Ai bambini si narrano le favole per farne adulti acuti, per affinarne l’intuito o forse solo perché così s’è sempre fatto. Nell’incanto luminescente prodotto da un folletto o nella magia di una fata si può, per la prima volta, osservare riflesso il loro desiderio di scoprire segreti, la loro innata fascinazione per il mistero e il crescere della spasmodica attesa per le sorprese, per i mutamenti improvvisi ed inaspettati degli eventi. L’innata curiosità che li agita, di solito, rende facile il compito del narratore, che non deve fare molto per coinvolgerli – il più lo ha già fatto l’autore distribuendo le parti del copione – ma un enigma resta certo irrisolto per qualsiasi adulto che abbia svolto il compito almeno una volta nella vita: perché un bambino richieda incessantemente di sentirsi ripetere la fiaba, più volte, fino allo sfinimento. Ebbene, il tormento che una giovane creatura infligge con quella sua profusione di energie non è, perlomeno in quella occasione, volta a placarne l’innato egoismo, ma a convincersi fino in fondo di un accadimento nuovo ed imprevisto che si verifica in lei: l’incredulità nello scoprire come la fede nell’impossibile renda ogni cosa – possibile. L’inversione delle regole, che nel bambino è delirante gioia, puro sgomento da consumarsi nelle sconfinate praterie dell’infanzia, sarà un giorno il pilastro su cui costruirà la sua fede. E qualunque sarà la direzione presa da quel credo, verrà professato senza bisogno di prove né di forme da sottoporre al giudizio dei sensi. Semplicemente crederà, secondo il pieno significato di questa parola.
L’adulto che volesse recuperare il senso dell’arcano rapporto tra fiaba e fede, tra la paradossale buona sorte che sorregge il destino di chi abbandona ogni resistenza per affidarsi alla provvidenza, dovrebbe leggere Cristina Campo. La scrittrice, nella riflessione Della fiaba, contenuta nella raccolta Gli imperdonabili, mette a fuoco in poche pagine, ad un livello di ingrandimento straordinario, quella grandiosa affinità.
Ogni aspetto che riguarda la fiaba, andando a cercarne l’origine e lo scopo, ha a che fare con il mito, con la fede e con tutto ciò che di segreto e misterioso si narra e si scrive, dalla notte dei tempi, per mettere in scena l’orrore e la meraviglia, la parte misteriosa della vita che si cela agli occhi dell’uomo.
Qualunque storia che onori i protocolli del genere contiene in sé una premessa che imprigiona irrimediabilmente il protagonista in una situazione inaccettabile, sospingendolo verso un baratro, verso una svolta. Quello è il momento preciso in cui i doveri perdono il loro carattere impositivo e divengono possibilità, opportunità. Raggiungere la cima, completare la durissima ascesa su premesse assurde e incerte, inverte i valori del mondo. Come afferma la scrittrice, l’eroe della fiaba, una volta giunto al vertice delle sue fatiche, una volta visto l’esito della sua insensata e folle scommessa, scopre che “gli ostacoli si convertono in talismani”. Nell’Eneide, Virgilio si esprime con la frase “fortuna audentes iuvat”, riferendosi al favore della dea bendata, al privilegio di sentirsi sussurrare il suo conforto, al premio che attende, sempre ed irrevocabilmente, gli indomiti e gli implacabili che sfidano sorte ed elementi avversi. Quel che l’antica frase non dice sono le ragioni che rendono coraggiosi gli eroi, se non con una pallida allusione alla (vana) gloria. Lo fa invece Cristina Campo, spiegando che questi diventano temerari per la fiducia che nutrono in un favor, per il loro sapersi affidare e abbandonare completamente alla provvidenza; perché credono, senza dubbio né timore di smentita, che gli elementi e le potenze si chinano a soccorrere chi osa.
È il “salto della fede”, il gesto di abbandono che i martiri, il ladrone sulla croce e tutti i servi di Dio, chiamati ad un segno temerario, compiono nel momento in cui dichiarano di possedere l’assoluta certezza nel cuore che dall’altra parte di una impenetrabile cortina si trova già scritta e rivelata la verità che conforta il loro credo. La figura dell’eroe e dell’uomo di fede si sovrappongono anche nella percezione che il mondo ha di loro: si manifestano entrambi come dei folli, pronti ad agire in direzione contraria alla logica, preparati a regalare ciò che tutti vogliono tenersi e ad avere ciò che non interessa a nessuno. Il folle non chiede, semmai prende; non si difende, semmai va verso la spada.
Non va incontro ad un destino diverso il poeta, poiché egli è il nobile che veste (e vive) da mendicante. L’esempio del “farsi servo del proprio servo” rievoca di nuovo le Sacre Scritture e la lavanda dei piedi che Gesù praticò ai discepoli. San Paolo, prima di andare incontro all’inevitabile conversione, dovette perseguitare i cristiani a Damasco. Farsi padre della chiesa, apostolo del verbo, imponeva la scelta e (ancor prima) l’osservazione di ciò che il mondo esigeva da lui, per poi discostarsene. Agostino dovette implorare di ricevere le virtù tardivamente, per poter sfruttare il pregio di una vita peccatrice e spensierata, solo dopo accorgendosi che, giunto ai piedi della montagna, essa si deve scalare, perché il furore della fede e il timor di Dio lo impongono nel cuore.
Le rinunce alle gratificazioni, ai titoli, alla fama, alla gloria e alla ricchezza sono tipiche nelle storie dei santi – tra cui, su tutti, svetta quella del maggior santo, Francesco, icona della folle spoliazione dai beni materiali messa a servizio di una superiore meta. I santi furono poeti dell’era primordiale della fede, quando essa, ancora colta nella purezza del suo esprimersi, interrogava i suoi attori sul come dovesse profondersi da Dio a loro, e da loro al mondo. I grandi santi furono poeti, cantori, eroi ed attori di una fiaba, nella misura in cui invertirono i fattori, affrontarono l’ascesa come un ostacolo, prima, e come un percorso ricco di “talismani” propiziatori, dopo, nel “lato discendente della montagna”. La provvidenza divina, lo Spirito Santo, nei racconti biblici, non hanno agito sui loro protagonisti in modo diverso da come le fate buone e altre gloriose creature di fantasia hanno agito sui protagonisti delle fiabe.
L’inversione dei valori che la Campo afferma essere la chiave su cui la fiaba si regge, pretende la delegittimazione del “caro volto”, la violazione della regola, “l’apertura della porta vietata” e anche, dunque, il costringere il proprio cuore a “spiccarsi” da sé, come la turgida polpa di pesca fa, per separarsi dal nocciolo. E così, anche l’amore, nella fiaba, si dispone inizialmente alla tragedia, all’impedimento, al divieto. La storia e il mito di ogni tempo non fanno che muoversi esattamente in questo solco: e così Giocasta, la madre di Edipo, si toglie la vita quando scopre dell’incestuoso esito dei suoi legami; Ermengarda, ripudiata, si uccide per il secondo matrimonio di Carlo; Romeo si avvelena per aver creduto morta Giulietta. Il “caro volto, che contemplato, si dissolve in un grido” è l’incubo che alimenta la follia dell’eroe. Il vederlo dissolversi nella morte, un destino inevitabile.
Ogni fiaba, poi, ha un momento finale in cui le figure si ricompongono, in cui ogni fisica e geometria degli accadimenti torna ad asservire il principio originario dal quale era spontaneamente gemmata, prima che insorgesse la follia. Questo esito non si manifesta se non dopo la dimostrazione che, a seguire un’ascesa fatta di soli ostacoli, v’è sempre una discesa cosparsa di benedizioni e oracoli di buona sorte. Ma il cammino dell’eroe, sul secondo versante, non è ancora fatto di sole semplici scelte, perché molti presagi e meschini attori della storia si interpongono tra lui e il suo successo. La tentazione dell’assaggio di una mela rossa e lucida alla inconsapevole Biancaneve è l’inganno, la prova, la caduta che dispone ancor più all’ascesi, rendendola inevitabile e grandiosa. La somiglianza con questo motivo ricorrente della fiaba e le tentazioni del demonio nel deserto è chiara e diretta. La dissuasione, il tranello, il machiavellico ordito intellettuale volto a fuorviare l’eroe sono i motivi ricorrenti nelle storie bibliche come nel mito antico e sono riprese convintamente da celebri scrittori, prosatori e poeti dell’età moderna, da Shakespeare a Manzoni, tra gli altri.
Tragedie e leggende, tuttavia, aspirano ad un esito narrativo conforme alle loro premesse, mentre la fiaba si affranca completamente dal mondo e da ciò che esso si attende dagli uomini. La rivelazione degli aiuti all’eroe che crede nell’impossibile, la scoperta delle armature che lo possono proteggere e dei sortilegi che ne possono incrementare le forze giungono sempre come l’occasionale gesto favorevole della sorte, si presentano sotto le inusuali vesti di una benigna creatura. La comparsa dei segnali e degli indici che sostengono l’eroe ha simmetriche figure nelle storie bibliche: la provvidenza, lo spirito divino che invia un messo angelico a trattenere la mano di Abramo che sta per accoltellare Isacco, San Michele che schiaccia il demonio con i piedi. Come dice Cristina Campo “non v’è altro da imparare su questa terra” se non ad essere nel modo in cui è l’eroe, ad essere nel solo modo in cui cosa che si ritiene miracolosa accade, pur se non chiamata. Prima di tutto, l’eroe è aItro da sè, è una creatura che, anticipando gli scomposti gesti del pavido, ha risolto la cieca affezione alla vita, ha sciolto il vincolo a sé e alla sua conservazione, in favore del voto sacro ad una verità che lo supera. La vittoria sulla legge di necessità, sulla protezione assoluta della vita è l’unica via per l’eroe di intravedere il “nuovo ordine di rapporti” di cui parla la scrittrice.
L’epilogo della fiaba, il momento chiave in cui l’esito si trae, magicamente, e il lettore intuisce l’ingrediente mancante del successo, è la “scelta”. Di fronte a due opzioni per risolvere un enigma, per respingere una tentazione o per salvare l’innamorato, l’eroe e l’eroina mostrano tutta la smisurata dimensione di potenza che vive in un cuore libero, affrancato dai vincoli della carne. Nelle prove della fede, si incontra lo stesso bivio quando il santo incontra il demonio. Quest’ultimo, espressione plastica della concessione che Dio fa all’uomo del libero arbitrio, può sviarlo, confonderlo, tentarlo, ma mai costringerlo. Nemmeno Dio può, e questo se lo auto-impone, per fare dell’uomo una creatura piena, tridimensionale e soprattutto – libera. L’angelo caduto deve esistere per distinguere l’eroe dal dannato. Il primo, a differenza del secondo, è colui che sa compiere il gesto liberatorio di “anime costrette”, a suffragio e salvezza di tutti gli uomini. Su questa dote dell’eroe si staglia l’intero racconto della passione di Gesù, della salita al Calvario fino alla crocifissione. In essa, infatti, si consuma l’incontenibile missione redentrice del Cristo. La vicenda che si origina dalla mancata fuga di Rabbi Iesu Ben Iosef è il gesto folle dell’uomo che, in spregio alle regole che lo vorrebbero schiavo delle sue paure, pienamente posseduto dagli eventi e fuggiasco per una sua predicata reità, contrappone una disarmante autoconsegna. La Bibbia mette in scena, nella storia che sta al centro della cristianità, la vicenda di un cuore libero, capace di svilire a gesti privi di valore la meschina scelta di Pilato, l’ipocrita accusa di Caifa e l’infame tradimento di Giuda.
Dostoevskij, ne I fratelli Karamazov, ritorna sulla figura di Cristo per inscenare la stupefacente Leggenda del grande inquisitore. Nel racconto si assiste alla vicenda di un Gesù-eroe redivivo che ricompare sulla terra ai tempi della santa inquisizione spagnola. Per rispondere ad un inquisitore furente per il suo ritorno, che lo minaccia del rogo qualora osi manifestarsi nuovamente al mondo, delegittimando così l’esistenza stessa della Chiesa, Cristo replica con un bacio. L’eroe disfa sempre i piani dell’antagonista e in ogni fiaba lo fa in modo diverso, improvvisando, applicando ad un evento la tesi opposta al buon senso. L’eroe non combatte guerre, ma distrugge certezze, mostra una verità che si presenta in molti modi ad ogni occhio. Così Gesù invoca il ritorno alla vita di Lazzaro di Betania dicendogli: “Lazzaro, vieni fuori”; e così, come ricorda Campo, il ragazzo che deve vincere con il gigante la gara del sasso tirato più in alto, sceglie di liberare un uccello verso il cielo.
Quando giunge il momento di ricomporre gli eventi per asservirli al principio da cui si è originata la follia, si scopre infine un eroe diverso, che sa ormai operare su due piani: quello in cui accadono le vicende del mondo e quello in cui si verificano i fantastici accadimenti che solo la follia devastatrice può generare. Le facoltà dell’eroe si fanno allora più trasparenti, leggere e inavvertibili, ma più pregnanti e dense di spirito perché capaci di onorare il principio di realtà. Una sotterranea riconciliazione è in atto. Le prodezze, le sfide e ogni altra prova sono alle spalle, una imminente resurrezione è alle porte. La potenza incantata dell’eroe è adesso nella sua capacità di cogliere, nei “rapporti invisibili” tra tutte le cose, il vaso che irrora la salvezza. Il segreto ultimo della fiaba si rivela quando una benevola creatura spende la sua magia per compensare il peso e la gravità degli eventi in favore di uno scenario che non nega il sacrificio, ma legittima sempre la fede incondizionata: è il potere di “palliare il malefizio mutandone la natura”, senza mai annullarlo. Un voto, una vocazione che non è supplica e non ha nulla di magico. È il momento in cui la fiaba si cala nei giorni e diviene verità indiscutibile: quando si ri-onorano i rapporti naturali degli elementi, ma con un rinnovato sguardo. Qui l’eroe della fiaba diviene eroe del mondo. E, come già narrarono molti santi e poeti, l’anima dell’eroe, nel suo disgregarsi alle ultime cose, confessa la conclusione del proprio percorso di metamorfosi, riconsegnandosi alla vita e alla morte in quella rinnovata veste.
Riccardo Peratoner
*In copertina: Francesco del Cossa, Santa Lucia, 1472