Chi sta morendo è il primo a esserne consapevole. Come se dentro si agitasse una sentinella che, tra l’istintivo accumulo di altra vita e l’aura di mestizia di chi si sente senza più tempo, detta i tempi del congedo. Mi ha sempre impressionato, non certo per il coraggio quanto per la sua elevatissima (a tratti anche enfatica) estetica del dolore, una frase di Gabriel Garcìa Màrquez: «Aveva sentito dire che la gente non muore quando deve, ma quando vuole» (tratta dal racconto Il mare del tempo perduto, contenuto nell’antologia La incredibile e triste storia della candida Eréndira e della sua nonna snaturata; prima edizione italiana Feltrinelli 1973, traduzione Enrico Cicogna). Anche il romanzo incentrato sulla morte dell’amatissima madre Melina, scritto da Crocifisso Dentello, è intriso di un’enfasi ingombrante, ma è proprio questa personale “cognizione del dolore”, così assoluta, dominante, sentimentalmente ipertrofica, a rendere questo libro una delle testimonianze più dignitose e autentiche che siano mai state scritte (negli ultimi anni) sulla perdita di una madre. Mi viene in mente L’estate del 1978 di Roberto Alajmo (Sellerio, 2018), poi poco altro. Comunque niente come Tuamore (La Nave di Teseo, 2022), neologismo con cui Dentello trasforma il killer di una donna vitale, brillante e simpaticissima – un cancro che pareva sconfitto, invece – in un labirinto di trasfigurazioni in cui realtà, ricordi, immaginazione e sofferenze lancinanti appartengono alla stiva dello stesso viaggio. Un libro bellissimo, che segnalo per tre prerogative che, messe così insieme, sembrano vincenti, oltre chepoetiche.
Il libro è scritto tutto – dalla prima all’ultima pagina, salvo piccolissime incursioni nel passato e nel passato remoto – in prima persona e nel presente indicativo. Dentello “confessa” a sé stesso, quindi al Lettore, che sua madre è ancora lì, insieme a lui, a tutti noi. E che quelle pagine altro non sono che il referto di un abbandono inevitabile, ma vivaddio anche bellissimo (nella sua tragicità). Crocifisso Dentello – che reputo uno degli autori più significativi di questi anni, a cominciare da Finché dura la colpa – parla di questa via Crucis, dal dolore alla morte, come se fosse un distacco immeritato, ingiusto, immotivatamente crudele. Una punizione eccessiva, chiunque l’abbia imposta, che Dentello rende più tragica ricorrendo spesso all’umore, alla vitalità e alla prontezza di spirito della donna inesauribile e geniale che emerge dalle pagine del libro. Capace di ironizzare su tutto, soprattutto sulla malattia, con una forza d’animo che rende (non so se volutamente) omaggio al carattere dei siciliani, al loro senso di resistenza e alla caparbietà con cui si sono inventati un’altra vita dopo il sofferto trasferimento nel milanese: protagonisti, anche loro come milioni di altri italiani, di una colossale emigrazione che tanto prometteva e soltanto qualcosa ha finito per restituire. Melina è originaria di Gela, le pagine in cui questa radice emerge senza specularesu un humus antropologico da “realismo magico” – ribelle, incoerente, surreale, straordinariamente letterario –, restituiscono al Lettore il perché nella vita di ogni emigrante c’è un romanzo che il Novecento non ha raccontato per intero (quando invece, soffermarsi di più su quelle privazioni, ci avrebbe aiutato a capire cosa siamo diventati).
L’ultimo aspetto che val la pena evidenziare è il rapporto fiduciario col dolore, quasi «un cane al guinzaglio» che Dentello non ha alcuna intenzione né di congedare né di archiviare. Il concetto di dolore-memoria è molto forte nel romanzo, come se solo attraverso il dolore (così brutale da essere avvertito fisicamente, come una ferita all’addome) si possano dare un senso e un ruolo all’addio, all’abbandono e alla solitudine. Tuamore è per questo un romanzo utile – con la retorica che soprattutto l’editoria italiana attrae su di sé quando scomoda questo aggettivo –, un romanzo che manifesta la sua solidità attraverso il senso del ridicolo a cui solo la perdita della carne può indurre: come quando Dentello ruba e distrugge una bambola che generava l’insopportabile felicità di due bambine (riparando però con un gesto nobile), come quando indossa una delle vesti di casa della mamma pur di rivederla seduta al posto di “combattimento” della vita di tutti i giorni. Ho scritto un romanzo in parte incentrato su quella che considero l’interruzione affettiva più drammatica che si possa verificare tra una madre e i suoi figli, ovvero l’Alzheimer e la perdita della memoria della vita che si è vissuto (La bambina dagli occhi d’oliva, Arkadia Editore 2021). Per questo mi sono affrettato a leggere Tuamore di Crocifisso Dentello, perché dai brevi messaggi che ci scambiamo sapevo che stava cercando di esorcizzare – parola terribile ma vera, perché di un demone parliamo – la morte di mamma Melina attraverso un romanzo. Mi aspettavo un romanzo di piaghe, mi sono imbattuto in pagine che grondano vita. Perché nulla è più vitale dello sdegno, dalla rivalsa, dalla rabbia e dalla rancore che si provano nei confronti della morte, in quell’eterno ma rancido omaggio alla bellezza del mondo che – purtroppo – siamo capaci di esprimere solo quando è troppo tardi. Leggetelo, è un romanzo senza pudore. Bellissimo, appunto.
Davide Grittani