18 Aprile 2020

“Di ciò che pensa uno scrittore alla gente non importa un fico secco”. Francesco Consiglio dialoga con Massimiliano Nuzzolo

Gli scrittori sono scomparsi dalla televisione. Non li intervista più nessuno. Le uniche eccezioni sono Roberto Saviano, che non va mai di persona e preferisce mandare il gemello predicatore che non parla mai di scrittura, e Mauro Corona, solo perché si presta a interpretare il personaggio del montanaro burbero che somiglia a Dinamite Bla, il personaggio disneyano che odia la città e vive in isolamento da tutto e tutti. E infatti Corona ogni tanto sbotta, perché quel ruolo gli va stretto. “Ho dovuto creare un personaggio, e fare il pagliaccio, per poter vendere libri e far laureare i miei quattro figli e comprar loro una casa”. Corona a parte, i nuovi maître à penser sono i cantanti. Dai pulpiti televisivi, con frivola leggerezza si preferisce chiedere a Jovanotti cosa pensa del debito del terzo mondo, e agli italiani angosciati dagli sviluppi di una pandemia si offre il pensiero rock di Vasco Rossi, il quale, sia detto forte, non è mica uno scemotto. La sua capacità di sintonizzarsi con il sentimento popolare è invidiabile, ma è anche vero che una volta in tivù ci andava Pasolini.

Dove sono finiti gli scrittori? Sono tutti sul web: scrittori laureati, scrittori così così, aspiranti scrittori, scribacchini mestieranti. Ma ciò che mi fa rabbia, è la valanga buzzurra, quella dei recensori. Vi siete accorti di quante recensioni esistono sul web? Io faccio una recensione a te, tu fai una recensione a me. Se uno scrittore mi è antipatico, chiamo il mio amico fake e gli faccio fare una stroncatura anonima su Amazon. Signori, il catalogo è questo: recensioni sincere (poche), recensioni prezzolate, recensioni striscianti, vendicative, isteriche.

Qualcuno dei miei quattro lettori dirà che questo lungo preambolo assomiglia a uno sfogo? Sì, in parte lo è. Ma serve soprattutto a dire che, avendo letto un bel libro, L’ultimo disco dei Cure, volevo recensirlo, ma poi ho pensato che se mi fossi trovato insieme all’autore Massimiliano Nuzzolo, al tavolo di un bar, non l’avrei mica recensito. Avrei scambiato quattro chiacchiere sul nostro maledetto scrivere.

E questo ho fatto.

Robert Bresson ha detto che l’ispirazione è quel momento in cui “non sai quel che fai e quel che fai è il meglio”. C’è un aneddoto su John Lennon che riassume il senso dell’illuminazione che arriva come una trance involontaria. Si racconta che, dopo avere composto una canzone, fu preso da un attimo di stupore e si chiese, sinceramente: “Ma l’ho scritta davvero io?”. Esistono poi scrittori con una mentalità più pragmatica, empirici piuttosto che istintivi, alla Stephen King, che si alzano tutti i giorni alla stessa ora, siedono alla scrivania e cominciano a scrivere sapendo esattamente a che ora finiranno.

Dove sono finiti gli scrittori? Per ironizzare sulle tue parole, prendendo spunto dalla quarantena che ci costringe a casa da più di un mese, direi che in giro non se ne vedono più… Diciamo che si è reso sempre meno necessario intervistare gli scrittori. Per milioni di motivi sia chiaro, primo tra tutti quello che il più delle volte non hanno molto da dire. In tivù poi servono il sensazionalismo e l’immagine. Un po’ come per le recensioni fake che citi, quelle in cui i libri recensiti sono sempre tutti bellissimi se sei “amico” e tutti bruttissimi se sei “nemico”, altro che analisi critica di un testo. Se i post e i commenti in rete si pagassero avremmo molti più spazi vuoti, non trovi? La figura dell’intellettuale fino ai primi anni ’80 era diversa, e non dimentichiamoci del ruolo avuto dalla tivù nell’alfabetizzazione di un paese che nel dopoguerra vessava in condizioni critiche. Pasolini era sicuramente di un altro livello. Ora tutto è cambiato, prevale il taglio “commerciale”, l’educational è relegato ai canali tematici. Non mi pare di vedere molte persone in grado di dire qualcosa di interessante sia in tivù sia nella vita, anche perché, diciamocelo onestamente, gli scrittori (e con loro i libri) non contano nulla. Non voglio nemmeno pensare a quanto incidano sull’economia, ma posso ipotizzare un numero che si avvicina allo zero e questo è già un indicatore… Forse più di qualcuno si è messo in testa di essere vitale e illuminante, ma di ciò che pensa uno scrittore alla gente non importa un fico secco. È evidente. Perdona la schiettezza, ma la tivù, che non amo particolarmente, mi sembra l’ultimo dei problemi di uno scrittore e dell’editoria. Parliamo di approccio alla scrittura, mi tocca molto di più. Interessanti spunti i tuoi, ma potremmo citare le parole di chissà quanti altri tra i quali Hemingway, Carver, Foster Wallace, eccetera, e ancora non avremmo una “regola”… Certo l’ispirazione è fondamentale (senza entrare nella psicologia che è pane quotidiano qui in casa per cause di forza maggiore) è il fenomeno che fa nascere tutto. Ma poi è necessario mettersi alla scrivania. Lavorare sodo, leggere, rileggere, scrivere, riscrivere. E a volte stupirsi e commuoversi come Lennon di aver fatto qualcosa che appare sorprendente e coinvolgente.

Se pensiamo ai narratori puri, escludendo gli impiegati della parola scritta che collaborano con giornali e riviste o scrivono per la tivù, è plausibile affermare che in Italia ci sono più scrittori che vivono per scrivere di quanti invece scrivono per vivere. Il lavoro del romanziere, salvo rare eccezioni, è confinato nel recinto degli hobby. Le bocce, il giardinaggio, il bricolage, la scrittura, pari sono.

Bocce, giardinaggio e bricolage sono più utili in quanto attività rigeneranti. A parte chi scrive per giornali, riviste e tivù, per tutti gli altri, salvo eccezioni che è bene precisare esistono anche se non hanno troppa visibilità né probabilmente destano particolare interesse, scrivere è uno “status” da narrare con tutta la retorica di cui è stato caricato. Sarebbe utile cominciare ad analizzare i dati reali, spesso schiaccianti, ripartire da lì. Inevitabilmente perderebbe senso per chiunque pavoneggiarsi delle proprie pubblicazioni (tanto più che quei libri li leggeranno in pochi e probabilmente non resteranno nella storia. Lo dicono i dati, non io…). Sono certo che se lo scrivere diventasse un mestiere con una propria dignità lavorativa più di qualcosa potrebbe cambiare, anche nell’atteggiamento e nel modo di comunicare i libri.

Ti riconosci nel mito romantico dello scrittore curvo sulla scrivania e assorto nella contemplazione del foglio bianco? Allarghiamo il quadro e mettiamoci anche whisky e sigarette, una stufetta elettrica, un gatto. Pensa a quanti scrittori hanno avuto un gatto: Pablo Neruda gli dedicò un’ode, Baudelaire lo chiamava “il mio compagno di vita”, Bukowski, Kerouac. Poi, all’improvviso, il sacro fuoco dell’ispirazione tocca lo scrittore e gli regala trame e personaggi. O forse no. Tu non hai l’aspetto del bohémien. Sei uno di quegli scrittori che prima di iniziare un romanzo preparano una scaletta e sanno esattamente dove porteranno i loro personaggi?

Ho due gatti e due piccole belve che vampirizzano amorevolmente il mio tempo. Amo anche Baudelaire ma non vorrei diventare calvo come lui. Whisky non ne bevo da anni, sigarette e caffè in gran quantità invece. La stufetta mi crea un po’ d’ansia per le notizie che si sentono al Tg di tanto in tanto; preferisco quindi stanze calde e confortevoli. Con una buona dose di ironia sono erede degli esistenzialisti. Di un bohémien conservo la forma mentis e il caos sulla scrivania, invidio fortemente tutte le persone ordinatissime. Amo però lavorare con il quadro sufficientemente delineato davanti a me, anche perché non ho mai troppo tempo per farlo, la vita quotidiana ha spesso il sopravvento ed è necessaria una buona programmazione. Magari poi il quadro lo metto a rovescio, o di sbieco, e sperimento, ma ho dei rituali e delle metodologie per scrivere o iniziare a scrivere qualcosa. Sia chiaro, non so mai dove mi porterà un personaggio. Io cerco di indirizzarlo, ma spesso prende una vita propria e prorompente che rischia di influenzarmi e farmi cambiare punto di vista, anche se cerco di mantenermi fedele al progetto. È bene non dimenticare che lavoriamo su qualcosa di “vivo”. Vallo a spiegare a chi vuole andare in tivù a mostrare il suo libro…

C’è chi ritiene che sia vantaggioso far leggere i propri testi ad altri, prima di farli vedere a un editore. Conosco uno scrittore che paga un editor personale. Non saprebbe farne a meno. Una volta gli ho detto che farsi correggere i testi prima di sottoporli al giudizio di un editore è un sintomo di profonda insicurezza, e da allora fa l’offeso e non mi parla più. Tu faresti leggere un tuo testo a un altro scrittore? Lo ritieni profittevole? Io non lo faccio mai perché temo che ogni suggerimento, anche il più sincero, finirebbe per portarmi su una strada che non è quella che ho deciso di percorrere. Se proprio devo accettare un editor è solo dopo aver firmato un contratto.

Il punto di vista “esterno” sui propri testi è preziosissimo, meglio se di un professionista. Grazie ai miei editori negli anni ho lavorato alla pubblicazione dei romanzi con diversi editor. Alcuni sono nomi che non hanno bisogno di pubblicità (ti sarà facile scoprirli, uno l’hai pure intervistato), altri sono meno famosi ma bravi (mi permetto di citare la giovane Antonietta Rubino che ha lavorato egregiamente con me sul romanzo “La verità dei topi” e che mi sentirei di consigliare a qualsiasi editore e autore). Ognuno ha un proprio approccio ed è fantastico scoprire e fare proprie le loro tecniche. Nessuno è mai intervenuto sopra un mio testo facendomelo cambiare, questo tengo a dirlo per rassicurarti. Anzi, è stato assai stimolante permeare punti di vista differenti, il confronto per giungere a condivisioni profonde e vedere il testo crescere. Non temo mai di perdere la strada, quella ce l’ho ben chiara in testa. E allo stesso modo, mi piace farmi leggere da amici scrittori che stimo, discutere di un testo in lavorazione. È sempre molto prezioso avere pareri validi e non condizionati quando l’obiettivo è rendere buono un testo e confrontarsi con il mercato.

Un lettore spesso non ci fa caso, ma una pagina di romanzo ha una precipua e potenziale oralità che la rende simile a uno spartito musicale. Una successione di parole è una successione di suoni. Perciò credo che gli scrittori dovrebbero leggere ad alta voce i loro testi, per valutarne la scorrevolezza, per capire il grado di musicalità, al di là del contenuto. A volte mi capita di iniziare a leggere un libro, e ho quasi l’impressione di inciampare nelle parole. Non riesco ad andare avanti. Per me scrittura e musica devono essere caratterizzate da un flusso liscio, essere piacevoli all’orecchio.

Sono felice tu mi faccia questa domanda. Anche per me la musicalità della parola, della frase, il fluire sonoro sulla pagina sono fondamentali. La musica è una delle prime discipline a cui mi sono appassionato. Ho prodotto anche alcuni dischi e mi piace citare i Soluzione, augurandomi di pubblicare presto un loro nuovo lavoro.  Sì, amo davvero la musica, la amo quanto la letteratura. D’altra parte, “L’ultimo disco dei Cure” il mio romanzo d’esordio ripubblicato qualche mese fa dalla storica Arcana editrice racconta una storia prendendo spunto proprio dalla mia passione sincera e profonda per la musica: certo, è un romanzo in piena regola di cui al lettore non sfuggiranno i riferimenti letterari e lo stile.

Francesco Consiglio

*Massimiliano Nuzzolo è nato a Mestre nel 1971. Ha esordito nel 2004 con il romanzo L’ultimo disco dei Cure ripubblicato da Arcana nel 2020. Nel 2007 ha pubblicato la raccolta di poesie Tre metri sotto terra (Coniglio editore). Esperto di musica e di culture giovanili, ha curato la raccolta di racconti La musica è il mio radar (Mursia 2010). Con Italic Pequod, nel 2012, ha pubblicato Fratture, nel 2014 La felicità è facile. Del 2018 è il romanzo L’agenzia della buona morte. La verità dei topi è uscito alla fine del 2019 per Les Flaneurs.

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