’aborto è un’esperienza devastante. Niente è più come prima. Eppure ormai ci si avvicina a questa scelta con troppa leggerezza. Nei confronti del lavoro, della carriera, è un sacrificio che spesso è ritenuto necessario, quasi dovuto. Da chi non ha margini di errore, naturalmente. È un discorso molto ampio che meriterebbe una conversazione a parte. L’aborto è una scelta che costringe a fare i conti con la situazione sociale, economica, abitativa e non è un fatto solo morale, come molti tentano di farci credere. Ed è un’opzione terribile, oscena, che ci infetterà senza possibilità di guarigione. Lo dico, purtroppo, per esperienza diretta, da primo colpevole. Una colpa irrimediabile. Riguardo alla great resignation, proprio di lavoro mi occupo e conosco bene il fenomeno. Molte dimissioni volontarie dipendono dal fatto che in questa congiuntura le aziende non trovano lavoratori e si scippano i migliori talenti. La vulgata vuole invece una fuga dal lavoro in quanto tale o il tentativo di trovare senso fuori dal lavoro. Questo perché la narrazione è dominata dai soliti noti che vengono a dirci: “Ecco vedete? La vita vera, gratificante, che rende ragione della nostra umanità è quella che facciamo noi benestanti intellettuali del mondo culturale, non voi ottusi schiavi del lavoro”. Siamo ancora per questa gentaglia alla divisione tra arti liberali degne dell’uomo e arti meccaniche proprie delle bestie. Poi se ci guardiamo davvero dentro, a quella vita gratificante che ci viene proposta come modello, troviamo persone frustrate e invidiose, dipendenze, famiglie distrutte, meschinità. Esattamente come nel resto del mondo, probabilmente peggio. Qualche scrittore se ne rende conto, magari troppo tardi, e deve ammettere di avere buttato la propria vita nel cesso. 

Il bello dei tuoi personaggi è che nessuno di loro è del tutto puro, tutti hanno ombre, peccati e fragilità, eppure risultano profondamente umani. I veri cattivi invece si annidano nei giochi di potere dell’alta finanza, nelle cui mani anche un dirigente come Giorgio o una giovane rampante come Camilla non sono che burattini. Si può considerare quindi un romanzo anticapitalista? E cos’è oggi il capitalismo, tenuto conto che chiunque, a meno che non sia un magnate della finanza, si dichiara facilmente anticapitalista, eppure passiamo subito sulla difensiva quando sentiamo minacciati in qualsiasi modo i nostri patrimoni personali?

Ce la prendiamo con il capitalismo perché non vediamo bene i dettagli. La nostra vista è sfocata. Vediamo l’ingiustizia, vediamo la polarizzazione della ricchezza e allora invochiamo un demiurgo onnisciente che rimetta le cose a posto. Eppure non esiste uno Stato con questa capacità totalizzante di comprensione delle cose. La migliore allocazione delle risorse è data dal laborioso darsi da fare, spontaneo e libero, di ogni singolo atomo della società. Questo significa anche che l’ingiustizia non è causata dal sistema economico a cui sostituire un sistema diverso, ma dalle scelte spesso deliberate degli uomini. L’equità, il riconoscimento del contributo positivo di tutti, la valorizzazione del merito, sono effetti di scelte che dipendono da ognuno di noi. Chi prende decisioni dovrebbe farsi carico della responsabilità. Bene, allora chiediamoci: chi è che sceglie tra opzioni che hanno impatto sugli altri? Con quali valori? In base a quali principi? Le diverse alternative sulla scrivania possono condizionare anche profondamente la vita più privata delle persone. Nel migliore dei mondi possibili per ogni scelta dovremmo farci carico di questa possibilità, guardarla negli occhi e pagarne le conseguenze. Non si tratta di capitalismo, di modelli economici, di pianificazione, si tratta di persone. L’ingiustizia è l’esito della razionalità limitata di ognuno, oppure della volontà di prevaricazione e sopruso. Prendersela con il capitalismo è uno scaricabarile tanto più odioso quando sono proprio i privilegiati a fare dell’anticapitalismo una bandiera.

Tra le tue fonti citi come romanzo ispiratore Sotto una buona stella (A special providence) di Richard Yates. Giorgio e Camilla sono quindi due loser come Bobby e la madre Alice? Eppure, ho notato una differenza fondamentale: al contrario di Alice, che nel romanzo di Yates sacrifica tutto al suo improbabile sogno di diventare scultrice, ne L’ora muta nessun personaggio ha velleità artistiche, a parte forse Luisa, che però sembra suonare il piano più per non scontentare i genitori che per reale passione. Ritieni che il duro lavoro sia più importante nella formazione di una persona rispetto al coltivare aspirazioni artistiche? O forse per avere successo come artisti è indispensabile, al di là del talento, essere davvero nati sotto una buona stella?

“Coltivare aspirazioni artistiche”, “avere successo come artisti”, ma di cosa stiamo parlando? Della popolarità anonima? Delle vendite e dei soldi? Sì in questo caso sì: conviene essere nati nelle famiglie giuste. Certo che è ben strano che il senso per un artista sia dato proprio attraverso i valori che l’arte guarda con sdegno. Oppure forse alla base di questo discorso c’è l’intendere l’arte o la scrittura come un lavoro, un lavoro diverso e migliore degli altri? Non una vocazione, o un talento, ma un lavoro. Bene, se le cose stanno così, l’arte è un lavoro che ha senso se risponde a un bisogno degli altri. Se fa felice qualcuno, se l’opera produce piacere, riconoscimento, apprendimento, gratificazione non in me o nella mia cerchia più stretta, ma al maggior numero di persone. E l’effetto deve essere talmente potente che quelle persone devono essere addirittura disposte a pagare per vivere quell’esperienza. A Special Providence ci insegna a mettere in discussione proprio quell’aura che circonda gli artisti. Ne mette in luce il narcisismo, l’incapacità di assumersi responsabilità, l’invidia, la frustrazione e infine l’intollerabile solitudine. L’arte che diventa lavoro è un’arte popolare, che incontra i favori del pubblico, rispettabilissima, anzi fondamentale. Sellerio può pubblicare Michele Battini sull’anarchico Serantini perché pubblica Manzini e Camilleri. Ma popolarità e soldi non determinano la qualità dell’opera. Essa deve potere incontrare il suo pubblico, certo, magari specialissimo e minoritario. Su questo dovremmo concentrarci. Arrivare al nostro pubblico. Quando ci dimentichiamo di questo insignificante particolare allora perdiamo di vista il senso stesso di ciò che facciamo. Oppure vogliamo la popolarità? Le folle oceaniche? Ma chiediti: cosa ce ne facciamo? Ci dà una bella ondata di dopamina, e poi? Una dipendenza come un’altra. In sé, non ci vedo niente di meglio rispetto a una scopata, di quelle liquide e sfiancanti.

Ad un certo punto Camilla accusa gli impiegati appena licenziati di non avere alcuno spirito d’iniziativa nel cercare un nuovo lavoro. Poco dopo, in un altro dialogo, è Moira ad accusare Camilla di essere una figlia di papà e di non avercela per nulla fatta da sola come crede. Un ribaltamento che porta il lettore a chiedersi, ma chi sono oggi i privilegiati, se miliardari come Bezos, Gates, Elon Musk maneggiano la gran parte del denaro mondiale, eppure c’è una parte del mondo che reputa già privilegiato chiunque abbia una casa e uno stipendio accettabile? Il divario sembra aumentare, eppure sono proprio i miliardari sopra citati a finanziare la ricerca medica, l’esplorazione dell’universo, le fonti di energia pulita. Le più grandi scoperte, quelle che fanno fare all’umanità passi avanti, sono avvenute per lo più grazie a pochi uomini con grandi idee e molti mezzi. Come conciliare questa realtà con una maggiore giustizia sociale?

È difficile ammettere il debito con la fortuna. In “Don’t look up” una spocchiosa Cate Balchett sostiene di essersi affrancata dalla famiglia ricchissima per i propri talenti e l’incredibile successo negli studi. Come se le due cose (provenienza famigliare e successo scolastico) non fossero correlate. Eppure sappiamo che le cose non stanno affatto così. Il successo negli studi dipende in gran parte dalla provenienza, dalle enormi possibilità dovute alla fortuna e al caso. Il successo non è mai esclusivamente dovuto al merito, se per merito intendiamo qualità personali associate all’impegno. E quand’anche lo fosse: le qualità personali sono asset che non abbiamo guadagnato. Sai qual è il fattore chiave per avere successo in qualsiasi ambito? La determinazione? La programmazione? No: il caso. E anzi ancora di più una sana improvvisa botta di culo. Un giudizio sulle persone non lo si può dare in base al loro successo, al loro posto luminoso nel consesso umano e neppure in base a caratteristiche individuali, dall’avvenenza all’intelligenza alla tenacia alla capacità di risolvere problemi alla creatività alla fantasia. L’unico giudizio legittimo è sulle scelte. Non credo neppure che “le più grandi scoperte” nascano da persone geniali e grandi mezzi. Thomas Newcomen, George Stephenson, lo stesso James Watt sono lì a ricordarcelo. Joy, il film di David Russel parla di una cameriera, Joy Mangano, che ha inventato il mocio: quello straccio che può essere strizzato nel secchiello senza bisogno di usare le mani. Tutti noi, quando incontriamo problemi nel nostro quotidiano ci diamo da fare per semplificare il nostro lavoro, per trovare soluzioni. Qualcuno ci fa profitto. Altri semplicemente intraprendono strade nuove che magari diventeranno con il tempo abitudine. Spesso le due cose coincidono.

Camilla pratica la boxe, uno sport ritenuto violento nell’accezione comune, ma in realtà una forma di scherma che insegna quando attaccare e quando parare i colpi. Ho letto che anche tu ti eserciti sul ring, ti ha aiutato in qualche modo ad affrontare la vita? E nella vita è maglio colpire duro per primi o difendersi?

Mi piace la palestra perché lì dentro non ci sono distinzioni di razza, genere, censo, età, qualifica, provenienza famigliare. Ti alleni e incroci i guanti. Se Camilla tratta con la medesima normalità neri, lesbiche, musulmani, direttori generali, facchini e magazzinieri è anche perché pratica l’arte della boxe. Il pugilato è un bell’antidoto contro la paura. Impari a gestire il dolore per quel che è: un segnale che ti manda il corpo, ma che non può mai permettersi di fiaccare la volontà, di sporcare la precisione dei colpi, di condizionare la libertà. C’è anche molto altro. La fratellanza che si respira tra i pugili è stata ben raccontata da Antonio Franchini ne “Il vecchio lottatore”, seppure nel suo caso parli più di lotta, Jiu Jitsu e MMA. Infine il pugilato ti insegna a non arrivare mai al punto da dover usare i pugni. Se per caso in una rissa fai partire i tuoi colpi rischi seriamente di ammazzare qualcuno. Se va bene gli spacchi il naso o gli disarticoli la mandibola. Questa consapevolezza ti costringe a controllare la tua forza. A dominare le emozioni.

Ne L’ora muta sono narrate due relazioni omosessuali, prima tra Camilla e Luisa e poi tra Camilla e Moira, la ex del padre. Eppure non ne è uscito un romanzo inquadrabile nell’attuale movimento LGBT+, né si è puntato su questo per motivi promozionali, anche se magari un argomento così attuale avrebbe portato visibilità. Quello che colpisce è che le storie sono narrate senza alcun presupposto ideologico e i personaggi stessi agiscono come se essere omosessuali o bisessuali non fosse affatto determinante nelle loro esistenze. Questo rispecchia il tuo pensiero al riguardo?

Fino a che le preferenze sessuali sono oggetto di ostentazione avremo un problema. Oggi quando i media ci presentano la sottocultura gay per lo più con un incantesimo ci trasferiscono in una Disneyland irreale. L’omosessuale si atteggia, si dipinge, si femminilizza. Oppure al contrario evidenzia i tratti mascolini, da bear o da motociclista di Tom of Finland. Bersagliato e bullizzato dai compagni, l’invertito diventerà parrucchiere, o stilista, o scrittore o artista. Dovrà per forza amare Raffaella Carrà e si sdilinquirà per Madonna. Poi c’è anche chi ci casca e adotta quello stereotipo. Ma possiamo forse noi esseri razionali, mediamente dotati di intelligenza, accettare questa narrazione? Non esistono forse impiegati gay, ingegneri, dirigenti, quadri, operai, elettricisti e insegnanti? Uomini e donne? Per costoro, la conquista della propria identità deve per forza essere passata dall’aver subito ingiurie, e poi da un riscatto oppositivo, dall’esibizione della differenza e dai gay pride? Nella mia esperienza la sessualità non è un fatto di lotta contro il mondo, ma un dialogo con se stessi. Sì certo, anche con i propri genitori, con le persone più vicine, ma quello che ho vissuto e che ho visto è che affrontare in modo sano la propria differenza sessuale significa semplicemente viverla.

 “L’amore ha un senso tutto diverso, quando lo si commisura al tempo. Alla durata, alla vita intera”. Ho sottolineato questa frase molto evocativa, qual è il suo significato? Che solo in punto di morte capiamo chi abbiamo amato e chi ci ha amato davvero?

Sta probabilmente in quella frase tutto il senso del romanzo. L’amore ha tanti significati quante sono le bocche che lo nominano. E probabilmente ogni volta che è nominato cambia ancora. Eppure proviamo a mettere l’amore di fianco al tempo. Se non si affievolisce, se anzi si potenzia, se dimostra senza voler dimostrare, se si trasforma in atti, in un prendersi cura, in una responsabilità, in un impegno. Se per esso scegliamo una strada invece che un’altra. Ma non oggi per domani, ma tra un mese, un anno, un decennio, un ventennio. L’amore ha a che fare con il tempo e con la memoria. Per giudicare di un amore dobbiamo aspettarne la fine e ci auguriamo di poter dire fino all’ultimo istante: ecco, è ancora qui, ecco mi stringe la mano, non se n’è andato, non se ne andrà, ormai, mai più.

Viviana Viviani

Gruppo MAGOG