20 Luglio 2024

Quando Hemingway faceva a cazzotti con Pound. Il romanzo epico degli Anni Ruggenti

Dopo la sbornia europea, rientrato negli Stati Uniti, Matthew Josephson, intellettuale flâneur con vaghe ambizioni liricheggianti, mise la testa in asse e scrisse il suo libro più noto. The Robber Barons uscì nel 1934 per Harcourt, Brace and Company, New York; l’autore vi narra l’epopea dei “Grandi capitalisti americani”, i sovrani dell’imperialismo industriale, i “baroni ladroni”. L’avidità, in quel libro, ha il vigore di una delle virtù cardinali, la scaltrezza è pari al coraggio, il denaro assurge a Gerusalemme celeste. Qualche anno prima, Josephson passeggiava per Capri, “un posto tranquillo abitato da una colonia di stranieri eccentrici, inglesi, scandinavi e russi, e dai simpatici indigeni pagani”; chiacchierava con Norman Douglas – l’amico di D.H. Lawrence, l’autore di Vento del sud – e Maksim Gor’kij, incrociava, in spiaggia, “i mistici russi, discepoli di Gurdjieff”, vivendo “in un incanto interminabile, obliosi del mondo”. Il passaggio dalla poetica della dissipazione all’ircocervo capitalista fu repentino: Josephson diventò l’omerico cantore di J.P. Morgan e di John D. Rockefeller, di Andrew Carnegie e di Cornelius Vanderbilt. Il suo libro, fondamentale per capire cosa sono gli States – compresa l’ossessione per i “Real-Time Billionaires” – fu tradotto nel 1947 da Longanesi con un titolo formidabile, I baroni ladri; vent’anni fa lo ha ripreso l’editore Orme come Capitalisti rapaci.

Curioso personaggio, Matthew Josephson. Intanto, non si chiamava così. Nato a Brooklyn nell’inverno del 1899, Matthew di cognome faceva Kasindorf. I genitori erano ebrei di origine rumena e russa. Il papà voltò il cognome per farsi strada nella terra dei sogni: tipografo, compì l’ascesa sociale in banca, mandando il figlio alla Columbia University. In sostanza, Matthew Josephson è stato uno dei critici letterari più influenti del suo tempo: firmava sul “New Yorker” e su “The New Republic”, ha pubblicato le biografie di Zola, di Rousseau, di Victor Hugo e di Edison. Da vecchio – morirà a Santa Cruz, California, nel marzo del 1978 –, tornò, come tutti, agli anni della giovinezza. I suoi – a differenza di tutti gli altri – furono effervescenti.

“Ci piaceva posarci a cinici e perfino a decadenti… fingevamo di interessarci specialmente dell’anormale, del morboso, del nevrotico; perfino io scimmiottavo l’atteggiamento d’estrema stanchezza della vita”.

Così attacca, poco dopo le prime pagine, Life Among Surrealists. Pubblicato nel 1962, tradotto da Matilde Boffito Serra nel 1965 per il Saggiatore, ritorna oggi – stessa traduzione, diverso titolo: Surrealisti ed espatriati – nella collana “Introvabili” di minimum fax. È il libro più bello di Josephson: scanzonato, arguto, all’agguato. Il mito della “Parigi letteraria degli anni Venti” – così il sottotitolo – ruota attorno a due titani: Ernest Hemingway ed Ezra Pound, “l’unico vero esiliato”. A pagina 118 dell’edizione minimum fax, i due stanno per fare a botte: Hemingway “sentì tutta l’irritazione che quell’egocentrico signore ispirava sovente”. L’esito dello scontro è noto: Hemingway accetta di dare lezioni di pugilato a Pound, che ricambia insegnandogli come scrivere racconti impeccabili.

Ecco: Surrealisti ed espatriati è per lo più un album di ritratti; è il grande ‘fumettone’ dei roaring twenties. Vi appaiono, sempiterni astri, Louis Aragon (“aveva una bella testa di latino antico, il naso romano; parlando, quando era ispirato, e per dare forza ai propri giudizi, faceva un caratteristico gesto di sfida gettando indietro la testa e alzando il mento in aria”), André Breton (“giovane e complesso individuo” dall’“aria orgogliosa e solenne” e gli “occhi azzurri” che “balenavano di collera”), Antonin Artaud (“un giovane smilzo dagli occhi scintillanti, che parlava delle cose più assurde con una vivacità e uno splendore di linguaggio inconcepibili in un malato di mente”). La capacità di osservazione di Josephson è ‘lombrosiana’: in un volto è celato il segreto dell’opera, un gesto o un dettaglio riassumono il fragore di uno stile, una visione del mondo.

In un cammeo abbacinante, vediamo Mina Loy, “nel più studiato stile di duchessa”, che narra le imprese del marito, “il leggendario Arthur Cravan”, “un angloirlandese che asseriva di essere il nipote di Oscar Wilde”, aveva scritto versi “futuristi” e per guadagnarsi da vivere faceva il pugile. Una volta, “trovandosi in condizioni disperate, aveva osato accettare a Parigi un incontro con l’americano Jack Johnson, il quale naturalmente l’aveva messo fuori combattimento in pochi secondi, tanto più che Cravan si era presentato ubriaco fradicio”. Era morto “in un qualche punto del Golfo del Messico (o almeno così si presumeva)”; la sua storia – che assume in sé gli splendori e le miserie di quegli anni – è stata raccontata da Edgardo Franzosini, con stuolo di documenti, in Grande trampoliere smarrito (Adelphi, 2018). Chi ha confidenza con la filmografia di Woody Allen, riconoscerà in Surrealisti ed espatriati la vera fonte – anche per il gergo: ironico e catartico – di Midnight in Paris (2011).

Per fortuna, il libro non è appesantito da sofismi critici: la giovinezza, d’altronde, è aliena dal giudizio. L’idea di fondo è che la ‘maestria’, il carisma, la personalità erano indubbiamente evidenti, allora, a dispetto del pantano odierno, in cui nascono ‘capolavori’ in catena di montaggio e tutti si sentono potenziali Nobel.

Tra i profili allineati da Josephson – scrittore-miniaturista che con pochi tratti riesce a conferire la vita a ricordi altrimenti inerti – ne spiccano un paio, meno noti ai più. Quello di Allen Tate, “yankee fra gli yankee… caduto sotto l’influenza di T.S. Eliot”, e quello di Hart Crane, il più solitario, il più triste, il più talentuoso tra i poeti conosciuti da Josephson, “affamato di comprensione e di simpatia… aveva un aspetto tanto robusto che solevamo chiamarlo il torello”. Allen Tate sarebbe diventato, anni dopo, poeta “laureato” statunitense, ottenendo i massimi riconoscimenti letterari assegnati dal suo paese; Hart Crane, autore di un poemetto memorabile, The Bridge (1930), sceglierà la via oscura, gettandosi, nel 1932, tra i flutti del Golfo del Messico. Entrambi attendono degno riconoscimento in Italia: la traduzione de Il ponte di Crane ad opera di Roberto Sanesi (Guanda, 1967 poi Garzanti, 1984) è introvabile; come il libro capitale di Allen Tate, Ode ai caduti confederati, tradotto da Alfredo Rizzardi per Mondadori nel 1970, un millennio fa.

Il libro di Josephson termina con un incendio, specie di deus ex machina che ne risolve il senso. La casa americana dell’istrionico intellettuale va a fuoco,

“ero un animale accerchiato, un uccello appollaiato sul davanzale di una casa in fiamme: una povera cosa impotente, vicina a morire”.

Quel fuoco, pur autentico, ha il genio del simbolo: una barriera fiammeggiante separa ormai l’autore dal regno della giovinezza; la poesia è un falò che incenerisce tutto il resto, recluta alla latitanza.

L’ultimo libro, lo dedicò ad Alfred “Al” Smith, “Hero of the Cities”: governatore dello Stato di New York, democratico, fu il primo candidato alle presidenziali di fede cattolica (battuto da Herbert Hoover).

Matthew Josephson non rinnegò mai nulla di ciò che era stato – divenne, semplicemente, tutt’altro.

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