08 Maggio 2018

Tra Firenze l’Impenetrabile e Città del Messico la Lussuriosa, viva le riviste come provocazione ed enigma: dialogo con Alessandro Raveggi, direttore di “The FLR”

La rivista più figa che c’è in Italia si chiama “The FLR”, nel nome simula “The TLS”, il fatidico The Times Literary Supplement, istituzione maxima della cultura londinese, ma si fa a Firenze con un editorial board rigorosamente made in Italy e un direttore, Alessandro Raveggi, con due palle così e i piedi in due mondi, tra Firenze, dove è nato, “l’Impenetrabile”, e Città del Messico, dove ha vissuto e dove ciclicamente ritorna, “la Lussuriosa”. “The FLR”, detto per esteso, sta per The Florentine Literary Review, ed è sorretta da un progetto limpido e letale: un tema, testi impeccabili, grafica da urlo, il tutto in doppia lingua, perché, come dice la dida, si tratta di “un magazine letterario in italiano e inglese”. L’idea non è velleitaria, anzi, è necessaria, pare di essere di fronte all’uovo di Colombo: possibile che la cosa più semplice non l’abbia pensata nessuno, prima? Voglio dire. Chi parla di letteratura oltre la trincea delle Alpi, di norma, si esprime in inglese. Esempio. Nel giro di pochi giorni ho: intervistato una scrittrice olandese, chiacchierato con un intellettuale di Buenos Aires, scambiato opinioni con un poeta che lavora a Wellington, Nuova Zelanda. Per capirci, ho scritto in inglese, of course, che è la lingua franca di noi cercatori di meraviglie. Ecco. “The FLR” è una meraviglia. Non solo per la copertina – superba – ovviamente. L’ultimo numero, appena uscito, ha come parola magica “Sacro”. Hanno firmato racconti e poesie, tra gli altri, Andrea Ponso e Laura Pariani, Giordano Meacci e Vivian Lamarque. Nei numeri precedenti – parole d’ordine “Invasione” e “Desiderio” – potete leggere testi di Alessandro Leogrande e Alcide Pierantozzi, Antonella Anedda, Filippo Tuena, Edgardo Franzosini. Ora. In questa era, rispondere alla penuria culturale con una rivista bilingue è un gesto sapiente e avventato, perfino avveniristico, conradiano. Così, ho stretto Raveggi – che prima di altro è scrittore, ha pubblicato Nella vasca dei terribili piranha, 2012, e Il grande regno dell’emergenza, 2016 – alla sua sontuosa responsabilità.

TheFLR1-coverTFPCome nasce FLR, perché, con quali velleità? Cito dal tuo editoriale, primo numero: “un amare senza freni, un passare il testimone, un procreare, un insidiare, un perdersi, un aspettare che qualcosa spiova o giunga a rompere l’equilibrio, la temperatura, il guscio”. Questo è il sugo dell’impresa editoriale?

La rivista The FLR nasce come una sfida nel mondo delle riviste italiane: una rivista bilingue inglese-italiano pare una cosa folle, ad un tempo una provocazione e un enigma. Invece io credo che proprio nell’Italia contemporanea sia utile questo slancio verso “il fuori”, per esportare la qualità che si scrive negli autori nostrani, e per farla in qualche modo “riesordire” verso il lettore angloamericano, e non solo. L’inglese è infatti una lingua franca, quindi ci dà la possibilità di arrivare idealmente ovunque. The FLR è una sfida da un lato contro il colonialismo stesso dell’inglese (si traduce spesso verso l’italiano tanta letteratura che poi risulta mediocre, solo perché fa trend) e dall’altro contro il provincialismo italiano, che a volte pensa che il mondo letterario finisca dopo il passo del San Bernardo. Spero sia fonte di ispirazione per la comunità di scrittori e lettori, con la sua visione trasversale (per stili e tematiche), focalizzata sull’autore, e la sua particolare espressività.

Faccio l’avvocato del diavolo. Ma. C’è bisogno, oggi, nella grandine digitale e nel fottio culturale, di una rivista, gesto culturale antico, del tutto ‘novecentesco’, passato? 

Le riviste cartacee stanno in realtà ritornando, non solo da noi, e al web sembra consegnarsi il dibattito d’opinione (spesso riottoso). In Italia dopo il Rinascimento web delle riviste (culturali) dei primi anni Zero (Nazione indiana, Carmilla, Il primo amore poi, e vorrei menzionare anche Clarence curata da Genna) stiamo ritornando a concentrarci sull’oggetto cartaceo per la pubblicazione della prosa e della poesia. Si fanno riviste ben più “impossibili” della nostra, curatissime graficamente, con formati speciali, aperiodiche e molto creative. E queste a mio avviso stanno sanando e rompendo a volte il ruolo stesso dei circoli culturali, dei gruppi più o meno locali (gli scrittori romani, gli scrittori toscani, gli scrittori milanesi…) spesso chiusi, autoreferenziali. Le riviste fanno da ponte tra le diverse regioni ed enclave, possono sperimentare, possono a volte far esordire ben più di un editore che magari spesso si brucia delle belle voci all’altare di un mercato impazzito. Viva le riviste, soprattutto oggi, eccome.

Con quale criterio scegliete il tema dominante del numero (l’ultimo, intrigante, è Sacro)? Come scegliete gli autori che dovranno trattarlo?

Dirò una cosa che sembrerà strana: ci mettiamo in ascolto. Ci sintonizziamo con quanto di inespresso c’è nel panorama emotivo italiano. A volte lo assecondiamo sconfessandolo (come nel numero 1 Invasione) altre lo percepiamo come sintomo manifesto di altro (come è emerso dal numero 2 Desiderio) altre ancora come nel numero 3, Sacro, sfidiamo gli autori stessi in misurarsi con qualcosa che avrebbe potuto metterli a disagio, in senso creativo. “Sacro” era una tematica che da tempo menzionavamo e discutevamo alle riunioni redazionali, perché molti di noi sono interessati a quelle scritture che sanno in qualche modo scendere a patti col metafisico. Di solito la parola chiave del numero deve arrivare in un momento preciso del nostro dialogo redazionale, e con il terzo numero è arrivato quel momento. Lavorare tematicamente ci permette così di immaginare un dialogo costante, che evolve, di numero in numero. Questo devo dire che è molto gratificante e crea l’idea di una rivista da collezionare non solo come oggetto curato e illustrato (che è comunque un elemento sul quale puntiamo.)

TheFLR2-coverTFPUn giudizio sulla letteratura italiana contemporanea (romanzo e poesia), da parte di uno che è anche romanziere e narratore e poeta. Insomma, cosa leggi? Su cosa ti sei formato?

Mi sono formato in realtà a 20 anni – o meglio a 20 anni ho capito che quella cosa lì chiamata scrittura mi interessasse – sui classici del teatro novecentesco, Ionesco, Brecht, Weiss, Cocteau, ma anche sugli arrangés inglesi come Sarah Kane e soprattutto il più maturo Martin Crimp. Perché a 20 anni stavo più in scena, lavorando come attore e dramaturg (il mio primo libro è infatti una drammaturgia) nel teatro di ricerca toscano. Questa tendenza scenica mi ha portato a leggere prima di tutto quegli autori in poesia dove la “scena” della parola era importante, le prime fonte di ispirazione sono stati Ginsberg, Corso, Patchen, ma anche poeti sperimentali quali quelli attorno alla rivista L=A=N=G=U=A=G=E. Da lì il passo verso la trimurti Sanguineti, Porta, Pagliarani è stato breve. Specialmente questi ultimi due sono stati dei veri maestri per me, assieme a Balestrini, e praticamente in lingua italiana fino ai 23 anni ho letto poesia legata al Gruppo 63 ed anche 93, mentre l’altra mia testa (quella in prosa) si cibava dei classici del postmoderno americano e francese, o dell’Avant Pop. Presto queste due tradizioni mi sono risultate insufficienti. In poesia sono ritornati i classici europei, o Zanzotto e Montale. In prosa ho venerato e venero Paolo Volponi (sebbene abbia anche scritto un libro sul sempre amato Calvino), poi è arrivato Guido Morselli, molte cose di Antonio Moresco (Gli esordi c’è da dire che è il mio favorito), mentre l’America – gli States hanno perso molto smalto negli ultimi vent’anni – è diventata soprattutto America Latina, con qualche eccezione ancora nordamericana (Saunders, Vollmann, Hemon quando non gigioneggia). Devo dire che fino al 2010 mi era poi molto difficile trovare autori contemporanei italiani che mi interessassero, li trovavo spesso affossati in tematiche scontate e personaggi stereotipati: oggi invece ci sono autori, anche giovani e giovanissimi, che rilanciano un senso “letterario” forte, sia dal punto di vista del plot che dello stile. È una situazione più caotica, dove è sempre più difficile sceverare. Chi riesce oggi a bilanciare una lingua curata ed espressiva e un plot, una trama mai scontata, avrà sempre il mio favore, sebbene spesso in Italia si viva di fazioni contrapposte: o si è maestri del raccontare storie come Veronesi o maestri dello stile come Mari.

Leggo che Città del Messico è “mia seconda patria” (parole tue). Cosa ti ha portato là, che cultura si odora laggiù? E ora… a Firenze a fare una rivista bilingue, italiano-inglese. Cosa ti è successo nel frattempo?

Ho vissuto diversi anni là e la mia famiglia è adesso praticamente italo-messicana: ogni giorno mi comunico tanto in italiano quanto in spagnolo. Città del Messico è una città non solo culturalmente, come si sa, tossica: ti entra nelle vene, e nello stomaco, per energia e brio (è la nuova capitale della letteratura iberoamericana mondiale, e questo si sente), ha una società molto giovane (e questo aiuta a scrivere), è crocevia di influenze americane, francesi e sudamericane ad un tempo. Per me è anche ogni anno una via di fuga, tra residenze e inviti all’università o semplici vacanze personali, un luogo dove mi piace sostare, ricaricarmi e ripartire. È una città letteraria massimalista per eccellenza. Certo, non è facile viverci. Ma è altrettanto vero che l’altra mia città invisibile è Firenze, l’Impenetrabile, come Città del Messico è la Lussuriosa. È avvincente trovarsi tra queste due particolari città mondiali con le quali il dialogo non è mai pacifico, specie se plurilingue.

TheFLR3-coverTFPChe differenza c’è tra Raveggi direttore di FLR e Raveggi scrittore?

Rispondo brevemente: spero che il Raveggi scrittore e il Raveggi direttore editoriale abbiano come comune denominatore il Raveggi lettore. Al di là di pregi e difetti, una cosa che penso non debba mai mancare in uno scrittore è la curiosità. Uno scrittore non curioso non lo posso concepire. E così un direttore editoriale, specie se di una rivista.

Cosa sta scrivendo Raveggi scrittore, che idee ha Raveggi direttore per FLR? 

Sto lavorando ad un romanzo nel quale viaggio a cavallo tra l’autobiografia rovesciata e il romanzo-saggio. È una biografia ma con l’aspetto romanzesco che è insito nella vita reale stessa del personaggio di cui parlo. Per scaramanzia non dico altro. Mentre per la rivista stiamo lavorando al numero 4, che uscirà in autunno. Avrà un tema solo apparentemente più delicato degli altri, e per la prima volta la rivista si aprirà, in un modo che si troverà più avvincente, alle proposte esterne. Presto lanceremo un bando di partecipazione e sarà tutto più chiaro.

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