Se già come narratore è una palude graveolente di aggettivi-rospi (leggetevi lo schizzinoso Rien va), figuriamoci come poeta. Tommaso Landolfi (1908-1979), condor austero ed esiliato della letteratura italiana, è diventato da un po’ uno struzzo pop. Colpa di Italo Calvino, che nel 1982 cura un’antologia de Le più belle pagine (in catalogo Adelphi), per dimostrare quanto è bello leggere Mister Illeggibile, oppure di Franco Battiato, che nel 1989 canta «la vita cinica ed interessante di Landolfi» (per la cronaca, la canzone è Mesopotamia, l’album Giubbe rosse)?
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Dello scrittore «molto bello e molto pallido» (Natalia Ginzburg) ormai non si può non parlare negli educati circoli dei letterati italiani, e questo rende Tommaso più antipatico di quanto non lo fosse (davvero) quand’era ignoto, ignorato e desideroso di esserlo. Restava da scoprire, appunto, il Landolfi poeta. Lo cacciai fuori dagli armadi nel 2007, quando il Saggiatore mi commissionò un’antologia di Maledetti italiani: poeti fuori dai canoni, fuori dai denti calorosamente odiati dai colleghi meglio piazzati nelle italiche Università. Per questioni di diritti Landolfi non fece parte del mucchio selvaggio: lo sostituii con il più algido Federigo Tozzi. Successivamente, i diritti sono venuti al pettine: l’editore Adelphi ha pubblicato Viola di morte (2011), la prima raccolta poetica di Tommaso, edita nel 1972, a cui seguì, nel 1977, in quanto «grave e terribile seguito» (parole sue), Il tradimento (ora Adelphi, 2014), libro ben più bello (che tra l’altro, per quel che conta, ottenne un premio Viareggio).
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Causa invasione di campo, i poeti alzarono la gamba sui mefistofelici stinchi di Landolfi: per Dario Bellezza (da che pulpito…) il tema della poesia del draculesco Tommaso «è scontato in partenza», il tono «è basso, imparaticcio», i versi ustionati da «orgoglio luciferino». Eugenio Montale gorgheggia come scaltra gazza parlando di uno «scrittore tutto di testa, d’immaginazione, non di fantasia, un po’ cabotin, un po’ bel tenebroso, stilista di gusto antiquario, quasi mai in presa diretta con la vita»; Edoardo Sanguineti precisa l’accusa: trattasi di «letteratura come morte». C’è da dire che Landolfi, traducendo Lermontov e Puskin, dimostra di essere poeta più di cotanti esperti col colbacco.
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Tuttavia, per carità, Tommaso è quello che è: ficca il dito nella purulenta piaga del male, del dolore, della morte, con annoiata posa, raspando l’ulcera di Leopardi, rischiando nella sua poesia esasperazioni ultraretoriche. Il passepartout ce lo offre Giorgio Manganelli (altro scrittore complicato come un rebus proposto a un ciuco), che nel 1975, cioè tra un libro poetico e l’altro, definisce Landolfi «scrittore notturno, un bizzarro abitatore degli anfratti della retorica […]. Scrittore da grotte, favolatore di astri, di macerie di cunicoli, zoologo di animali mostruosi, cosmici, pianeti animali, botanico di veleni rari, nobili».
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Nei versi – aguzzi e arguti come di un Lucrezio cresciuto tra i fasti di Pietroburgo, ad abbronzarsi tra lampadari di applausi – Landolfi si scaglia contro la bolsa eccitazione degli scienziati («Ogni scienza ci è avversa/ E ci delude»), diagnostica la fine della poesia sfrenata, ridotta, dalla tecnica, a mero sonnifero, bieco anestetico: «Come potremmo ormai/ Cantare i fiumi, il vento, le foreste,/ Od anche il rosso Marte,/ La nebulosa Venere,/ E Giove occhio-di-pianto/ Senza sentirci frusti come/ Colui che viaggi nella propria stanza?». Ancora oggi, è un’ancora per salvarsi dagli ottimisti a tutti i costi – cioè: i cretini di professione – dagli ottimati della lirica, mai all’altezza delle proprie intenzioni estetiche, della bruta vita. (d.b.)
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I dolci cuccioli di foca
Che sul ghiaccio vomitano sangue,
I cani dalle corde vocali
Segate: non son, queste, maledette
Immagini della razza umana?
Ah, possa tale razza languire
E spegnersi in un arido mondo
Ove la sua prole bruci
O si consumi per freddo
E nessuno porga orecchio
Ai suoi lamenti, e piangano le madri
E invano chiedano remissione
E invano anelino che duri
Il loro pianeta silvestre
E invano chiedano umido conforto.
Morte con morte sia pagata in questo
Atroce gioco di vita e di morte.
Tommaso Landolfi