Torna in libreria Roberto Pazzi, tra i più stimati poeti e romanzieri  contemporanei, con Hotel Padreterno (La nave di Teseo), un romanzo acuto e visionario, ricco di ironia e spiritualità, in cui Dio Padre, annoiato dall’eternità, si fa uomo e scende in terra, naturalmente nella città eterna, Roma. Guarisce un bambino malato, conosce il dolore fisico e lo struggimento dell’amore, collabora con la giustizia, bisticcia con il Figlio, prende accordi con la Morte. Ma soprattutto, ci parla della gioia e della tragedia di questa nostra dimensione terrena, in una realtà sociale sempre più complessa. Ne abbiamo dialogato con l’autore.

Dio Padre si fa uomo nei panni di un signore settantottenne di nome Giovanni Eterno, in cappotto cammello, pashmina, borsalino nero, guanti gialli, scarpe a coda di rondine. Sceglie per incarnarsi un corpo anziano e ne sperimenta presto i disagi, eppure avrebbe potuto optare per un fisico giovane, è Dio e può tutto! Perché proprio un anziano? E a suo parere come è considerata oggi la vecchiaia?

Credo di aver sentito la necessità di scrivere di un anziano Dio per una ragione eminentemente autobiografica. Mi sono ritrovato vecchio io stesso, compiuti i settant’anni. Ho iniziato il romanzo a settantadue anni e l’ho concluso oltre i settantacinque, aggiungendo una parte dopo l’esperienza di una grave malattia, che mi ha colto nel settembre del 2020 e da cui sono guarito. Quindi mi è costato tre anni e mezzo di lavoro. È il Tempo che fa le opere, se non ci fosse stato quell’accadimento doloroso, il romanzo non sarebbe quello che oggi si legge. L’esperienza della malattia si è rivelata preziosa per rafforzare la curiosità del mio Dio di provare la condizione umana, della quale sono aspetti fondamentali la malattia, la vecchiaia e la morte. Si tratta comunque una condizione che gli uomini tendono a rimuovere, soprattutto nelle società industriali avanzate, tutte all’insegna del culto della bellezza e della giovinezza. Era in quella arcaiche contadine, che la vecchiaia veniva invece considerata e onorata. Nella Repubblica di Platone il potere politico era nelle mani degli anziani, quello delle armi nelle mani dei giovani.

Cita più volte un romanzo, Il destino di Dio, di Nino De Vitis, noto teologo. L’onnisciente Google non lo conosce, quindi si suppone sia uno pseudobiblium in stile borgesiano. Cosa rappresenta questo libro all’interno di Hotel Padreterno?

Quel libro allude alle opere di Vito Mancuso, di cui ho letto qualcosa e che mi ha sempre colpito per una certa affinità. Forse è semplicemente un doppio, una specie di specchio in cui voglio e non voglio guardarmi, allarmato come sono dal fenomeno commerciale di vendite che costituiscono i suoi libri. Il che mi fa dubitare a volte sulla autenticità della sua speculazione teologica.

“Tutto quel che in queste  pagine strilla la sua necessità finirà in niente”, pensa Eterno mentre legge un quotidiano. Eppure oggi abbiamo diversi esempi di romanzi ispirati a fatti di cronaca, uno per tutti, La città dei vivi di Lagioia. Cosa pensa del rapporto tra letteratura e attualità?

È proprio questo legame con i fatti di cronaca, questo correre dei romanzieri ad appoggiarsi alla stampella dell’attualità, dei libri, come dice lei, alla Nicola Lagioia, che a mio avviso decreta la decadenza della letteratura, incapace di reinventare e dilatare la realtà, ma solo di ripararsi sotto l’ombrello dell’attualità, in gara con le prime pagine dei giornali, forse per paura di perdere i lettori.

Pur non essendo strettamente legato a fatti di cronaca, Hotel Padreterno è un romanzo molto attuale. Tratta infatti a più riprese il tema della denatalità, delle culle vuote, in Europa e soprattutto in Italia. Sia Papa Francesco che Mattarella hanno di recente invitato gli italiani a fare più figli. Eppure, rendere la genitorialità una scelta e non un imperativo divino è anche frutto di importanti battaglie civili per la laicità. Qualcuno che avesse liberamente scelto di non avere figli potrebbe sentirsi ferito da come Eterno lo giudica egoista e depresso, tenendo poco conto di impedimenti sociali quali povertà e precarietà, o il desiderio legittimo, soprattutto femminile, di realizzare prima le proprie aspirazioni personali. Come conciliare quindi il “crescete e moltiplicatevi biblico” e il libero arbitrio?

Il problema è l’equilibrio fra i giusti diritti dell’individuo, che deve maturare condizioni per sviluppare al massimo la propria potenzialità, soprattutto la donna, che la De Beauvoir chiamava “il secondo sesso”, e una prospettiva non narcisistica, ma proiettata sull’amore per la Vita in senso lato. Fra egotismo sano, che realizzi l’Io per arricchire la società e non esserne parassita, e un culto dell’Ego sterile, attratto da un inconsapevole “cupio dissolvi” davanti alla sterile corsa a soddisfare bisogni che non saziano mai a cui in Occidente sembra ridursi la vita. Come acutamente aveva previsto, ai primi del Novecento, Carlo Michelstaedter, per molti una specie di Nietzsche italiano. Credo che la recente denuncia dell’”inverno delle nascite” fatta da Papa Francesco si riferisca a questa ultima dimensione. E per uno strano caso, proprio in questi giorni ho potuto inviare a Papa Francesco una copia di Hotel Padreterno con dedica, perché sollecitato da monsignor Vincenzo Paglia, convinto lettore del libro.

In effetti, quando una posizione minoritaria e un tempo controcorrente, come il non riprodursi, diventa maggioritaria, è giusto porsi delle domande, e in questo senso Hotel Padreterno si inserisce nel discorso sul declino dell’occidente iniziato da Spengler e portato avanti tra gli altri da Houellebecq. Il suo romanzo è in realtà più politicamente scorretto di quel che sembra, specie quando parla di sostituzione da parte di  nuovi popoli, più giovani e prolifici. I globalisti più convinti vedono in questo un processo naturale e non necessariamente negativo. A suo parere che cosa va assolutamente salvato della vecchia Europa?

Che cosa andrebbe salvato della vecchia Europa? La sua civiltà, la scoperta del pensiero filosofico della Grecia antica, dell’epica omerica, della tragedia, della commedia, della lirica. Siamo nani sulle spalle di giganti, in Occidente siamo quelli che siamo perché posati sulle loro spalle, come nel 1169 diceva John Salisbury, allievo di Bernardo da Chartres. Alessandro Magno ha portato quella civiltà al mondo mediterraneo e oltre. Roma, catturata dal demone della politica ha solo partorito il diritto, atto ad amministrare un Impero durato mille anni. E poi c’è la splendida civiltà rinascimentale con l’Ariosto, Machiavelli, Tasso, Raffaello, Michelangelo, Tiziano, Caravaggio… Un senso del bello che prende il posto dell’esorbitanza del senso del bene, irrancidito nella rinuncia medievale al piacere dei sensi, alla bellezza della carne. E poi la rivoluzione dell’Illuminismo che spazza l’ignoranza e la superstizione religiosa generando la Rivoluzione Francese. Come si può pensare di vivere tradendo le nostre radici abbracciando il vitalismo barbarico di stadi precedenti della nostra evoluzione? Fa parte del dna dell’umanità, non posso pensare a un Europa che regredisca all’integralismo talebano, come certi romanzi di Houellebecq sembrerebbero auspicare. Costantino Kavafis aveva in ben altro modo alluso a questa consapevolezza della temuta fine di una civiltà con la sua poesia Aspettando i barbari, che in verità era un contraffatto inno d’amore per la grecità ferita a morte.

Mentre Eterno inizia a sperimentare il bene e il male della condizione umana, il Figlio lo osserva e lo rimprovera amorevolmente, cercando di convincerlo a tornare indietro, preoccupato che si abitui troppo alla sua nuova vita. D’altra parte, il Padre gli invidia l’essersi fatto uomo, l’aver conosciuto a fondo l’umanità e persino la morte. É interessante il loro rapporto, quasi non fossero solo due componenti della trinità ma una normale coppia padre/figlio alle prese con lo scambio generazionale. Arriva un’età in cui ogni figlio si ritrova a fare da genitore al proprio genitore, e così accade anche a Gesù Cristo, che dall’alto osserva Eterno e interviene quando teme che si metta nei guai. Cosa c’è di divino nel rapporto tra genitori e figli?

Nel rapporto fra genitori e figli c’è di divino la perfezione della circolarità della vita. Che ci rende prima figli e poi padri dei nostri genitori. Oggi, quando sono stato da mia madre, che ha quasi 98 anni e non esce più di casa, per paura di cadere, vedendola seduta nella poltrona in cui passa ore, in cucina, le ho accarezzato i capelli e li ho pettinati. Mi aveva chiesto come la trovavo e ho risposto come sempre che la trovavo bene. Ogni volta il suo sguardo cerca il mio per trarne energia vitale, per proiettarsi nel futuro come madre di un figlio ancora… Le due facce che si guardano, io la sua freccia lanciata settantacinque anni fa nel futuro, che ancora vola. Lei, l’origine della mia vita, che ancora mi guarda, ancora controlla come sono vestito, che espressione abbia, se sia stanco, mi domanda degli amici, del Covid. Siamo due facce della stessa erma, quando siamo insieme, la Vita che persiste, che non vuole morire. Il rapporto fra genitori e figli è un costante sì all’avventura di vivere.  Per questa mia mancata genitorialità della carne credo di sentire tanto la mia dimensione di figlio. Ma è stata anche ispiratrice di un romanzo sulla denatalità.

Il primo essere  umano a cui Eterno si rivela è Davide, un “cherubino cui mancano solo le ali”, un bambino dai capelli rossi, guarendolo da un adenocarcinoma maligno che non gli avrebbe lasciato scampo. “Mi torna in mente la più terribile accusa fra quelle che mi sono tante volte sentito rivolgere, la morte dei bambini”, pensa Dio. Impossibile non andare subito con la mente a L’idiota di Dostoevskij: “Ma solo a una domanda, che lo investiva a ondate regolari con affanno, il principe Myškin non sapeva rispondere: perché, Signore, i bambini muoiono?”. Eppure, non c’è risposta, e anche Eterno salva Davide ma non può salvare tutti. Quindi il male è necessario?

Il male è un tema di profonda riflessione di Giovanni Eterno nell’ultima parte del mio romanzo, quando comincia a collaborare più fattivamente con il commissario di polizia Impagnatiello. Quando questo vecchio si rende conto di persona, camminando sulla terra, assaggiando la temporalità, fatta di consumazione delle forze della giovinezza, di perdita della bellezza, di malattia e di attesa della morte, di qualche cosa di sbagliato nella ricetta del mondo da lui creato. Ma non tanto per queste imperfezioni, che sono conseguenza della ribellione ai comandamenti divini narrati dalla Bibbia (mai rinnegati nella costruzione del romanzo, manipolandoli però a modo mio) da parte dei progenitori, quanto per l’attrazione per il male che è insita nell’essere umano. Traffico di organi di bambini, di armi, di droga, prostituzione, la mafia che, come una piovra, abbraccia il mondo moderno, tutto sembra ruotare molto spesso su questi orrendi mezzi di guadagno. Il denaro appare comunque la molla del mondo. Non c’è scampo al di fuori del capitalismo. Il comunismo sovietico crollando si è portato via anche l’ultima illusione di un cambiamento possibile. Le nazioni ricche possono guarire dal Covid perché possono permettersi il vaccino. Quelle povere no. A mio avviso il berlusconismo ha qualcosa di questo male, perché l’etica di questo personaggio politico italiano ruota sulla mercificazione di ogni cosa. Come se ogni uomo avesse un prezzo. Per questo temo che Berlusconi sia convinto davvero di poter diventare presidente della Repubblica, perché sa che gli elettori come tutti gli uomini sono corruttibili.  La potenza del denaro asservisce l’umanità e fa sembrare il denaro il Signore di questo mondo, quel che i cristiani chiamavano e chiamano ancora il Maligno.

Quando Eterno visita gli Uffizi, al suo sguardo i personaggi rappresentati nei quadri, e persino un drago, riprendono vita nella carne. La chiama “doppia vista”, una sorta di resurrezione. Divinità e immortalità dell’arte si assomigliano. Da dove proviene l’idea di scrivere un romanzo in prima persona nei panni del Padreterno? Anche uno scrittore è Dio, nel momento in cui crea dei personaggi e una storia?

Sì, certamente, anche uno scrittore è Dio, ma forse sarebbe meglio dire che Dio è anche uno scrittore… Posto che Dio esista davvero, certezza che personalmente non ho ancora acquisito. Per lo meno non quanto Gustav Jung che alla domanda se credesse, posta da un giornalista inglese della BBC, rispose fieramente “I don’t believe, I know! Io non credo, io so!” Perché un’avventura narrativa come la mia non è tanto aperta dalla solidità della fede, quanto dal piacere di abbandonarsi alle soluzioni inventive che offre l’ipotesi di un simile personaggio narrativo, che può tutto, che non ha limiti se non uno, da me colto nel personaggio di Giovanni Eterno: non può provare la morte. Credo che ci si possa molto più lasciare andare a narrare gustose ipotesi estreme con un simile personaggio che non con un soggetto di quelli tratti dall’attualità dei rotocalchi. Se poi si sconfini così presto nella favola, non ho alcun problema ad accettare il rischio. Anche gli adulti hanno bisogno di favole. Il fatto è che con la fantasia molti scrittori italiani hanno un brutto rapporto, la considerano destituita di credibilità, se non la guardano addirittura con diffidenza. Rispunta il vecchio pregiudizio cattolico del Manzoni col suo culto del “santo vero” che castrava l’invenzione fantastica. In questo erano alleate due scuole di pensiero il Italia, la Chiesa e il Partito comunista, entrambi inclini a considerare il realismo come la via più seria della scrittura. Su questa strana parentela Moravia scrisse un bel saggio, Manzoni e il realismo cattolico, che quando insegnavo spiegavo sempre ai miei studenti per capire meglio I promessi sposi.

A un certo punto Eterno scambia un lungo sguardo con il Papa. Un papa anziano e stanco, intrappolato nelle costruzioni gerarchiche della Chiesa, eppure in grado di riconoscere Dio. Non c’è il nome, ma è facile riconoscervi Bergoglio. Papa Francesco amato da molti, ma anche criticato dai più tradizionalisti per la sua visione progressista, aperta alle altre religioni e alla scienza. Lei si sente in sintonia con l’attuale pontefice?

E come non sentirsi in sintonia con papa Bergoglio? É dei papi che ho conosciuto nella mia vita, Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, il migliore, quello che per me rappresenta al meglio il cristianesimo come difesa dei deboli e degli oppressi. Il più vicino alle origini, il più lontano dal cattolicesimo controriformistico in cui la Chiesa si è incartata dal 1563, in reazione alla Riforma protestante. Sono felice che monsignor Paglia gli abbia fatto avere il mio romanzo.

Hotel Padreterno è un romanzo ricco di fini annotazioni umoristiche, ma rimane lontano da quello che ci si poteva aspettare dal titolo e dal tema, cioè una satira feroce contro la religione. Si rivela anzi un libro molto ricco di spiritualità e religiosità, cristiana e pagana. Sempre Houellebecq affermò “Non credo alla possibilità di una società senza religione”. La pensa allo stesso modo? E come recuperare la spiritualità senza ricadere nel dogmatismo?

Non era mio intento una satira anticlericale, volevo solo dipingere un Dio a mio uso e consumo, tratteggiare il Dio che mi piacerebbe. Ho tentato di narrare però il Padre non il Figlio, del quale è stato scritto tanto. Forse anche per correggere l’immagine del Padre biblico di cui nella letteratura c’è poca traccia, perché esercita un potere d’intimidazione, influenzata com’è dalla figura di Jahvè nella Bibbia, così severo, a volte incomprensibile, come nelle pagine su Sodoma e Gomorra, dove la moglie e le figlie di Lot sono trattate così duramente da non essere nemmeno considerate degne di un nome, anche se dal loro congiungimento col padre nascono i Moabbiti e gli Ammoniti. Ma vibra nella figura di Giovanni Eterno anche l’ombra di Zeus, di cui è eco la statua che riproduce lo Zeus di Fidia nel laboratorio del giostraio Giuseppe Malvasia, il papà di Davide.

Eterno vive anche un innamoramento per Anna, la madre di Davide. Una donna vera, né Madonna né Maddalena. Conosce l’ansia dell’attesa, il tormento di desiderare una felicità impossibile. Anche il Figlio, si lascia intendere, provò le stesse cose.  In più, Eterno assiste con curiosità e indulgenza alle numerose passioni più o meno legittime o sconvenienti tra i personaggi che transitano per il suo stesso hotel. Crede che la visione della Chiesa sull’amore terreno e carnale sia cambiata nel tempo?

Non mi sembra sia molto cambiata, la Chiesa ha un pensiero sessuofobico. Vede nel sesso una degradazione, una concessione alla parte più bassa dell’umano. Per questo non ho mai avuto simpatia per Benedetto XVI, che sosteneva questa vecchia visione dell’amore terreno e carnale e influenzava Papa Giovanni Paolo II, così arretrato nella concezione dell’etica famigliare, che escludeva la famiglia di fatto e le unioni civili. E per questo ho amato Papa Bergoglio, fin da quando pronunciò quella famosa frase impossibile da immaginare sulle labbra di un Papa prima di lui: “Chi sono io per condannare un omosessuale?”.

Bellissimo e struggente è il dialogo con la morte, che sfinita dal suo ruolo ingrato implora Dio di sollevarla dall’incarico. Lui le promette di lasciarla riposare, ma è certo che gli uomini le rimpiangeranno subito. “Se qualcosa amano, uomini e donne, è perché muore”, afferma Eterno, e si sentono forti gli echi de Le intermittenze della morte di Saramago. Eppure sembra che oggi vogliamo rimuovere sempre più il pensiero della morte. Anche in seguito alla pandemia, al di là delle legittime misure prese, sembra ora che si rincorra un “rischio zero” utopico, in cui si vive da malati per morire sani. Che rapporto abbiamo oggi con la morte?

Il rapporto di sempre. Di paura e rimozione, Non la vogliamo tra i piedi, povera morte… La odiamo, ci apre la porta del Nulla o del Tutto, non sappiamo. Ci tormenta questo dubbio, nella certezza che dovremo affrontarla da soli come soli siamo nati, nessuno potrà venirci in soccorso quel momento per morire insieme a noi, per non lasciarci soli. C’è una tragedia bellissima di Euripide che mi ha sempre commosso e ha ispirato anche una delle poesie più belle di Rilke, Alcesti. Narra l’amore di una donna, Alcesti, che si offre alla morte  al posto del marito Admeto, che ha avuto la grazia di poter essere sostituito da chi si metta al suo posto, ma sulle prime non trova nessuno che si offra, né amici, né padre, né madre … solo la moglie si fa avanti e si sacrifica per amore. Il mio romanzo tenta almeno di liberare dalla paura della morte. E c’era un solo modo per ottenerlo. Immaginare la noia dell’immortalità. La stessa che aveva convinto Ulisse a non accettare quel dono divino. Solo provandola per un poco l’umanità del mio romanzo tornerà a capire che la morte è un bene, perché dà un senso alla vita. E così torneranno ad accettare solo l’immortalità dell’anima.

A un certo punto cita La montagna incantata. “Ricordavo la morte prematura del cugino di Hans Castorp, Joachim, al sanatotio di Davos. Di quel bel personaggio di Thomas Mann non potrei cambiare il destino, come ho fatto con Davide”. La letteratura è più potente persino di Dio?

Ho lanciato una sfida al divino. Certamente l’arte è l’attività più vicina a Dio che conosca, perché vince la morte e salva nella sua forma eterna la vita, con le sue forme passeggere, effimere, incerte, ma quanto care e amate proprio perché tali sono. “Se qualcosa amano, uomini e donne, è perché muore”. Oggi aggiungerei “perché devono lasciarla”.

“Forse non è la paternità, è la maternità che mi cattura” dice a un certo punto Eterno ad Anna, osservando la nascita di una cucciolata di cani, e il pensiero va subito alla celebre affermazione di Papa Luciani, “Dio è papà, più ancora è madre”. Oggi che i ruoli maschili e femminili sono sempre più sovrapponibili, quali sono a suo parere le differenze tra paternità e maternità? E cosa intende quando parla di “vastità” della maternità?

Intendo che la perfezione dell’umano è nella duplicità dei sessi, un poco come la intendeva Platone nel Simposio. La bisessualità, l’essere maschio e femmina, è forse la forma più completa di umanità che conosca. Direi quasi, anzi lo dico nel mio romanzo, divina. Sono contrario a una sessualità intesa come puro strumento di riproduzione, tipica delle tre religioni monoteiste. Su questo punto sono pagano, legato a una concezione dell’eros che consente l’atto amoroso come espressione totale di sé, sia col sesso opposto che con quello proprio

“Mio figlio è renitente ad accogliere la mia doppia natura maschile e femminile”, dice Eterno. Anche questo è un tema molto attuale, il superamento della binarietà di genere, la compresenza del maschile e del femminile in ogni essere umano. Però un’assenza, forse voluta forse no, si nota in questo libro: quella del tema della genitorialità omosessuale. Oggi che molti autori si sentono costretti ad inserire questi temi nei propri romanzi in funzione politicamente corretta, può essere anche una dimostrazione di libertà evitarlo. Nasce però una curiosità: cosa pensa il suo Eterno delle famiglie omosessuali?

Il mio Eterno pensa che siano famiglie di piena dignità come le altre. Ho trattato l’omosessualità in altri romanzi, come “La trasparenza del buio”, uscito da Bompiani nel 2014, ma anche Conclave, pubblicato da Frassinelli nel 2001 e oggi da Bompiani. In Hotel Padreterno non ho voluto unirmi di fatto alla moda di molti narratori che ne parlano oggi, sia italiani che stranieri.

Hotel Padreterno contiene una curiosa dedica, che viene poi ripresa nella conclusione. A te, che leggi, la Persona che a queste pagine mancava. Ci si può ravvisare il componente mancante della trinità, lo Spirito Santo. Oppure il lettore. O forse, in questo caso, sono la stessa cosa?

Sono la stessa cosa, il lettore diventa lo Spirito Santo che lo illumina, durante la lettura. Una soluzione che avevo scoperta ammirando anni fa l’affresco sulla Trinità di Masaccio, che si trova nella navata sinistra della chiesa fiorentina di Santa Maria Novella. Si vede il vecchio Padre con la barba, che abbraccia la croce alla quale è inchiodato il Figlio. Ma dov’è lo Spirito Santo, dove lo ha collocato Masaccio, mi domandavo? Lì per lì non lo capivo, poi è arrivata l’illuminazione: lo Spirito Santo era nei miei occhi che guardavano l’affresco. Ecco trovata anche nel mio romanzo la sua presenza, nel lettore. La dedica completa il romanzo evocando l’intelligenza, la sofia, il nous, come si diceva in greco, la potenza cioè dello Spirito Santo che illumina la mente. Questo lo dico da scrittore, non da teologo, perché di Dio possono parlare non solo i preti ma anche i poeti.

Viviana Viviani

Gruppo MAGOG