29 Giugno 2019

Sul burkini in spiaggia. Come difendersi dal cherry picking e dal benaltrismo dei politicamente corretti su Facebook, quando si parla di Islam. Un decalogo

Sono sostanzialmente due le tecniche dialettiche che elevano la fallacia logica a vero e proprio sport estremo, specie nelle discussioni social.

La prima, il cherry picking (letteralmente “raccogliere ciliegie”), consiste nel selezionare le sole prove a sostegno della propria tesi, ignorando quelle che la smentiscono. In pratica è come trovarsi davanti a una bella torta e prenderne solo il proprio ingrediente preferito, lasciandola sguarnita agli altri commensali.

La seconda, il benaltrismo, è ancor più radicale, poiché riduce a inezia le posizioni dell’interlocutore proclamando direttamente la trascurabilità del problema.

È possibile trovarle entrambe nella maggior parte delle discussioni social, ma da mie recenti osservazioni ho concluso che in un tema specifico trovano la loro apoteosi: il ricorrente dibattito estivo sul burkini.

Se esprimete perplessità sulla crescente presenza di donne islamiche intabarrate in assurdi scafandri, sulle coste europee, e sottolineate magari la necessità di mettere qualche regola dove possibile, ad esempio in piscina, vi troverete davanti un ricco campionario di argomentazioni improbabili, rispetto alle quali riporto di seguito, sotto forma di decalogo, una breve guida di sopravvivenza. Potrebbe rivelarsi molto utile: in fondo a chi non accade, almeno una volta nella vita, di scrivere un post sul burkini?

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1) “Anche le suore cristiane vanno al mare vestite!”

Il primo paragone fuori luogo, chissà perché, è sempre con le suore. A nulla vale dire che esse sono figure religiose, che hanno deciso, dopo un lungo percorso, di prendere i voti, mentre le donne islamiche imburkinate sono, in teoria, laiche. E che una cultura che considera tutte le donne alla stregua di suore qualche perplessità dovrebbe suscitarla. Che poi, io una suora che pretenda di buttarsi in piscina vestita mica l’ho mai vista. Non c’è comunque alcun precetto che impedisca loro, se vogliono, di andare in acqua con un casto costume intero. D’altra parte, le suore cristiane vanno persino a Ballando con le stelle, e non mi pare poco.

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2) “Il Corano non parla né di burkini né di burka, quindi questi indumenti con l’Islam non c’entrano niente! Leggiti il Corano, ignorante!!!”

Dunque, che il Corano non ne parli espressamente in questi termini, è vero. Il testo sacro dell’Islam dice di far scendere il velo fino al petto e di non mostrare gli ornamenti, frase in effetti interpretabile. Fatto sta che burka e burkini non mi sembrano andare per la maggiore tra donne cristiane o atee, ragion per cui, che sia precetto o tradizione o un misto delle due cose, sembra chiaro che con l’Islam c’entra eccome.

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3) “Il burkini non è l’unico indumento dell’Islam. Ci sono anche Hijab, Niqab, Chador, Khimar…”.

Questa argomentazione è spesso seguita, solo pochi commenti dopo, dalla speculare “L’Islam non è tutto uguale. Ci sono musulmani sunniti, sciiti, kharigiti, sufi, e all’interno di questi varie scuole, tra cui Hanafi, Maliki… e tu scommetto che non lo sai, ignorante!!!”. Ok, ok, studiare è sempre bello e Wikipedia è uno strumento meraviglioso che ci rende tutti Alberto Angela per dieci minuti al giorno. E lo sappiamo che l’Islam è un mondo vasto e variegato, con diverse interpretazioni delle scritture e diversi gradi di intransigenza. Però, scusate, mentre voi sfoggiate il vostro nozionismo da tastiera, quelle donne stanno ancora facendo i vermi sotto le loro palandrane a 40 gradi…

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4) “Il burkini in realtà non è un indumento islamico, è stato inventato da una donna australiana per consentire alle donne islamiche di andare in spiaggia e fare sport, e tu non lo sai, ignorante!!!”.

E invece tu lo sai benissimo, anche perché è scritto ovunque, ma non stai nemmeno a dirglielo, tanto non ti crederebbero. Ed è vero, nei paesi islamici il burkini ha avuto un pur minimo ruolo liberatorio, la cui utilità però decade del tutto in Occidente, dove abbiamo avuto l’illuminismo, la separazione tra Stato e Chiesa, il femminismo e persino Temptation Island.

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5) “Ci sono anche donne che vanno in spiaggia vestite per ripararsi dal sole, magari per qualche malattia! Non ci pensi a loro?”.

Certo, e il meraviglioso mondo occidentale offre un’infinità di alternative in questo senso: maglie, magliette, parei multicolori, lunghe gonne a ruota, copricostumi e via dicendo – anche neri, come il burkini più classico, se vuoi sperare così di sembrare magra. E sono tutti indumenti che non rappresentano nessuna ideologia fanatica, a parte forse un po’ di innocua vanità. Per chi ama l’Oriente, ci sono anche tessuti in deliziose fantasie esotiche.

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6) “Come nell’Islam le donne sono costrette a coprirsi, in Occidente sono costrette a spogliarsi!”.

Non mi risulta che nessuno punti il fucile alle donne per farle spogliare, a parte forse in qualche pornazzo a tema “Forze dell’Ordine”. E su qualsiasi spiaggia si può trovare una grande variabilità di costumi, dal perizoma al bikini succinto, al costume intero anni ’70, per chi voglia ancora illudersi che la frappa laterale nasconda la cellulite. Per piacere agli uomini? Per piacere a sé stesse? Per sedurre il bagnino? Per leggere in santa pace? Non è importante, forse tutte queste cose insieme, ma l’unico parere che non conta pare proprio quello di Allah.

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7) “Mettersi il burkini è una loro libera scelta. Nessuno può dire a una donna come vestirsi o spogliarsi!”.

Per contestare questa argomentazione, seppur vacua, occorre un minimo di serietà. Di certo una donna, come un uomo, deve essere libera di vestirsi come vuole, per quanto un minimo di adeguamento al contesto sia sempre gradito. Il burkini però non è un semplice capo di vestiario, esattamente come non lo era la camicia nera dei fascisti. Il burkini è un simbolo, con un preciso significato: la sottomissione femminile come precetto religioso e culturale. Qualora esistano davvero, e credo esistano, donne che per debolezza o fanatismo scelgono con gioia di cuocersi sotto queste palandrane nel caldo di agosto e di entrare in acqua senza godere del fresco sulla pelle, poiché in quella cultura si riconoscono al punto di non sentire la sofferenza, allora tali donne non sono vittime, ma potenziali carnefici. Lo saranno, senz’altro, delle loro figlie, cui imporranno, o tenteranno di imporre, la stessa assurdità. Lo saranno perché, come prescrive l’Islam, praticheranno la daʿwa, cioè il proselitismo. Lo saranno perché vorranno, nella nostra società occidentale, costituire con la loro sottomissione un esempio di virtù. Perciò anche questa ciliegia, all’apparenza rossa e succosa, ha dentro il verme.

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8) “Sei tu intollerante! Loro non ti impediscono di metterti il costume che vuoi!”.

Anche qui occorre un po’ di serietà. Siamo certi che non mi vogliano impedire nulla? Non me lo impediscono ora, perché non ne hanno i mezzi, ma le proiezioni demografiche parlano chiaro. In Egitto e in Iran i diritti delle donne sono tornati indietro di secoli nel corso di una sola generazione, con l’avvento dell’Islam politico. La nostra Costituzione tutela, giustamente, le minoranze religiose, ma è stata scritta in un tempo in cui non c’erano grandi esodi, e le minoranze sembravano destinate a rimanere tali. Oggi si ha la pretesa di far coesistere su un unico territorio culture dai valori opposti e inconciliabili. Di combattere al tempo stesso, volendo fare un esempio semplice, per la libertà di burkini e per il gay pride, fregandosene del fatto che in vari paesi musulmani l’omosessualità è punita con la prigione se non con la pena di morte. Il burkini e il gay pride non sono figurine di un album, che puoi incollare una di fianco all’altra senza conseguenze. Si portano dietro due concezioni della vita profondamente diverse. Oggi stanno nascendo movimenti, cosiddetti “intersezionali”, che pretendono di lottare contemporaneamente per tutte le libertà e per tutti i diritti, ma ci sono libertà che si scontrano con altre libertà, diritti che calpestano altri diritti. Pur nell’apertura al diverso, le peculiarità di un popolo, di una comunità, non si possono ignorare: non siamo asterischi, trasformabili come jolly in qualsiasi cosa. Non lo siamo noi, e ancor meno lo sono loro. Pieno rispetto per le altre culture nei loro paesi di origine, ma in Europa il fondamentalismo religioso non è sul menù e i suoi simboli non devono avere diritto di cittadinanza.

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9) “Hai fatto questo post solo per prendere i like!!!!!”.

Le ore passano, dopo 378 commenti, una trentina di ban, 189 mi piace, 87 risatine, 52 cuoricini e innumerevoli faccine arrabbiate o piangenti, la vista inizia ad appannarsi e anche le argomentazioni risentono di una progressiva decadenza. Il penultimo stadio del degrado di un post Facebook è l’accusa di averlo scritto solo per ricevere like e non, come dovrebbe essere, per salvare il mondo. Ora, è evidente a tutti che per ricevere like è molto più proficuo e meno impegnativo postare un paffuto micio, piuttosto che un argomento di discussione complesso. Ma ormai sei stanco, la serietà latita e questa accusa non merita come risposta nulla di più di una GIF di Game of Thrones.

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10) “Adesso basta, vado a lavorare, io ho un lavoro!!!”. 

Arriva sempre il momento in cui il commentatore compulsivo ti rende edotto del fatto che lui ha un lavoro (e tu invece, sottinteso, non fai un c@zzo tutto il giorno). Come se lo avessi costretto tu a frantumarti i cosiddetti per sei ore! I luoghi in cui si registra un maggior attaccamento al lavoro sembrano proprio essere i commenti finali dei flame social. Flame che, pare assodato, avvengono per lo più in orario lavorativo, ma arriva sempre il momento in cui tutti rivendicano la loro dedizione all’impiego, rinfacciando agli interlocutori di essere invece dei perdigiorno. A questo punto, di solito, la discussione si conclude.

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E qui termina il decalogo. Ho messo a frutto la mia esperienza per il bene degli altri. Non pretendo di essere stata esaustiva, ma chiunque mi abbia letto a fondo non si troverà di certo impreparato, in futuro, nella gestione di un post sul burkini! Ora vi saluto, sapete, io ho un lavoro…

Viviana Viviani

Gruppo MAGOG