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Alain Delon e Joseph Conrad, ovvero: storia di un Lord Jim casalingo
Cultura generale
Poco c’è da dire di Maria Banuș – che la vita di un poeta resti nella federa, fededegna al pudore e al frainteso.
Rumena, di origine ebraica, nacque a Bucarest col nome di Marioara nell’aprile del 1914. Segregata da congenita fragilità, fu cresciuta da insegnanti privati, in casa; da ragazza, si iscrisse a legge. La malattia, forse, addestrò a puledra precocia il verso – la lettura di Rilke e di Rimbaud, presto tradotti, le diede il resto, tutto.
Esordì nella prima pubertà con poesie, da subito, audaci per ferocia intuitiva e compostezza formale. Il primo libro, Țara fetelor (“Il paese delle ragazze”, 1937), ha lo stigma del genio, irripetibile. Per un po’, smise col verbo, Maria: legata al Partito Comunista rumeno, pacifista, si diede, nella pratica giornalistica, a far proseliti. La galvanizzò una energia nuova, energumena a tratti. Il governo di Antonescu mise al bando i suoi libri, poiché ebrea; d’altro lato, lei visse sempre in forma ambigua – per non dire polemica – la propria origine.
Tornò a pubblicare dopo la Seconda guerra, ottenendo premi. Scriveva che britannici e americani erano “maledetti cani d’alta stirpe”, “branchi affamati di nuove guerre”. Tradusse Neruda e Goethe, Shakespeare e Hikmet. L’ideologia non laminò a politico ventre il suo dire, rifiutò di votare alla ‘causa’ il proprio intimo talento: Maria Banuș è poetessa della lunare femminilità, dell’allucinazione e dell’allusione; ha la severa postura di un classico, il viavai verbale della mocciosa con la fionda a tracolla, che spacca le finestre, che scassina le case per rubare i giochi altrui. Ha il gusto – proprio dei poeti tormentati da torbido candore – di mescolare gli elementi, di imbestiare tutto, di valicare tra le forme, di svaligiare i miraggi: ginocchia e caprette, primavera e toro, corpo e mela. È considerata tra i grandi poeti rumeni del Novecento.
Morì nel 1999, disillusa dal mondo, dall’uomo, delusa di sé e di tutto. Come i grandi, rari poeti, scontentò tutti – fu un punto di divisione. “Frustrazione, inganno, autoillusione. Cosa resta di me? Una manciata di poesie. Docili, esagerate, magniloquenti…”, scrive nei suoi diari.
In Italia, Maria Banuș trovò un eccellente lettore in Andrea Zanzotto: con l’aiuto di Dragos Vrînceanu, il poeta tradusse una manciata di sue poesie per Vanni Scheiwiller; il libretto, Nuovi spazi, uscì nel 1964, in cinquecento copie numerate, con il marchio All’insegna del pesce d’oro.
Alain Bosquet paragonò la poesia della Banuș a quella di Else Lasker-Schüler, di Gabriela Mistral, di Anna Achmatova: “Maria Banuș è della stessa razza, appartiene a quella altitudine. Incarna, meglio di chiunque altro, la tremante verità e la gloria di un tempo in cui nulla è stabile. Glorifica il poco che siamo, ci rende superiori, con rarissima naturalezza”. In un’antologia tradotta in Francia nel 1987, Horologe a Jaquemart (Editions Saint-Germain-des-Prés/Unesco), Bosquet spiega così il genio della Banuș:
“Viviamo in un’epoca in cui la poesia deve ricreare la Creazione. Ce lo conferma, Maria Banuș, senza ricorrere a trame esoteriche: la poesia che conta, oggi, è quella che lascia spazio all’irriducibile. La generosità dell’amore va all’infante, all’amato, alla tribù. Si tratta di solidarizzare, di stendere un sodalizio con i solitari… Non sappiamo perché scriviamo, ma finiamo per capire per chi scriviamo. Attraverso una strana disciplina interiore, non accettiamo completamente la responsabilità di noi stessi assumendoci pienamente la responsabilità dei capricci e dei desideri dell’altro”.
Ci restano, queste poesie che scalpitano, che brucano il nostro corpo d’erba. Nudità vuol dire anche questo: spina dopo spina, tra rimasugli di rovi, farsi consumare. Nessuno spiraglio, nessun avanzo davanzale per il ladrocinio né per la profezia.
***
Nuovi spazi
Sono al bilanciere dei mondi, sono,
con quel mio vecchio sangue,
col sangue mio troppo lento;
un enigmatico astrale alfabeto
mi fulmina breve negli orecchi.
Sono al bilanciere dei mondi, sono.
Sono al formarsi dei mondi, sono,
e vago, presentendo appena
le albe di colui che viene.
Le cerco e non sto più in me stessa.
Le mani negli spazi tendo.
Sono al formarsi dei mondi, sono.
Sono al bilanciere dei mondi, sono.
Viene altro ritmo dell’esistere,
viene una profonda osmosi;
in altro modo sentiranno una rosa,
in altro modo la luce del bosco.
Sono al bilanciere dei mondi, sono.
Sono al formarsi dei mondi, sono.
Vedo villaggi lacustri, su palafitte…
E vedo: ho fenduto l’abisso!
Trovami, anima, il non-scritto,
la nuova armonia tra le stelle.
Sono al formarsi dei mondi, sono.
Traduzione di Andrea Zanzotto e Dragos Vrînceanu
***
Un pensiero
Un caldo pensiero mi crolla addosso.
Viso e bocca si fanno luce.
Ne accarezzo la carne indecisa, piena di piume
come un velo da sposa.
Un caldo pensiero mi balza sulle ginocchia
dorso di pesce, violetto, nudo.
Palpo il suo corpo crudo come la bruma
la mattina è sullo stagno.
Restò con me a lungo, silenzioso
presso il miraggio, come l’anca ribelle della cerva
che salta, spaurita, umida dopo la corsa.
Un miraggio, nient’altro che un pensiero da ragazza.
*
Canzone per cullare le ginocchia
Non mettetevi a urlare, ginocchia.
Sentiero fertile di felci, a notte, sentiero di piogge
come potete piegarvi, ginocchia di ferro?
Ti porto a loro come a due pecore.
Sul sentiero della nebbia ti spingo.
Forse ti accoglieranno tra loro,
ginocchia serrate, che sussultano, che pesano
come notti d’acquazzone.
Si spengono le lucciole piedini.
Non mettetevi a urlare, mie ginocchia.
*
Primavera a frammenti
Una strada: la attraverso con le spalle basse
e la primavera è pesante come il ventre di un toro.
Le stelle e le pietre sulla strada
sono così fitte che posso contarle.
Soltanto il mio canto mi strappa il vestito di dosso
e la primavera pesa come il ventre di un toro.
Balbetto. Sto zitta. È inutile attendere dietro i cancelli
che il lilla s’illividisca in blu.
Sotto le ginocchia la carne è umida come una mela sbucciata
torbido è il bianco negli occhi.
Penso, vago, a spalle coperte
e la primavera è triste, nuda, come il collo di una ragazza.
*
L’ora della regalia
Dall’acqua della luna, dalla nebbia sullo specchio
un corpo di porcellana è sorto.
Un vaso pallido, pesante. Per i lamponi del pesante sangue.
Come sopportare la sua tristezza, mio beneamato?
Non tardare. Mettimi le caviglie sulla fronte.
Non ho detto domani. Soltanto oggi le pareti
della mia stanza sono tenere e dolci e nude come la mollica.
Guarda, rilucono ancora, bianche, morbide, a notte.
Prendile. Te le consegnerò. Queste sono le ginocchia.
Le vedi, tremano, colme come due tazze di latte.
*
Dev’essere detto
che le stanze furono in fiore e non le vedemmo
che era fragile e netta la strada
come la scriminatura tra i cari capelli
e il capretto sgambava divertito
e tutto infine finì.
Quando, enorme, come un orso
la vita è discesa nei suoi neri ripari
dev’essere detto, come l’ho abbracciata
e stretta – e stretta. Dev’essere detto come il guscio
si è rotto e la notte si è estinta. Come l’anima della luna,
il segreto del suo tuorlo, con estrema tristezza è morto.
Dev’essere detto.
*
Nell’arena
Gioco con le parole, perfeziono le rime
per incantare gli spiriti del male, le visioni
quelle figure della minaccia che ritornano dal limbo,
smorfie, assurdi alfabeti, vagabondi…
Un dio si decompone. Aria aperta.
Ho le vertigini. Ho la nausea.
Fremiti. Gioco. Lo stesso ruolo.
Il circo è vuoto. Era nucleare.
Bisogna entrare nell’arena? Tuffarsi
negli interstizi dei nomi privati?
Persisto. Gioco. Come se esistesse un mondo
per gli dèi belli all’eccesso, per le superbe onde.
Maria Banuș