09 Gennaio 2025

Manganelli tra il cellulare e gli Ufo. Ovvero, contro il compiaciuto vizio di “distruggerci da soli”

Talvolta succede che esca «un libro sottile e inverosimile, uno di quei libri che accade, non senza una paura di virtuosa vergogna, di leggere d’un fiato». Così Giorgio Manganelli parlava del romanzo Il Castello dei Carpazi, che Jules Verne pubblicò nel 1892, a seguito dei suoi grandi e inarrivabili successi, ritenendo quest’opera «assolutamente singolare, un capriccio di classe, una avventura da sapiente, da mago, da scienziato».

Le ragioni dell’eccezionalità del racconto, per il ‘Manga’, interessato di Verne a decifrare pure quei “crittogrammi” inquietanti tanto cari a Edoardo Sanguineti e a Michel Butor, risiedevano proprio nelle parole iniziali di messa a fuoco verso cui il lettore doveva adeguare le proprie lenti:

«Questa storia», diceva «non è fantastica, è solo romanzesca. Ma poiché è inverosimile, dobbiamo forse concludere che non è vera?».

Come per dire, assecondando il motto “impossibile ma probabile”, che tra scienza e magia l’unica soluzione possibile è di miscelare, sia nella vita che nella letteratura, un po’ di questa e un po’ di quella, senza stare tanto a questionare. Anzi, dando all’inverosimile la dignità profonda e sincera che merita. Fino ad apparentarla, udite udite, con la categoria del vero.

È proprio quest’indole canzonatoria – nei confronti del cosiddetto buon senso, delle cose della vita di tutti i giorni, ragionevoli solo apparentemente e invece tanto incomprensibili –, a sostanziare Il gatto di casa è un agente d’altri mondi (Graphe.it Edizioni, 2024), che raccoglie di Giorgio Manganelli articoli usciti su varie testate tra il ’72 e il ‘90, riguardanti i temi del fantastico e della tecnica: dagli Ufo alle fate, dallo spazio all’astrologia, dall’aeroplano ai videogiochi, dagli automi al telefono – si, però quello “in tasca”, come lo chiama lui, ovvero il cellulare, per cui già in un vecchio pezzo sul “Messaggero” prefigurava di noi esseri umani strane perversioni in fatto di privacy e comportamenti individuali.

Dice bene Antonio Castronuovo nell’introduzione, citando un corsivo dello scrittore dal titolo Luogo di lavoro, che Manganelli il suo agire professionale non lo definiva mica solo come puro atto di scrivere, ma che quell’abilità esercitata dietro la scrivania rassomigliava piuttosto alla recita su di un palcoscenico disordinato, ingombro di letture, suggestioni, pile di volumi in continua e drammatica crescita. Pertanto, «nel mezzo di oggetti, drappi e cortine come non sentirsi adagiati in una situazione che stimola la fantasia?». Nel suo caso, esercitata entro i confini severi di un articolo di giornale – o di una recensione, “minimo mostriciattolo” del quale era maestro, come le varie Concupiscenze uscite di recente per Adelphi testimoniano –, arte sofisticata di sintesi e cesello che Manganelli, sulla terza pagina dei maggiori quotidiani, affina a tal punto da imprimergli la stessa compattezza della forma sonetto e, tuttavia, proprio nelle maglie strette di questi limiti, dalle quarantotto alle cinquantatré righe, renderlo un oggetto letterario quasi perfetto, ancorché «meditativo e melanconico».

Qui, a dire il vero, insieme alle strambe allusioni di mondi e pianeti altri, ai continui scenari apocalittici tanto reali quanto immaginati, a notizie di avvistamenti e fosforescenze ambigue nell’alto dei cieli – specie nella sezione dedicata agli alieni, quasi un’ossessione dell’autore nonché principale tema della raccolta –, più che rattristarsi si sorride della propria angoscia, per il tormento di pensare che un giorno noi razza umana ci si estingua o si venga invasi da qualcuno o qualcosa. E tra i saliscendi della prosa di Manganelli, così ritmica e confidenziale, una volta giunti al termine del pezzo di chiusura, L’elenco telefonico: l’ultimo libro sacro – ideale per dare l’addio definitivo al vecchio mondo, il Novecento, per poi rimpiangerlo, naturalmente –, ecco che vien quasi voglia di ricominciarne daccapo la lettura. Di tornare al principio, all’articolo che intitola il libro e, al contempo, spiana la strada ai successivi, indicando la direzione e l’orientamento generali, ovvero Attento! Il gatto di casa è un agente d’altri mondi, pubblicato il 4 febbraio del 1973 sul quotidiano “Il Giorno”, allora diretto da Gaetano Afeltra:

«Lo sappiamo: un giorno […] queste nostre città, queste mura verranno occupate da quegli altri, i Posteri: gente senza volto, che oggi non sono che profili di nulla».

Nel caso questi uomini e donne si interessassero a come «fosse la vita del nostro tempo, quali gli effetti, i sogni notturni, e gli incubi, donde a noi venissero sudori e febbri, con che animo passassimo da un uno ad altro Capodanno», a quale genere di libri guarderebbero con maggiore attenzione? Manganelli non ha dubbi: alla letteratura di fantascienza.

«Quei libercoli stampati su carta scadente, quelle storie fitte di mostri, di orrori, di impossibili trasformazioni, di smarrimenti nello spazio e nel tempo, di agguati vegetali e di veleni minerali, questi incubi trascritti da modesti scrivani sono quanto di più onestamente realistico abbia prodotto la nostra macchina da scrivere, sono i veri libri che “rispecchiano i tempi”».

Per quanto essa non la si possa considerare letteratura vera e propria, dice l’autore, è quantomeno la copia più fedele dei «nostri disturbi mentali». Frutto della schizofrenia del genere umano, se è vero che siamo noi i primi a godere di questa atmosfera da fine del mondo. Tema attualissimo, sindrome di cui oggi vantiamo un’ossessione oltre il patologico. Che Manganelli aveva segnalato in tempi non sospetti da consumatore famelico della celebre collana di fantascienza “Urania”. Dunque, la si prenda così la sua angoscia divertita: quale antidoto a sconfiggere una volta per tutte questo vizio compiaciuto di pensare che «distruggerci da soli» sia il solo modo di dare un senso al nostro vivere.

Alberto Scuderi

Gruppo MAGOG