Le chiamava “i fiori senza stelo”, a rievocare un fluttuante ed effimero splendore che si regge nel vuoto su contrastanti moti di forze invisibili. Da tempo, Guido Gozzano osservava e incubava farfalle con la cura dell’entomologo. Ne stava facendo anche poesia: il poema Le farfalle,che rimarrà incompiuto.
Quali simboli perfetti di una fugace bellezza, metamorfosi del travaglio, Guido volle farne dono alla donna a cui, da un paio d’anni, era legato in una travolgente amicizia amorosa e in un intenso rapporto epistolare nutrito di “presente assenza”. Così, un giorno, Amalia Guglielminetti vide recapitarsi bruchi:
“Allevo una straordinaria colonia di bruchi. Voglio ritrarne alcune osservazioni e molte belle fotografie a commento di un libro di storia naturale che sogno da tempo: Le farfalle. Vi attenderò dopo il volume di versi: ma comincio ad adunare materiale di testo e d’illustrazioni. Vedrete che cosa nuovissima e bella. Immaginatevi che in una cassetta ho circa trecento crisalidi di tutte le specie, ottenute da bruchi allevati con infinita pazienza, per settimane e settimane; ora si sono quasi tutti appesi al coperchio graticolato e hanno presa la forma strana di crostacei stilizzati pel monile d’una signora. Fra pochi giorni saranno farfalle. Anzi, voglio mandarvi qualche crisalide: non ridete, vi prego. Mi attira il pensiero che si schiuderanno nella vostra camera, tra i vostri nastri e i vostri profumi. Estraetele dalla scatola dove ve le invierò, SENZA TOCCARLE, sollevando PEI LEMBI il COTONE dove sono adagiate e deponetele senza smuoverle dal letto di cotone in una scatola più ampia, dove la farfalla nascitura abbia sufficiente spazio per distendere le ali. E lasciatele in pace, come bimbi che dormono: senza toccarle, né agitarle: fra quindici giorni nasceranno. Mi scriverete e mi descriverete i loro colori; e mi direte che v’hanno detto da parte mia le belle prigioniere, addormentate in questa valle e risvegliate sui colli di un paese lontano, dall’altra parte del Piemonte… E non sorridete tanto di queste cose, più belle e più profonde di molte altre, per consolare la nostra malinconia…” (3 settembre 1908).
Le scrupolose indicazioni sul trattamento delle crisalidi denotano non solo una particolare attenzione alla loro fragile bellezza, ma piuttosto una devozione. Affascinato dalle farfalle fin da piccolo, Guido le rincorreva nei prati di Agliè: “Sono creature perfette”, scriveva all’amico Ettore Colla, “non vivono che un giorno di sole, ma la loro vita è tutto un trionfo di bellezza e d’amore; col tramonto è la morte”. Oggetto di un suo doppio interesse, vuoi poetico che scientifico, le farfalle appartengono al suo più intimo mondo interiore e la condivisione con Amalia vuole librarsi in un volume epistolare, come le spiegherà più oltre, per introdurla nelle sue terre più care “fatte di osservazioni filosofiche nuove e di fantasie curiose e fanciullesche”. La sua richiesta, quel suo “mi direte che v’hanno detto da parte mia le belle prigioniere” pare l’enigma d’ingresso nel suo cielo, una richiesta che suona come una sommessa – eppure turbinosa – dichiarazione d’amore non pronunciata, bensì trasfigurata. Quelle farfalle dai mille colori che stanno per schiudersi cosa avranno detto ad Amalia?
Giacché le sue risposte non ci sono pervenute, possiamo solo immaginarle ed attribuire loro la stessa embrionalità di una crisalide. Saranno state quasi parole nuove e – quasi – un tripudio di stupore di fronte all’ignoto. Le farfalle, come foglie d’autunno, non vanno forse cantando d’una fugace estate, ancora da vivere, ancora da sognare? Non vanno forse mostrando, nel loro furtivo e ovattato battito d’ali, quanto sono sfuggenti le cose più belle, rapidamente distratte alla nostra attenzione, facilmente danneggiabili da un gesto incontrollato? Sono i doni silenziosi di una natura talvolta impietosa e brutale; sanno rendere cristallino il senso di un fragile equilibrio, di una legge che pretende la bellezza distrutta, per essere veduta, e il piacere perso, per essere goduto.
Il gesto di Gozzano, nella sua grazia, nasconde un dono luminoso ed oscuro nel contempo, tanto pregno di simbolismo quanto una gestante è pregna del suo feto. Mettere nelle mani della donna amata – malgrado le esitazioni esistenziali – la vita che è predisposta a generare, significa scoprirne il volto, la seconda anima. È una mossa enigmatica che ha quasi il sapore di una strategia di seduzione: “Le mie crisalidi sono tutte farfalle!” le scrive esultante il 17 settembre, qualche giorno dopo il primo invio.
“L’ho scoperto oggi, attraverso il reticolato del coperchio: ho chiuso le finestre e aperta la scatola ed è stato, nella mia grande camera chiara, un frusciare turbinoso di prigioniere sbigottite. Sono cento, più di cento: e tutte vanesse; Vanesse Atalanta, e Vanesse Io. Invio l’una e l’altra a Voi: meditate sulla loro bellezza, l’una è fatta di brace e di tenebre come certi Vostri sonetti, l’altra ha lo sguardo dell’ira e dell’angoscia. E v’unisco accanto le due spoglie vuote, miserabili come silique aride, perché consideriate il prodigio, Amica mia…”.
Le parole traducono i sentimenti contrastanti che albergano nella rinuncia e nella sublimazione dell’amore, incastonate tra i due invii “devo far violenza a me stesso per sottrarmi alla tentazione d’un passo con Voi, passo imprudente e prematuro, credetelo.” (9 settembre 1908). Pur amandola, le restava a distanza, forse per non trascinarla nel proprio destino, minato dalla tubercolosi, insorta – per ironia della sorte – in concomitanza al loro incontro.
Da questa rinuncia – voluta e insieme sofferta – nasce una dolce e rocambolesca malinconia del domani, di cui le lettere, vergate in sublime poesia dell’amicizia, sono struggenti testimoni. Tra inediti non datati, che riportano chiari risvegli d’amore, si arriva all’ultimo biglietto di Guido: l’ennesimo, forse tardivo, richiamo – di ritorno dall’India: “Ci vedremo?” (4 ottobre 1912).
Forse si giunge solo tardi, troppo tardi, a capire che nessuna dote può surrogare ciò che può essere creato in due. Forse perché in due non vince la somma delle unità, ma la dinamica di relazione, il mettersi alla prova in un gioco reciproco: un obiettivo non raggiungibile con una colorita finzione, nemmeno dalla mente più brillante. Giungere ad un’inconsolabile solitudine, meno dura da sopportare solo perché non c’è speranza né aspettativa di essere felici, forse può essere la chiave per un’ispirazione magistrale e per la composizione di superiori opere d’arte, ma non quella per misurarsi con la vita e il grande compito dell’amore. Alla fine del carteggio, Guido pare esserne consapevole, ma non è possibile sapere se abbia mai avuto modo di chiarirlo. Qualcosa, di quell’incontro, sfugge alla comprensione e alla testimonianza della memoria, consegnato per sempre alla sacra sfera dell’invisibile.
Marilena Garis e Riccardo Peratoner