Continuo a meravigliarmi. Ci sono autori come Arthur Conan Doyle che più li leggi e meno capisci su di loro. Come si coniuga la sua creatura tutta fatta di nervi, tutta tesa alla logica, con il suo ideatore che invece credeva allo spiritismo? Perché Sherlock Holmes, quando non era angosciato da casi impossibili, si distruggeva con la morfina? Davvero era solo per eccitarsi mentre non aveva nulla di serio in mano? O era Conan Doyle che cercava di eliminare il suo personaggio? E per poco ci riuscì con un finale in cui Holmes cade giù per la cascata in un abbraccio mortale col suo nemico numero uno. Salvo che poi Sir Arthur C. Doyle dovette continuare a scrivere storie dell’investigatore perché così voleva il pubblico…
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Dicevo, di C. Doyle letteralmente non mi stupisce nulla. Quando giravo come pellegrino neomaggiorenne & speranzoso a Edimburgo comprai un volumetto che spiegava cos’era l’occulto per C. Doyle. Mi sembrò di un’estrema linearità. La complessità che dà vigore e spessore all’autore, che lo rende scettico al punto giusto verso la sua creazione di cristallo.
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Una delle stranezze riguardo la vita di Sir Arthur C. Doyle è che voleva essere ricordato per i suoi libri di invenzione e non per il suo investigatore morfinomane che suona il violino. Ad esempio, lui teneva moltissimo a The lost world che, per inciso, è alla base di… Jurassic Park.
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The lost world è del 1912. Dal 1902, l’anno del Mastino dei Baskerville, Sir Arthur era nell’empireo delle belle lettere e perciò quando nel 1908 Londra ospitò le Olimpiadi il nostro fu spedito a fare la cronaca. La vicenda è qui. Quelle Olimpiadi, a dire il vero, passarono alla storia perché il nostro Dorando Petri pur arrivando primo fu squalificato essendo stato sostenuto negli ultimi duecento metri da un medico e dal direttore di gara. Sir Arthur era lì e sfacchinava per Daily Mail scrivendo la sua cronaca. Era di luglio…
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Che tempi felici (o è la consueta idealizzazione del passato?) quelli in cui un autore affermato può scrivere in libertà di giornalismo sportivo senza passare per sfigato: “Ma ora la grande corsa si avvicina alla conclusione. Noi ci siamo. Aspettiamo in ottocento che appaia il nostro uomo, aspettiamo con ansia insoddisfatta e caotica, l’ansia delle masse. Ma lui deve pur sbucare da qualche parte… E però com’è diverso da quello che ci aspettavamo! Dalla strada spunta un uomo piccolino stretto nella sua tenuta ginnica, una sorta di piccolo adolescente. (…) Dietro di lui non compare nessuno. E qui un grande sospiro di sollievo. Credo che nessuno nel pubblico desideri che la vittoria vada all’ultimo istante ad altri che a questo piccolo e coraggioso italiano. Ha vinto. Era nell’ordine delle cose che vincesse”.
Ed ecco il finale con la grancassa: “Grazie a Dio, si regge ancora in piedi, piccole gambe arrossate che tirano avanti senza coerenza, spinte da una suprema volontà interiore. (…) Questa lotta tra uno scopo determinato e un breve spazio esaurito ha qualcosa di orribile e, allo stesso modo, di affascinante. Di nuovo, per cento iarde, il nostro corre col suo stile furioso e tuttavia incerto. E di nuovo sta per collassare allorché delle mani generose lo proteggono da una caduta al suolo rovinosa. Era a poche iarde dalla mia postazione. Tra figure gesticolanti e mani allungate, riuscii a cogliere uno scatto, un’immagine dell’uomo distrutto, della sua faccia color giallo dagli occhi invetrati e inespressivi, coi suoi lunghi capelli mori e ben pettinati. Certamente non ha più energia. Non riesce a sollevarsi. Cadrà ancora? No, barcolla, si bilancia e taglia il traguardo tra braccia amiche. È arrivato alla soglia di sopportazione umana. Nessuno tra gli antichi Romani si è comportato meglio di Dorando ai Giochi olimpici del 1908. La vecchia stirpe non è ancora estinta”.
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E ora un poco di letteratura che non guasta. Del resto, Sir Arthur voleva essere ricordato così. Eccolo che ci spiega, per la prima volta in italiano, chi era il miglior romanziere del suo tempo. (Andrea Bianchi)
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Arthur Conan Doyle, Il metodo inventivo di Mr. Stevenson, da National Review 1890
Da qualche parte, credo nella prefazione a Il principe Otto, Mr. Stevenson incide alla sua maniera giocosa, semi-onesta, un motto: vuol lanciare, per un verso o per un altro, questo libro o il prossimo, un capolavoro. E molti leggendo il suo ultimo lavoro, Il Master di Ballantrae, diranno che ha tenuto parola. Cosa costituisce un capolavoro? Storia forte e scritta con vigore, ricca di interesse umano, fatta di situazioni assolutamente originali – allora Il Master avanza i suoi titoli. Ma per sfortuna “capolavoro” è una parola di quelle nebulose: non c’è standard di Greenwich col quale misurare e verificare il genio. I critici contemporanei possono solo dare un giudizio dai loro punti di vista più o meno fallaci. E sul lungo termine la corte di appello deve pur essere l’opinione pubblica – un tribunale dal passo lento e pesante che necessita di almeno una generazione perché gli si chieda una decisione finale. Sua è l’ultima parola. Sbaglia raramente. O mai.
(…) Tenendoci stretti all’estrema fallacia della critica contemporanea, soppesiamo attentamente le nostre parole prima di parlare di capolavori. Pure, se l’intensa certezza interiore di un lettore simpatetico vale qualcosa, Mr. Stevenson dicendo quelle parole ha già dato al mondo un’opera così completa, ottima per simmetrie, ed è davvero inconcepibile che possa sparire – un giorno lontano – dal decalogo inglese. Il padiglione sulle dune è l’apice del suo genio, vale abbastanza, senza aggiunger altro, a dargli un posto tra i grandi story-tellers di razza. Con uno stile sempre puro, e un’immaginazione al solito vivida, proprio in questa storia l’uso felicissimo delle parole si sposa all’interesse scattante, tutto concentrato. (…) Pure, se Il padiglione sulle dune vanta titoli per esser trattato come capolavoro, e può essere abbastanza sicuro di superare la prova impietosa del tempo, lo stesso va concesso al Dr Jekyll. Infatti, dei due, Dr Jekyll benché leggermente inferiore artisticamente ha la più grande certezza di longevità.
L’allegoria che vi è contenuta attraverserà i giorni, anche se dovessero nascere nuovi metodi e variazioni gusto che tolgano charm alla storia. Fintanto che l’uomo rimane un essere duplice ed è in pericolo di venir conquistato dalla sua parte peggiore e, subita la sconfitta, trova difficile restare in piedi, ebbene Dr Jekyll avrà un significato vitale e personale per ogni essere umano che soffre la sua povertà. Mutato nomine de te fabula narratur. Così sapientemente vi è lavorata la parabola che l’azione di questa splendida storia non blocca, non rallenta mai, agli occhi del lettore. Solo guardando indietro, chiuso il libro, ci si accorge di come stia vicina a noi l’analogia della parabola – quanto si applichi bene a noi. Nell’insieme è difficile dubitare che, a prescindere dai suoi libri più lunghi, Mr. Stevenson abbia raggiunto la sua aspirazione e abbia prodotto non uno, ma due opere che, prendetele come vi pare, ancora reclamano per sé il titolo di capolavori…
L’arte di scrivere un racconto breve di gran classe è del tutto diversa dalla produzione di un buon romanzo. La prova migliore di questa differenza è che i maestri dell’una non hanno mai avuto successo nell’altra. (…) Ora Mr.Stevenson è riuscito in ciò. Ha percorso tutto lo spettro dell’invenzione. Le sue storie brevi sono buone, quelle lunghe pure. E nell’insieme, comunque, quelle brevi sono più specifiche e più sicuramente manterranno una posizione nel decalogo inglese.
Quelle brevi si adattano meglio al suo genio. Con autori scelti, alcuni dei quali vintage, un sorso rende il sapore originale meglio che se li spillassimo. Così con Mr. Stevenson. I suoi romanzi hanno virtu’ notevoli ma hanno il solito sapore, una sorta di retrogusto che può indebolirne il valore duraturo. Nei racconti, almeno in quelli migliori, le virtu’ rimangono sempre in vista, ma i difetti scompaiono. I loro meriti sono facilmente riscontrabili perché ha pochi rivali. Poe, Nathaniel Hawthorne, Stevenson; sono tre, metteteli come volete in ordine, sono i grandi esponenti del racconto breve nella nostra lingua. (…) C’è un tocco alla Meredith nel modo dei suoi libri, ma lo scopo è diverso. Vi è un uso idoneo di parole arcaiche, all’occasione, descrizioni brevi e vigorose, metafore notevoli, una tendenza a usare il discorso staccato. Eppure al posto di questo sapore, mantengono un’individualità per far scuola a sé. I loro difetti, o piuttosto limiti, non stanno nell’esecuzione ma proprio nella concezione di partenza.
Ritraggono un solo lato della vita, quello strano ed eccezionale. Nessun interesse volto al femminile. Un’apoteosi della storia per ragazzi, come nei fumetti della nostra gioventù, sia loro gloria in excelsis. Ma tutto vi è buono, fresco, pittoresco e quindi anche se lo sguardo è limitato mantiene uno spazio definito e ben sicuro nella letteratura. Non c’è ragione perché L’isola del tesoro non possa essere per la generazione che si avvia al ventunesimo secolo quel che Robinson Crusoe è stato per la gente dell’Ottocento. Il bilanciamento delle probabilità va in questa direzione. Il moderno romanzo maschile che tratta quasi esclusivamente del lato rude e tempestoso della vita, con l’oggettivo invece che col soggettivo, segna la reazione contro l’abuso di amore nel romanzo.
Questa fase della vita nel suo aspetto regolare e che finisce col matrimonio è stata trita e ridotta a ombra, non ci meravigliamo che ci sia tendenza ora a passare all’altro estremo che ci presenta solo i problemi virili (e meno di quanto serva). Nel romanzo britannico nove libri su dieci hanno fissato amore e matrimonio come l’Essere e la Fine della vita. Quando invece sappiamo, nella pratica, che non va così. Nella carriera di un uomo, in media, il matrimonio è un incidente momentaneo, uno tra i tanti; affari, ambizioni, amicizie, lotta con pericoli ricorrenti e difficoltà: questo mette alla prova la saggezza e il coraggio di un uomo. L’amore giocherà spesso un ruolo subordinato nella sua vita.
Quanti poi vanno in giro per il mondo senza amare affatto? Siamo di nuovo in mare aperto: sempre con questo amore continuamente tenuto in alto come il fatto predominante di una vita, il più importante; e c’è una tendenza proprio corretta in una data scuola, di cui Stevenson è leader, che evita questa fonte di interesse, così tanto malusata e strafatta. (…)
Mr. Stevenson, come uno dei suoi personaggi, ha un dono eccellente: il silenzio. Invariabilmente si attacca alle sue storie, non si fa distrarre da discorsi sulla vita e teorie sull’universo. Il business degli story-teller è proprio quello di raccontare una storia. Se vogliono volare su argomenti precisi, possono instillarli dentro piccoli lavori indipendenti, cosa che Mr. Stevenson ha fatto. Dove un personaggio tira fuori opinioni che gettano luce sulla sua propria individualità, questa è altra cosa, ma sicuramente è intollerabile che un autore debba fermare l’azione della sua storia per darci le sue vedute private sulle cose in generale. Sfortunatamente, i nostri più grandi autori sono i peggiori a peccare sul punto. Che si dovrebbe pensare di un drammaturgo che portasse in scena la sua opera e poi se ne venisse fuori, lui in persona, sotto i riflettori, a discorrere di ineguaglianza sociale e altre ipotesi nebulose? Mr. Stevenson è un artista troppo vero per cadere in questo errore, col risultato che non perde mai il lettore, lo tiene con attenzione tra le mani. Ha mostrato che un uomo può essere terso e lineare, per liberarsi poi da ogni sospetto di essere un volgare superficiale. Nessuno ha un’individualità più marcata, e quindi nessuno si cela più completamente di lui quando si mette a raccontare una storia…
Anche le poesie di Stevenson potrebbero costituire argomento di indagine. Sono effettivamente buone, talvolta ottime. Ticonderoga, per dire, può vantare i suoi titoli per essere la seconda miglior ballata di narrazione – il capolavoro di Coleridge rimanendo al primo posto – in tutta la gamma letteraria. Dobbiamo passare sopra tutto questo. È stato detto e ridetto che chi esaurisce il proprio argomento riesce poi ad esaurire il suo lettore. È stato sufficiente dire, casomai ve ne fosse stato bisogno, che Mr. Stevenson ha tutti i titoli non solo per popolarità tra contemporanei (e se la gode) ma per una fama durevole che percorre tutta la sua opera. Per quanto lontano possa andare dall’Inghilterra, lui vive ancora ed è ospite ben accolto davanti ai focolai inglesi, e sono migliaia. Nessun vivente ha più diritto di lui a fruire del comfort della fama, quel comfort che l’uomo può prender per sé – perché lui che ci ha dato gioia, lui che ha ridotto il dolore.
Sir Arthur Conan Doyle
*traduzione di Andrea Bianchi