Ho spesso l’impressione di essere nato nel momento sbagliato – ciò, naturalmente, al di là dell’inconveniente di essere nati. Sono stato destinato a non vivere in presa diretta niente di quel che maggiormente ho amato. Ho solo racimolato eredità degli anni precedenti. È stato così con i Nirvana, per esempio: stavo cominciando ad ascoltarli che loro erano appena morti, senza che le case discografiche volessero comunque decidersi a seppellirli – certi cadaveri si spremono finché possono produrre. Con Tori Amos non è andata diversamente. Quando l’ho scoperta, durante l’università, mi si è aperto un mondo, un mondo che volgeva al suo tramonto.
Adesso non ricordo con precisione, ma credo sia stato proprio Under The Pink, il secondo album, a essermi stato prestato da un amico più grande – si trattava sicuramente di un “cd masterizzato”, come li chiamavamo noi – che mi disse semplicemente “Questo fa al caso tuo, ascoltalo”. Quant’era bello, a quei tempi: qualcuno, spinto da un’empatia oramai impossibile, ti metteva al cospetto di un disco, o un libro, sapendo che per te sarebbe risultato imprescindibile.
Adesso che quella persona non la vedo più e non so neppure se sia morta, mi piacerebbe ringraziarlo – proprio come all’amico che a suo tempo mi consigliò “Leggi Houellebecq, sono certo che ti piacerà”. Forse aveva ragione quel vecchio rompicoglioni di Aristotele, quando diceva che siamo animali sociali: il mondo non lo si coglie mai da soli, ci viene sempre presentato.
Ricordo bene l’impatto di quella voce affilata e dolcissima, il pianoforte che la segue in un miracoloso intreccio. Ho ascoltato tante imitatrici, ma in effetti gli epigoni sono sempre epigoni e la grandezza spicca. Tori Amos è un unicum, come Emily Dickinson in poesia. Inspiegabile e indispensabile. Strozza il fiato con tanta grazia, tramuta il dolore in gioia cantandolo.
Mestamente, quel periodo mi è sfuggito per un soffio. Non c’ero. Ne ho giusto raccolto i frutti ex post. La mia generazione ha vissuto e vive di un lascito del passato. Siamo quelli dei remake, dei cofanetti celebrativi. Dobbiamo sempre ringraziare i padri e le madri, come Tori Amos.
Purtroppo, quando l’ho incrociata, la cantante americana aveva una brillante carriera alle spalle che volgeva miseramente al termine – ascoltai Scarlet’s Walk consapevole che la sua fine artistica era prossima, per quanto si intravedessero ancora sprazzi di genialità.
Oggi mi resta la ricorrenza per i venticinque anni di Under The Pink, il piacere della nostalgia, il sentore che difficilmente qualcos’altro mi stupirà come allora. E, a conti fatti, forse solo i Florence and the Machine, nell’ultimo decennio, hanno lasciato in me un solco altrettanto profondo.
Ho anche provato ad ascoltare gli ultimi album della pianista, come Abnormally Attracted to Sin o Native Invader. Certo il professionismo non manca ma, oltre il saper comporre e dare forma musicale a delle note sparse, c’è ben poco. Manca l’anima, la voglia inquieta di farcela. Il successo corrisponde solitamente alla morte dell’arte. Nella scrittura, quando un autore vi giunge, spesso il suo stile ha toccato lo zenit, per poi ridursi di lì a poco a mero mestiere. Il dolore, che è sempre la forza propulsiva della creazione, ha trovato approdo e giustificazione nel trionfo commerciale. Il mondo ha capito e riconosciuto lo sforzo, dunque non resta che l’ebetitudine della gloria e, nel peggiore dei casi, il sopravvivere a sé stessi nella forma del farsi il verso. Un artista o muore sconfitto, per poi essere riscoperto, o arriva alla tomba essendo passato all’altro mondo qualche decennio prima del decesso. Come cantava la Amos in quella fantastica prima traccia, Crucify, dal suo album d’esordio, Little Earthquakes: “I got to have my suffering so that I can have my cross” (Debbo soffrire, così da poter avere la mia Croce). Passata la sofferenza, è rimasta solo la Croce, la santificazione. Ma dopo l’ascensione non si può più salire, resta solo la caduta.
Matteo Fais