15 Dicembre 2017

La poesia vende? E chissenefrega, tanto a vendere è solo Francesco Sole. AAA imprenditore cercasi che stipendi un poeta per il gusto

Nell’intervista che mi ha gentilmente concesso, Giovanna Rosadini, una che il mondo e il sotto-mondo della poesia lo conosce come la cucina di casa, ci avvisa che “i dati delle vendite” riguardo ai libri di poesia “sono confortanti: da quattro anni sono in costante aumento”. Sul concetto, Andrea Temporelli ci ha fatto una limonata di quieto sarcasmo (“La sapete l’ultima? In barba alle prefiche che piangono da decenni la morte della poesia, i libri di poesia vendono più di quel che si crede, con una crescita negli ultimi anni da fare invidia al PIL”, leggete meglio qui); sul concetto io ribadisco due cose. Primo. Chissenefrega. Insomma, lo sappiamo che tira più l’autobiografia di Belen che l’opera omnia di Boris Pasternak, in questo Occidente del capitalismo cialtrone, per cui. Secondo. Chissenefrega. Incrociando i dati di vendita di Amazon e Ibs.it, alla voce bestseller poesia, vien fuori che a vendere più di tutti sono Francesco Sole (Ti voglio bene), Rupi Kaur (Milk and Honey), Gio Evan (Capita a volte che ti penso sempre), Guido Catalano (Ogni volta che mi baci muore un nazista). Ogni tanto sbuca un Baudelaire, forza del ‘maledettismo’ e dell’anniversario, presumo (i 150 anni dalla morte del geniaccio). Insomma, nei bestseller poesia, a vendere, non sono i poeti. Sono i virali untori del ‘poeticume’. Machiccazzoseitu per dire cosa è poesia e cosa non lo è. Avete ragione. Facciamo un esempio. Questo è Francesco Sole, il tipo che fa decuplicare le vendite del settore ‘poesia’: “Io do valore ai gesti./ A chi mi tiene per mano,/ a chi mi guarda sorride”. Questo è buonismo spazzatura, glucosio che ci intirizzisce le arterie, mentre questi sono versi magnetici: “…e ti scrivo di qui, da questo tavolo/ remoto, dalla cellula di miele/ di una sfera lanciata nello spazio”. Questo è Montale, Notizie dall’Amiata. E vabbè, così non vale, dite. Benissimo. Questo è Guido Catalano: “Volevo sapessi che spesso ti penso spesso/ che è anche un bel titolo/ per la mia prossima poesia/ cioè questa”, cioè refluo lirico, liquame digestivo della prima cosa che salta in testa. “Se la fine certifica l’amore/ fermo il respiro adesso nel poema:/ adamantino chiodo dentro il vuoto/ per darti appiglio, figlio, almeno un poco”. Questo è Andrea Temporelli. Ogni commento offenderebbe l’intelligenza di chi legge. Ergo: quella che vende, catalogata alla voce ‘poesia’, non è poesia. Dunque, chissenefrega se la poesia vende. E chissenefrega dei conventi dei poeti e delle conventicole e di chi critica e di chi studia le magnifiche rotte progressive della lirica italica. La poesia non potrà mai ‘vendere’ perché non è in vendita. Per questo, sogno che i poeti – quelli che si credono tali – stiano al confino dell’editoria che conta: perché pubblicare a bordo di transatlantici editoriali che per vendere devono stampare ricette di cucina, rigurgiti romanzeschi e puttanate seriali? Che il poeta faccia una scelta davvero ‘poetica’: pubblichi per i fatti suoi, su placche introvabili, per editori casalinghi. La poesia non va venduta; va setacciata, odorata, cercata come l’oro. E il poeta, povero in canna, spina dorsale di vetro, uno sfigato, va eventualmente ‘adottato’ da un mecenate che gli paghi lo stipendio solo per scrivere la sua personale Divina Commedia. AAA imprenditore cercasi che sia disposto ad accogliere il poeta pagandolo purché esista, pensi, scriva. Non sarebbe un mondo migliore, un modo migliore di investire i propri soldi? Al posto di pagare lo stipendio milionario a un calciatore qualunque, stipendiare con una cifra ridottissima – il poeta ha bisogno di carta-penna-pane-acqua, 1200 euro al mese sono una manna – il Dante di domani. Poi, allo stadio, organizziamo un campionato dei poeti. Chi vince, poeticamente, rifiuta il premio e lo destina ai poveri del mondo. Eventualmente, al poeta è concesso pure sputare in faccia un verso al proprio danaroso mecenate: si sa, i poeti, fanatici del sadismo, sputano sempre nel piatto dove mangiano e latrano.

Davide Brullo

Gruppo MAGOG