
“Trasferire il proprio cuore nel petto di un altro”. Natsume Soseki, lo scrittore necessario
Libri
Alessandro Burrone
Se fosse un film si chiamerebbe La Grande Omertà. E come il fratello maggiore, da cui trae titolo e solitudine, sarebbe ambientato sulle terrazze arredate a noia, sugli attici mozzafiato e tra le ville lastricate di buone intenzioni in cui si è barricata l’industria editoriale italiana (la più confusa di tutte, con ogni probabilità anche la più mediocre). A pensarci bene, proprio La Grande Bellezza contiene una scena che riassume – certamente per difetto – il coma farmaceutico in cui versa da oltre vent’anni. Quando Romano (Carlo Verdone) tenta di convincere Jep Gambardella (Toni Servillo) a raccontare la sua vita in una biografia, non perché attraente progetto editoriale ma perché ne ha già venduto l’idea a un editore incassando l’anticipo. Se questo fosse un Paese davvero interessato al cambiamento, ammetterebbe che trequarti dell’editoria costruisce le sue strade allo stesso modo, scaricando catrame e stendendo bitume senza sapere bene perché. Se questo fosse un Paese ancora interessato al cambiamento, ammetterebbe che trequarti di quella che dovrebbe essere l’industria più etica e nobile – almeno a parole – funziona con le stesse logiche, gli stessi impulsi e grazie alla stessa borghesia inumata che alimentano la prostituzione.
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Vicini all’autocombustione
Se fosse un film – dicevamo – sarebbe ambientato nelle stanze in cui l’uscita de Il Colibrì (24 ottobre 2019) è stata salutata come l’effettiva assegnazione del premio Strega, nove mesi prima (3 luglio 2020) che la cerimonia allo zafferano consumasse l’abituale campionario di predicozzi, foto di gruppo con l’umiltà in chroma key, desideri inespressi o inesprimibili, endorsement reali o presunti, selfie letterari (tra gente che si odia) e abbracci allo spritz, come sempre relegando i libri – già, ci sarebbero pure loro – sullo sfondo del festival della tenzone all’italiana. Nulla di nuovo, tutto sommato. Allora perché è così importante parlarne, ancora? Perché dovrebbe avere un senso? Infatti, non ne ha. O meglio, ce l’avrebbe se si decidesse di squarciare il velo su un sistema autoassolutorio, autoreferenziale, autoerotico e purtroppo immune ai propri flagelli. Ce l’avrebbe solo se si considerasse l’industria editoriale italiana per quello che è, lo specchio della confusione e dell’approssimazione del Paese. Un potere politico concentrato, come tutti i sistemi di potere, nelle mani di una trentina di persone e dislocato in una trentina d’appartamenti. Come disse Niccolò Ammaniti all’indomani della fuga da questi ambienti, sbattendo la porta degli Amici della Domenica e dimettendosi dopo aver stravinto lo Strega, «non fanno per me queste stanze in cui i libri non contano niente, così come non conta come sono scritti e chi li leggerà, semmai conta quanto potere riescono ad alzare, con quanta polvere copriranno le vergogne di un sistema simile alle logiche di quelli criminali» (la Repubblica, giugno 2008). I reati sono molto diversi. Da una parte si spara dall’altra si scrive, da una parte si ruba e dall’altra si tira a campare. Ma val la pena sovrapporli perché questo ecosistema, che ormai produce molta più anidride di quanto ossigeno serva per respirare, in una democrazia degna di questo nome dovrebbe rappresentare un modello di merito, dovrebbe contribuire alla contaminazione del pensiero e delle coscienze, invece sembra diventato una piccola Gomorra che a nessuno conviene raccontare.
Per alimentare il suo circo, per portare il motore a un accettabile numero di giri, per garantire stipendi a redattori, collaboratori fantasma ed editor, per assicurare alla giostra un altro giro di fasullo stupore, l’industria editoriale è costretta a ingravidare continuamente sé stessa, a convincersi che la strada della moltiplicazione illogica, isterica e indiscriminata sia l’unica possibile. Insomma, il settore anarchico per definizione si è messo sotto padrone, consegnato al più vecchio e discutibile capitalismo. Come le mignotte, appunto. Chi compra fotte, chi vende comanda. A cominciare da quelli che dal capitalismo sono scappati, di notte e a gambe levate, per dar vita a La Nave di Teseo quando Bompiani era stata comprata da Mondadori (poi ceduta a Giunti per 16,5 milioni, in seguito all’intervento del Garante). Gli stessi che lo Strega l’hanno vinto ribaltando il proprio status in una notte, da piccoli editori (edizione 2019) a colosso egemone (quella successiva): un cannibalismo sonnambulo passato inosservato, poiché l’ipocrisia non viene bene nelle foto e perché di fronte alle imprese (solo Paolo Volponi era riuscito a vincerne due) qualsiasi parere è destinato a restare minoranza. Un po’ come le marce per la legalità, in cui nelle prime file trovi quelli che l’hanno ammazzata ma hanno avuto il buon gusto di disertarne i funerali.
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Schiavi di sé stessi
Si eccepirà che l’unico strumento possibile, per ristorare una professione in cui le risorse scarseggiano ogni giorno di più, è quello dell’anticipo. Un’unità di misura fallocrate in cui spesso vince chi ce l’ha più lungo (l’anticipo), mostrando ai colleghi di cos’è capace il proprio nome e il proprio agente (categoria su cui ci sarebbe da dire, da fare soprattutto). Ragionamento anche in questo caso saturo di contraddizioni, perché ad anticipo consistente non è mica detto che corrispondano aspettative altrettanto solide da parte della casa editrice. Sono piene le biblioteche di libri comprati (dagli editori) a un accidente e morti già nella culla, traditi dagli stessi genitori che avevano fatto carte false per poterli adottare. Così va il mondo, intanto il 27% dei titoli di narrativa italiana va al macero già alla prima edizione. Un mercato delle vacche in cui la dignità umana – quella letteraria nemmeno a parlarne – è soffocata dall’arroganza degli approcci, dalla rapidità dei bonifici, dalla miseria delle interlocuzioni. Irrita la miopia con cui si continua a inseguire la fenomenologia senza identificare il fenomeno, con cui si continua a puntare il dito sulla scarsità di risorse ma non sul fatto che è generata da uno dei mercati editoriali più poveri, perversi (nel 90% dei casi in cui decidiamo di farlo, è una sola holding a farci scegliere cosa leggere: Mondadori) e incomprensibili al mondo. In un Paese di lettori improvvisati, che costruisce la propria industria su un pubblico occasionale (autogrill, edicole, bancarelle) e non sistematico (librerie, fiere, rassegne), l’inganno ideologico degli anticipi a fondo perduto ha generato un passivo che ormai può essere sostenuto solo da altro passivo, un debito che si sopporta solo generando altro debito. Se da un lato vuol dire che il mercato editoriale è simile al resto del Paese più di quanto non sembri (l’Italia governa il proprio debito producendone altro, se si spezzasse la catena non ci sarebbe fallimento ma l’abisso), dall’altro è mancata la volontà di pensare a un circuito nuovo, essenziale e sostenibile, che rimetta al centro il libro in quanto patrimonio immateriale (non ho detto gratuito, ma immateriale).
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La prudenza nuoce gravemente ai Lettori
Al quadro tratteggiato si aggiunga l’aspetto più umiliante, almeno per chi scrive. La persistente, metodica e conveniente adozione dell’omertà come filosofia, la traslazione dell’italico «tengo famiglia» all’industria dei libri. «Non la chiamerei omertà – commentava il grande Gianpaolo Rugarli, all’indomani dell’uscita del suo romanzo capolavoro Andromeda e la notte – più prudenza, cautela tattica. So a cosa si riferisce, a quel sistema di non detti e non di mancati pronunciamenti che poi fanno di questo mondo lo schifo che è diventato. Lo so, fa schifo pure a me. Ci ho scritto un romanzo, pensi un po’. Ma non si aspetti conati di sincerità, perché non ce ne saranno. L’editoria è il sistema più chiuso che conosca, l’ambiente più autoreferenziale che la società moderna abbia mai generato. Generalmente questi ambienti finiscono in un modo solo…». Era il 1990. Due anni prima di Mani Pulite. Vent’anni prima dello scandalo che avrebbe travolto il Grinzane Cavour. Trenta prima che il sistema solare della nostra editoria si allineasse su tre pianeti (Mondadori, GeMS e Feltrinelli) e trentamila meteore. E altri trenta prima del misero fallimento ideologico delle più importanti imprese culturali italiane, ritenute «le principali colpevoli della massificazione, della stratificazione dell’orrore e dell’analfabetismo post industriale» come disse Umberto Eco (tra i fondatori de La Nave di Teseo, proprio lei). Qui non sono in discussione né saperi né abilità, di cui anche la nostra editoria è piena. Quanto l’incapacità di misurarsi con strumenti nuovi, l’incapacità di rinunciare a equazioni economiche che hanno la stessa efficacia del napalm: si vince la guerra desertificando la terra per cui si è combattuto. Carofiglio dalla Gruber. Corona dalla Berlinguer. De Giovanni da Mannoni. Volo da Fazio, per carità. E mille altri ancora. Si potrebbero rimettere gli orologi, prenderli come scadenze utili per assumere delle compresse. Non si sbaglierebbe mai, a conferma del fatto che l’editoria ha scelto di farsi proteggere da un pappone (la televisione) che non sa leggere: sapesse farlo, si renderebbe conto di cosa contengono i libri che indica come orizzonti dell’umanità. Ma senza andare così in alto – o in basso, a giudicare dagli esiti letterari – basta spostare il peso del chiacchiericcio a piani inferiori per ritrovare la verità delle considerazioni di Rugarli. Come finiscono questi ambienti, maestro? «Con l’estinzione – rispose –. Sono cicli economici, quindi vitali. Ere, e in quanto tali finiranno». In attesa che ciò accada, abbiamo permesso che a esordire per editori storici (gli stessi che hanno fatto la storia d’Italia) fossero semianalfabeti privi di qualsiasi linguaggio, dinamica narrativa e curiosità; abbiamo consentito ad agenti letterari con più cinismo che capelli di piazzare escrementi spacciandoli per diamanti, facendosi pagare a peso d’oro masturbazioni che spesso trovano la loro ragion d’essere già nei titoli (molte volte nemmeno in quelli); abbiamo lasciato che gli scaffali delle librerie venissero sepolti da cose inutili, come le offerte delle compagnie telefoniche che si sovrappongono fino ad annullarsi; abbiamo tollerato che soubrette, presentatrici, anchormen e women pubblicassero di tutto sulle loro vite – già abbastanza “sculate”, a dispetto della totale assenza di talento – in ragione di una democrazia editoriale che ben presto è degenerata in raccolta indifferenziata. «Capito come funziona? Ridiamo di Mary Stracqua, e dei tanti piccoli o medi parassiti come lei che intasano le redazioni dei giornali, le segreterie politiche, i ministeri, le televisioni, le università; ma la verità è che siamo responsabili della loro sopravvivenza. Lasciamo che diano l’esempio, invece di sopprimerlo. Viviamo questa codineria intellettuale collettiva, questa ipocrisia culturale che, come i professionisti del trash, ci fa additare gli ignoranti e sfotterli quando non ci sentono. Siamo tolleranti e accomodanti. E quando restiamo a guardarli, partecipiamo a uno spettacolo interattivo. Approviamo uno scandalo. Guardiamo come, nel nostro piccolo, abbiamo ridotto il mondo» (tratto da Mia suocera beve, Diego De Silva; Einaudi, 2010). Una citazione che contiene tutta la consapevolezza, e la conseguente necessità di seppellirla in fretta, dei principali artefici di questo disastro. Gli scrittori, soprattutto di quelli presunti.
Questo ha fatto la nostra omertà, la mia e la vostra. E gli unici a rimetterci sono stati i Lettori, confinati in una riserva in cui il resto degli italiani li guarda e compatisce la loro solitudine.
Davide Grittani
*Davide Grittani (Foggia, 1970) ha pubblicato i reportage C’era un Paese che invidiavano tutti (Transeuropa 2011, prefazione Ettore Mo e testimonianza Dacia Maraini) e i romanzi Rondò (Transeuropa 1998, postfazione Giampaolo Rugarli), E invece io (Biblioteca del Vascello 2016, presentato al premio Strega 2017), La rampicante (LiberAria 2018, presentato al premio Strega 2019 e vincitore premio Città di Cattolica 2019, Nicola Zingarelli 2019, Nabokov 2019, Giovane Holden 2019, inserito nella lista dei migliori libri 2018 da la Lettura del Corriere della Sera). Editorialista del Corriere del Mozzogiorno, inserto del Corriere della Sera.