In un’ipotetica isola deserta del proprio autolesionismo, ogni persona dotata di un po’ di spirito critico dovrebbe portarsi i libri degli autori che maggiormente detesta. È il proprio avversario quello che bisogna conoscere meglio, del resto. Per conto mio, non mi farei mancare per niente al mondo i libri di Michela Murgia, in particolare la saggistica, come Istruzioni per diventare fascisti. Non che l’ultimo suo testo per ragazzi sia da meno! Sto parlando di Noi siamo tempesta (Salani, 2019). Si tratta, come dice la copertina, di “Storie senza eroe che hanno cambiato il mondo”.
Sorvolerò sullo stile decisamente sciatto rispetto a quello a cui ci aveva abituati la scrittrice sarda – ma direi che nell’economia dell’opera questo è il male minore. Molto più problematica risulta la spinta ideologica che la anima, ovvero l’idea che vi sia qualcosa di sbagliato nell’eroismo individuale di molte storie su cui è fondata la cultura occidentale.
“Il messaggio sottinteso è che siano l’x factor, l’eccellenza individuale, il talento raro di singole persone a fare la differenza davanti alle sfide del mondo. È davvero così? Alcune volte sì, ma la statistica insegna che la storia si fa esattamente in modo inverso: nella stragrande maggioranza dei casi non sono i geni solitari a cambiarla, ma il lavoro di squadra e la condivisione dei percorsi”… Anche io mi sono chiesto se fosse seria e, a quanto pare, lo è. Come se qualsiasi storia, per esempio quella della letteratura, tanto per rimanere su un tema che la tocca da vicino, non fosse una storia di eccellenze – eccettuati, ovviamente, quelli che sono pubblicati sulla base dell’appartenenza a una conventicola di potere, con tessera di partito in tasca, cioè non pochi, se si considera il nefasto effetto dell’egemonia culturale negli ultimi settant’anni in Italia. In generale, a ogni modo, non si ricordano casi in cui la storia di un popolo, un gruppo, un partito non sia stata determinata dalla guida di una o più personalità geniali. Altrimenti non si spiegherebbe quella del marxismo, ma neppure il cambio di segretari all’interno del PCI. Poi, certo, servono anche quelli che distribuiscono volantini, ma ci sarà pure un motivo – o almeno idealmente dovrebbe esserci – se uno dirige la baracca e l’altro affigge i manifesti. Sarà brutto a dirsi – terribile, in realtà –, ma le cose stanno proprio così.
E giustamente l’autrice del fascistometro si chiede: “Che cosa implica insegnare ai bambini e ai ragazzi che il mondo va letto solo dentro la cornice dell’eroismo solitario? Immedesimarsi in quel modello di personaggio che valori radica, che modalità d’azione sviluppa, che sguardo sulla realtà educa?”. Naturalmente, secondo la sua visione, il primo problema è che questi eroi sono quasi sempre maschi – mi pareva strano che non si spingesse sul conflitto tra i sessi! Dubito però che la scrittrice in questione, a parti invertite, metterebbe in discussione l’eroismo letterario e umano della grandissima Sylvia Plath, o di Emily Dickinson. Direi, comunque, che un simile modello educa i ragazzi a cercare l’indipendenza e fornisce loro un pantheon ideale di riferimento a cui rifarsi, invitandoli a perseguire non la mediocrazia oggi imperante, ma l’eccellenza.
Continuando nella descrizione della figura dell’eroe, si precisa che “non gli manca mai il nemico, il modello di risoluzione dominante è bellico e la gloria del vincitore si ottiene al prezzo dell’annichilimento dei vinti”. Ma, davvero, non mi dire! Scopriamo improvvisamente che “la guerra è madre di tutte le cose”, che viviamo immersi in una dimensione di conflitto perenne – poi sostenuto da lei che è così pacata nel rapportarsi agli altri, tutti indistintamente identificati come fascisti. E non mi dire che chi vince lo fa a danno degli altri, o contro di questi?! Perché il Premio Campiello, o lo Strega, lo vincono tutti? Purtroppo in simili contesti il problema non è che vi sia un vincitore il quale annichilisce gli altri, ma se sia realmente migliore di loro… o che non gli capiti, stranamente, di vincerlo un anno e poi il successivo assegnarlo, nel ruolo di giurato, a chi gliel’ha conferito. Ma, sia chiaro, questo non è il suo caso.
“Dentro questa tipologia di storie si cresce più competitivi che collaborativi, più guardinghi che fiduciosi, più rivendicativi che riconoscenti. Si cresce psicologicamente predisposti a difendersi”. Che essere più collaborativi non sia necessariamente un male è vero. Magari però, conoscendo la razza umana e avendo letto Cecità di Saramago, La strada di McCarthy, personalmente resto sempre un po’ sulla difensiva.
A conti fatti, comunque, tutte queste banalità e il florilegio di buoni sentimenti da parrocchiano di campagna non sarebbero niente più che sciocchezze innocue. Il vero motivo di preoccupazione mi è venuto mettendo idealmente in parallelo il testo della Murgia con L’uomo che voleva essere colpevole di Henrik Stangerup, appena ristampato da Iperborea.
Il libro in questione è una delle più belle distopie del ’900 e forse la sola le cui previsioni si siano realmente avvicinate, rispetto a quando fu scritta nel ’78, alla realtà odierna. L’autore, avendo la fortuna di scrivere decenni dopo i vari antiutopisti classici, come Orwell, riuscì a cogliere gli sviluppi che il Potere avrebbe preso di lì a breve. Non sarebbe stata la coercizione violenta del Grande Fratello, ma una sottile e molto più pervasiva strategia a prevalere dopo il ’68.
Nella società ipotizzata da Stangerup, l’evoluzione del cosiddetto socialismo scandinavo si risolve fondamentalmente nell’incubo politicamente corretto che stiamo vivendo oggigiorno. L’aggressività è tenuta a bada attraverso appositi incontri guidati da una sorta di assistenti sociali, abili anche a somministrare pillole dell’umore – i nostri psicofarmaci. In tale realtà non è neppure possibile essere considerati colpevoli di omicidio, perché lo Stato non vuole che nessuno esca dalle sue maglie violentemente inclusive. Chiunque compia un atto smaccatamente antisociale viene giustificato dicendo che non ha agito di sua spontanea volontà, ma spinto da “determinate circostanze” – il che sarebbe come dire, di questi tempi, che quell’uomo ha violentato solo perché “nella cultura da cui proviene” è normale relazionarsi con le donne in tal modo. Come sottolinea l’autore: “allora cos’altro erano quelle circostanze se non il prodotto di una società che non permetteva di parlare d’altro che di circostanze, e che negava all’individuo il diritto a una vita propria, ai propri sogni e alla propria inviolabile identità?”.
Ma la cosa più spaventosa è la battaglia condotta dal Sistema contro qualsiasi forma di individualismo e aspirazione del singolo che possa, dal loro punto di vista, nuocere allo spirito comunitario. In cosa si sostanzia questo, per esempio a livello letterario? Le case editrici che ricevono finanziamenti sono solo quelle che pubblicano romanzi affini allo spirito della politica imposta dal Centrosinistra. In secondo luogo, vi è “il bando assoluto di tutti i libri per l’infanzia e i cartoni animati che contenessero ogni minimo accenno alla violenza, al mito dell’eroe solitario”. Praticamente il filone auspicato dalla Murgia con il suo Noi siamo tempesta – o, perlomeno, il naturale seguito della sua operazione. Ma, per fortuna, malgrado la sua esaltazione dell’idea secondo cui “l’unione fa la forza”, la storia ci ricorda che è un numero limitato di persone a determinare la differenza e sempre sotto la guida di un Capo, come nel caso di Leonida alle Termopili – mai scomodato tanto ad cazzum come in questo libro. Non parliamo poi della celebrazione del femminismo durante la rivoluzione d’Ottobre, in Unione Sovietica… NELL’UNIONE SOVIETICA!
Matteo Fais