24 Luglio 2023

Tutti al mare! Manuale sommario per uscire dalla società civile

Stavo spiegando a un ragazzo, sommariamente, l’illuminazione di Siddharta. Insomma: il fatto che tutto è sofferenza e morte, vincere il dolore sconfiggendo il desiderio, il nodo scorsoio dei legami. Quella cosa lì. Gli dicevo di certi maestri, conficcati nelle grotte himalaiane, estremisti del contemplare. Saranno state le sette, entrambi instupiditi da un bicchiere di rum con qualcos’altro; traffico estivo, sulla spiaggia, corpi inadempienti al pudore, per fortuna. Mi fissava desolato, il ragazzo, ancorato al mondo e alle sue abitudini – ho proposto un brindisi alla lussuria. Se non ammetti il lusso dello spirito, almeno, dissipa il corpo.

Il mare, in fondo, elettrico, scosso dal temporale di qualche ora prima, aveva lasciato tronchi sulla spiaggia. Spumeggiava – bellissimo. Una canzone di Richard Hawley mi ha scheggiato il cervello. S’intitola The Ocean, fa parte di un album, Coles Corner, uscito nel 2005. Voce abissale, come un sole di corda, ballata possente, ritornello sonnambulo, “Portami giù, portami giù, nell’oceano, il mondo è perfetto nell’oceano…”. Dico al ragazzo, pochi concetti, poche palle, andiamo a fare il bagno. Ma il mare è mosso, fa lui. Appunto. Sennò che senso ha? Lasciamo che il mare scelga cosa fare di noi. Mi spoglio. Tentenna. Il mare è nudo. Forse una lince cammina sulle acque. I gabbiani si muovono dispari, come dadi che ondeggiano in aria, privi di numero. Allora fottetevi. Dico al ragazzo, ignifugo alla fuga del Buddha, e agli altri, al bar. Fottetevi. Non posso augurarvi di meglio. Fottetevi a vicenda. E che il godere sia speciale.

Vado in mare. Qualche giorno fa ho visto una razza, meravigliosa: si librava nelle profondità come una poiana delle sabbie. Il mare ha ragione del corpo: lo possiede totalmente, a te resta di intuire le correnti, come se l’acqua fosse vento. Ma il mare ti sopraffà, così puoi fare a meno del corpo: nuoti, con assiomatica rabbia, e la tua intelligenza è nei piedi, nelle cosce, a volte nelle dita. Spesso incrocio una medusa; sembra un enorme lampadario viola, chimerica decorazione di un palazzo subacqueo.

Nel primo capitolo di Moby Dick, Herman Melville scrive che il mare è un magnete, polarizza l’azione umana; l’uomo è in marcia, sempre, verso il mare:

“Ma guarda! Altre frotte si fanno sotto, puntando dritto verso l’acqua e con l’aria di chi vuol farsi un tuffo. Strano! Nulla li soddisfa, se non l’estremo limite della terraferma… Devono avvicinarsi all’acqua fin quasi al punto di caderci dentro. E là stanno: a miglia, a leghe. Gente tutta dell’entroterra, che affluisce da vicoli e viuzze, strade e viali… nord, est, sud, ovest. Tuttavia, è qui che si riunisce tutta”.

La terra, per quanto vasta, non soddisfa l’uomo: egli è fatto per i cieli. Per questo, l’ascesa delle montagne, Babele rocciosa dove gli dèi si danno a pettegolezzi di ghiaccio; per questo, si scollina nel mare, cielo rovesciato, il grande guaito degli inizi – “…e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque” –, il luogo in cui tutto sarà inghiottito. Per questo la pioggia pare il tentativo nuziale del cielo di diventare oceano.

Dal mare vedo ragazzi a branchi, brancolano verso la sera; siamo animali sociali, mi ha detto il ragazzo, prima, e che ci fai in questa benedetta società?, gli ho risposto. Convenevoli, sorrisi virtuosi, la grammatica della dissimulazione. Io, per me, lascio che il sale mi laceri gli occhi e che qualche cormorano rediga la cronaca del giorno. La luce si sfascia in foglie; mi fanno compagnia i ragni, ho detto al ragazzo: studio come costruiscono la tela, il modo in cui si curano della preda, l’assalgono, la succhiano. Un pasto che significa amore. L’eleganza è somma; quando piove, il ragno smobilita la tela e si rannicchia sotto una pianta.

Il più grande esegeta di Melville è Charles Olson, poeta, discepolo di Ezra Pound, ovviamente ignoto in questo paese di furbi. Nel 1947 pubblica Chiamatemi Ismaele – tradotto da Guanda, cinquant’anni fa – e impone alla critica il criterio oceanico, creativo (un po’ come aveva fatto, in Russia, Viktor Šklovskij).

“Delle acque, come la Russia della terra, il Pacifico dà il senso dell’immensità. È il mare inespugnabile, gemello e rivale della terra inespugnabile. Il Pacifico è, per un Americano, le Pianure ripetute, un Grande West del ventesimo secolo. Melville comprese il rapporto delle due geografie… Il Pacifico risultò essere Atlantide, il luogo sepolto. Il Pacifico era ‘padre’ più vecchio dell’America, ‘delle cittadine californiane appena erette’, più vecchio dell’Asia, e di Abramo”. Charles Olson

Olson mette in relazione oceano e deserto: “Nel 1841 Melville era andato nel Pacifico. Nel 1856 andò in Terra Santa. È in un simile contrasto che sta la sua opera… Il viaggio del 1856 è il gemello innaturale del primo”. Nel mare si entra affamati, depravati di profezia: se ne esce – se – risoluti, appagati, con il biblico nei muscoli.

Eppure, nell’epoca inerte, nell’era esangue, del bordello ideale, del brodino quotidiano e degli sbrodoloni telegenici, chi piglia ancora il mare, chi sente in sé l’epica oceanica, l’avvento dell’avventura, l’avvenire della solitudine, l’intoccabile? I nostri scrittori si occupano, per occupare posti di visibilità, di fatti mondani, di cronache anodine, inutili, di fenomeni sociali, privi di furia polemica, per lo più vili, senza denti, con la coda tra le chiappe. E la somma editoria, china al trogolo dell’ovvio, dimentica gli autori spavaldi, sparuti, coraggiosi. Vittorio G. Rossi, scrittore poligrafo a cui, negli anni Settanta, Mondadori dedicava una collana speciale (“I libri di Vittorio G. Rossi”), ha dedicato al mare un florilegio di romanzi. Il più bello s’intitola Oceano, lo ha ripreso, lo scorso anno, Lindau, sia lode: racconta di rovinose vicende vissute coi pescatori dei mari del Nord. Non è privo di evidenze liriche:

“I voli discordi delle procellarie guazzano nell’aria molle e in vortice vi si sciolgono. Il respiro del mare è pacato e lieve; una vita oscura scorre sotto l’epidermide delle acque… Questa, dice Brand, è l’ora più spirituale. L’aurora è carica di succhi vitali, ha il petto colmo, è energica, laboriosa, avida di vivere. È l’ora delle promesse, dei propositi, della rinascita delle forze e delle speranze. Il crepuscolo, invece, è un’ora stanca. L’uomo in quest’ora raccoglie le foglie secche: speranze sfiorite, promesse mancate. Si distacca dalla materia, guarda dentro di sé, pensa all’anima. Ora meditabonda, inerte, sospesa sull’orlo delle tenebre: un accostamento alla morte”.

Il mare, semmai, lo capisce il poeta, perché simula il poema. Che sia Ungaretti o Derek Walcott, Umberto Saba o Pound (che inaugura i Cantos dal mare: And then went down to the ship,/ Set keel to breakers, forth on the godly sea, and/ We set up mast and sail on that swart ship…), la tratta è sempre oceanica, carpire corallo e zattera, dirimere i flutti con sapienza di sarto. Tra tutti, a invogliare il tuffo, preferisco Saint-John Perse, è ovvio. Poeta straordinario – dunque, sconosciuto ai più – al mare dedica il poema più vasto, Amers: uscito nel 1957 – tradotto da Romeo Lucchese nel 1969 come “Segnali di mare”, smarrendo l’originaria amarezza del titolo, la scandita tensione mare/amore/amaro –, che di fatto lo consacra al Nobel. Il poema è l’esito di un lavoro decennale e di una stagione di viaggi memorabili, dal golfo del Messico ai mari d’Oriente. In particolare, SJP studia le maree nel Maine, osserva la fauna oceanica a Capo Hatteras, “visita i musei navali di Belfast, Searsport e Mystic (dove si trovano baleniere e clipper in disarmo)”, naviga coi pescatori canadesi nelle acque di Terranova, percorre i Caraibi e le Antille inglesi, si stabilisce, infine, nella penisola di Giens, di fronte alle isole d’Hyères, in una casa donatagli da alcuni ammiratori americani. La poesia, qui, stordisce, invita a mollare l’ancora, a spezzare le catene, a non dipendere da altro che dall’estro:

“Dal Maestro d’astri e di navigazione:
Mi hanno chiamato l’Oscuro, e le mie parole erano di mare. L’Anno di cui parlo è il più grande Anno; il Mare dove interrogo è il più grande Mare. Riverenza alla tua riva, demenza, o maggior Mare del desiderio…

La condizione terrestre è miserabile, ma i miei averi sui mari sono immensi, e il mio profitto è incalcolabile sulle tavole d’oltremare.
Una sera seminata di specie luminose
Ci trattiene sulla riva delle grandi Acque come in riva del suo antro la Mangiatrice di malve
Quella che i vecchi Piloti vestiti di pelle bianca
E i loro grandi uomini fortunati, portatori d’armature e di scritti, in vicinanza della roccia nera ornata di rotonde, usano salutare con una pia ovazione”.

Dal mare, purché si vada a largo, bordeggiando il disorientamento, si ha visione delle nuvole, del loro valore – vanno divinate, come viscere di uccelli e di stelle.

Gruppo MAGOG