16 Marzo 2023

“Non dovrebbe essere fulgido ciò che è mostruoso?”: negli abissi di Tommaso Landolfi

Non so raccapezzarmi e vorrei a prestito, ora più che mai, una delle sue trovate, dei suoi “mezzucci” per essere facilmente fraintesi, anzi direi proprio per farsi fraintesi, da soli, così che non debbano far altro che saltare al rigo seguente quegli altri. Dirò comunque che mi è indispensabile e oscura la stessa ragione di scrivere, di scrivere di lui, di Tommaso Landolfi, autore da non definire sofisticato, né elegante, di fantascienza o aristocratico, per suo stesso volere; per suo volere nulla, assolutamente nulla, soprattutto se si tratta di lodi o connotati enfatici, spesso drammatici in effetti per chi ne riceve, chi tenta anche solo di vederci un ciuffo dei propri capelli. Rispetto e comprendo, forse farò di peggio. 

Dire che la letteratura russa lo pervade è dare una notizia, per altro diffusa, e poco resta da aggiungere. Basta un’immagine di attesa, in abulia, di pensieri quasi non pensati eppure febbrili, dubbi e ipocondrie da dubbio, reazioni avverse alla realtà, a sproposito, viltà e violenza che scema, scemando allucina. In più l’unico vanto che può permettersi la realtà, quello di non essere verosimile, con le conseguenti creazioni involutive. Ma l’irrimediabile tecnico, il cruccio è la parola e quel vezzo temuto di usarla, farne un uso, spossandosi e privandosi. Senz’altro Landolfi definirebbe patetico, appena ne aveva occasione andava difatti confessandolo, ogni suo giro di parole, quell’intrigo alla ricerca delle cause prime, il solo fatto di darsi delle cause prime, di non fluire ma opporsi, inimicarsi anche le formule più convinte, più familiari che la penna sperimenta, avere ad odio questa familiarità e incupirsi alquanto dello sforzo commesso. Così, spesso tra amorevoli parentesi, si lamenta che non era esattamente quello che voleva esprimere l’appena espresso, che l’aggettivo dovrebbe manifestare altri sensi oltre ai suoi più scolastici, che non basta una definizione, si accetti ora come più tardi l’insolita formula, ché è sempre insolito dover fingere una formula in vece di una cosa, che la scelta di una congiunzione o di un appunto si ferma qui, per mancanza di passione, di voglia a terminare il giro. Tutti modi di dire per non dire, tutto il possibile per non dire, dire il poco che avanzerebbe lo stesso; poi quell’Io pronunciato con intolleranza, senza farne per forza un’esperienza; e il lettore, chissà se ascoltatore o trasmittente, che nominato si fa inanime, qualcosa che suona, dunque esistente lì per lì, per necessità di una qualche vocazione ma non ambito, non educato, anzi troppo chiassoso a volte e condannato a divenire incoscienza. 

Verrà forse di credere che sia unicamente una maschera, un capriccio da scrittore beffardo e incompiuto, un giochetto teso all’abbocco. Qualcuno si fiderà ciecamente di questa convinzione e sopporterà meglio la tragedia della lingua. Per gli altri invece valga quanto segue. La lingua non è il luogo delle opportunità, dei tentativi, il luogo dove chiunque passi si sveste e riveste perché chi riveste obbedisce e chi sveste pencola; quello che è non può mai essere costatato attraverso quello che è, i mezzi non sono attributi della cosa ma la cosa non è un attributo a sé. Ne deriva l’incubo di una lingua incestuosa, con i relativi utilizzi e rigetti che vi si operano, dove la compostezza delle frasi impavide e la pulizia di quelle sciatte condividono una consanguineità provinciale; come se il linguaggio fosse a priori osservanza fissata con una certa incuria e soffrirne in fondo un pretesto da “impotenti”, codardi.

Inoltre risulta grottesco – e il nostro autore tenta regolarmente denunciarlo – arbitrare, trarre termini morali, anche solo informare di questo o di quello. Se nella frase un pensiero vi resta inglobato, trova esaltazione o ripiego ad essere così espresso, ne uscirà infine dell’altro, per vie tutte deformate, e di nessun risultato si potrà all’unanimità constatare la resa. E se il linguaggio non è strumento di conoscenza, semmai di intrappolamento o fuoriuscita, chi è che non sa e chi invece sa? Resta il dubbio che vi sia nella lingua un tale favore riservato a questi ultimi.

Da questa promessa di incomunicabilità Landolfi ne escogita un’altra, fatta di vocaboli riesumati, di luoghi comuni senza comune accordo, di rituali desueti o presunti, per chiunque sappia riceverne il giusto conforto, il disincanto enorme che serve ad ogni regola, ad ogni gioco.

Che invenzioni il grande Landolfi, che esseri bizzarri e situazioni sgradevoli, bieche; mette orrore, attrae! Mi è capitato di sentire che la pretesa fantastica funga da mezzo in Landolfi, che alla maniera dei grandi prosatori dell’Ottocento insinui in questa realtà un’altra, che ne nasca una metamorfosi, orrorifica quanto voluta. L’insicurezza però, di questa tesi in parte accettabile, viene nel momento in cui la totale amoralità, il compendioso stile e soprattutto quell’insana e soffocante incapacità a sostituire, a sublimare, non permettono di realizzare un’immagine rivelatoria, allegorica del suo narrare. Forse le invenzioni che più gli premevano erano proprio le interruzioni, le sfiducie, le umiliazioni, oppure le catene di errori che incuriosiscono per la loro fallacia, i saggi della vita, i dati più prolissi e marginali che necessitano ironicamente di sintesi ancora più incomprensibili e finiscono poi per testimoniarne la volgarità, il valore improprio.

Ciò sta segretamente a reggere i suoi personaggi, suoi perché realmente ospitati, accasati, non per questo meramente autobiografici – di per sé sarebbe una riduzione agevole di perplessità, in più nessuna apparenza può dirsi tale, se non quelle frugalmente riproposte, dunque sfatate –; mai del tutto centrati, una stirpe anatomicamente o mentalmente scheggiata, tutti portatori di tare genetiche, in segreta parentela. Figure realizzate in seno all’astiosa realtà, finalmente fatte cozzare con il dato, che trastullano un passato, goffamente non aderiscono al presente, che stornano bellamente il futuro, si curano dell’esaurirsi, del seccare i liquidi e pure i dolori. Avventurieri in tempo di vergogna, spiriti reduci da un brutto tiro o da una dispersione, scopritori improduttivi dell’umano mistero e vuoti a contenerlo; magici nell’atmosfera della loro derelizione evocano spettri, millantano di annullarsi ma l’ombra li riavvolge.

Le donne invece, se mai ebbero fisionomia o positura reale, patteggiano con altri mondi, stanno con le apparizioni e non coi discorsi, conoscono questa forma di rincretinire e nel limbo della dolcezza, del desiderio si lasciano soverchiare, quanto basta per rendere banale e fiacco il soverchiatore. Dimostrano così una certa praticità, un uso nel non essere maneggevoli, quasi zelo. Materialmente si affliggono ma quello che possono è superiore al proprio stadio, superiore anche alla possibile vuotezza o verità loro; come mostrarsi possono pure istituirlo o lasciarsene corrompere, dando arie vagheggiate, infanzie irresistibili, ma il duro debito lo scontano troppo misteriosamente, presso luoghi che non si incontrano. Hanno maggiori ragioni per vivere? Forse ne trovano più facilmente eppure mistificano, con la stessa facilità, il diritto di morire, di esistere. 

Senz’altro è il caso di accennare alla tanto riconosciuta fantascienza, che vale quasi la metà della fama concessa a Landolfi, quella del racconto lungo Cancroregina o dei brevi come Un concetto astruso, S.P.Q.R, Roboto accademico e molti altri. 

Nei diari appare l’interesse ludico per la lettura di testi fantascientifici, romanzetti di basso rilievo e assai economici le cui disposizioni non sono difficili da immaginare: viaggi stellari, materie criptiche e sfavorevoli, presagi apocalittici, invasioni aliene, macchine affrancate dall’umana intenzione e naturalmente distopie, con quel fine sottendere ad un potere tanto rassomigliante a quello comunista, o meglio alla sua estensione galattica. Nel landolfiano caso non c’è da aspettarsi nulla di simile, anzi più che di fantascienza potremmo parlare di bislacca scienza, una scienza di maniera, di comodo, come noi aliena e omeopatica, un fatto psicofisico nella macchina perfetta. Potrebbe trattarsi di medicina, astronomia, scienza sociale, galanteria, come metafisica e addestramento. Si tratta di blaterare su un’astronave, di condurre docili signorine al trapasso amoroso, di indugiare ancora e ancora nelle veci dell’umanità; spesso voci ridondanti, comunità in possesso di presupposti, stilano danni e nominazioni infinite, senza verso; si tratta magari di fare scuola, conferenziare; come qua insomma, o altrove, una riproduzione infinita, un metodo annoso e ormai proverbiale di scienza.

Si prospetta un’eternità disperata di studio, un’atmosfera parlante di studiosi e tecnici, una grande operazione di civiltà volta a non intervenire, ad analizzare il superstite; quasi un’epopea archeologica di plagio, di indicazioni sempre meno chiare su vissuto e vivente. Non più chiare le fonti, né la provenienza di chi parla, chi trascrive o scrive addirittura, partendo da un insulso e danneggiato movimento di vita. Nessuno sa se sia stato un abbaglio, qualcuno si attacca pure al fatidico atto, non senza previa specializzazione.

Tutto ciò è più dello scongiurare un progresso tecnico che ci deformerà, più che lanciare un allarme, perché l’imminenza è oziosa, lenta, a tratti impercettibile, siamo già su Marte oppure non lo siamo ma quel che procede è in circolo ed è un atteggiamento d’amare, di imbrogliare i fili maledetti, di sperare, un automatico connubio, provvisorio, che è inutile eppure non osa gettarsi a vuoto.

In fondo tutto quel suo fingersi privi di sapienza, esser solo capaci di scommettere, di sognare il buio e la variegatura del buio, di bruciare con ogni atto le combinazioni, dunque sostarne al principio, all’abbrivio ideale; questa scaramanzia, questa frivolezza del sublime rivela un tormento di fenditure, di spaesata pietà («[…] uno dei miei temi fondamentali, benché mai affrontato francamente.»), che è nel dissimulare come nel proferire eccessivamente, nel passare da un incubo ad un freddo sentore di spada, da un minimo meccanismo di tortura quotidiana ad una massima trafila scettica; creature abusate, temporeggiamento sinuoso nell’abuso; pietà nel denudare e nel distorcere, voluttà dell’intenerimento e a seguire immediata suggestione di abominio. 

Basti pensare ad un uomo con la gamba di legno e con un malanimo verso l’intero genere femminile (L’eterna provincia) che nella volontà di scegliere una vittima, sedurla e poi atterrirla mostrando improvvisamente, al culmine dell’intimità, quel segno disamorevole e raccapricciante, si trova innanzi tutta la generosità di lei, tutta la condiscendenza malefica, snaturante, che non solo distrugge il proposito ma rende innocua quell’unica arma, la sua indisposizione stessa alla realtà. Questa devozione persa e insensata è già pietà, senza che nessuno ne sia direttamente coinvolto o addirittura graziato. Così la giovinetta dai capelli meravigliosi (L’eclisse) che una volta sciolti possono sostituire completamente il di lei vestito, tanto si dilungano. Sarà menomazione, insulto o grazia, codesta sua parvenza, senz’altro necessaria al pudore? Quale mostra è priva di rinuncia, di rammarico per l’incerta presenza? In una sera di eclisse spogliarsi, mostrare tutto ciò, sotto richiesta, a due affascinati può rivelarsi incauto, febbrile quanto basta ad una mortificazione. 

Spesso bestie o esseri a metà, fantocci, spiriti, fantasmi, sono al centro di questi atti fobici e martellanti; l’animale che spezzato ritorna, pestato ingigantisce e i suoi tratti sono sensi imprescindibili, i corpi presi e mal ponderati, solo sembrando si esprimono. Nell’accudire come nel turbare è il medesimo viluppo, un misto di scoramento e terribile protervia. In ogni stanza, sala, salone, andito, con codesta smania, quasi caricatura d’affezione, si inebriano certi falsi segnali: quello che era un attimo prima in procinto di trascendere le sue forze e l’indice di creatura mancata.

Sullo sfondo di qualsivoglia predilezione non può che esserci la provincia, luogo di rinuncia all’interrogatorio, alla dimostrazione; in cui ogni colloquio è un’intromissione, un vizio mal gestito di ricerca, ogni visitatore uno spronatore solitario, al massimo un venditore o relitto; luogo in cui inesorabilmente al presentito non segue mai un incoraggiamento, uno sviluppo. 

Insomma «non dovrebbe essere fulgido ciò che è mostruoso e mostruoso ciò che è fulgido?». Le cause, così come il nobile e saggio scopo, sono pressoché inammissibili, per volere dell’autore ovviamente, per volontà che non ha voluto e non vuole.

Blu Temperini

Gruppo MAGOG