Nel nuovo libro di Chandra Candiani Sogni del fiume (Einaudi, 2022) ci accoglie una prefazione che l’Autrice dichiara essere stata scritta anni prima, al tempo della composizione delle quindici fiabe che formano il volume, magnificamente illustrato da Rossana Bossù. Vi si trova una precisa ricognizione di che cos’è che fa fiaba la fiaba. Cioè del consistere di quell’istante extra-ordinario in cui tutto ciò che fino a quel momento è stato descritto nei minimi dettagli come ordinario di colpo scatta di livello e diventa oggetto di una trasformazione radicale: “e così quasi senza parere, ci si ritrova a ricevere ottimi consigli da un bruco o a vedere un coniglio che guarda l’orologio o una zucca che si trasforma in carrozza e tutto sembra possibile perché ormai si sente che i miracoli avvengono negli occhi di chi li vede” (corsivo nostro).
Ecco dunque una possibile chiave di lettura o rotta esplorativa o filo rosso dei quindici racconti, in forma di domanda: quand’è che l’ordinario si stacca da sé per diventare extra-ordinario? Forse quando ci accorgiamo di ciò che solitamente non notiamo? – e non lo notiamo perché non ci sembra mai altro che la promessa di un accadimento che non vuole accadere mai? Così certi oggetti, certi scorci, certe luci, certi ambienti, vivificati da un’attenzione rinnovata si espandono, e in quell’istante extra-ordinario, si – e ci – illuminano.
In una di queste fiabe c’è la pattumiera che parla e insegna ai suoi rifiuti ad abbandonarsi alla trasformazione che stanno per subire. Non solo, ma fornisce memoria di ciò che sono stati prima di diventare umile scarto, e soprattutto di ciò che saranno dopo, quando giungeranno, alla fine di un lungo percorso:
“all’ultimo luogo, quello a cui tutti noi tendiamo, anche gli esseri umani, anche le stelle e le montagne, i ferri da stiro, gli amori, i libri, i sogni, i mondi, le biciclette e i vulcani: la polvere”.
Quand’è che un martedì qualunque diventa proprio quel martedì in cui sta per succedere qualcosa e insieme non sta per succedere nulla di che? Quand’è che un 1° marzo qualsiasi spinge il tramviere a gettare il berretto in aria colto da improvvisa contentezza? Quando la gente si accorge del silenzio di Milano o della musica che scorre nei capelli di un bambino? In uno di quei precisi istanti di metamorfosi. Ed ecco che in quei momenti vediamo agire qualcosa; un’onda di energia cala e cambia tutto, sono attimi di verità, qualcosa che è sempre stato lì, sulla soglia dell’accadere; ma è la nostra attenzione che, per dirla prendendo a prestito il linguaggio della fisica dei quanti, fa “collassare” l’evento.
E come si fa a spostare in quel modo l’asse dello sguardo? I personaggi di Chandra sono indubbiamente dotati di questo talento o grazia: sembrano non sapere nulla, sono soli, paiono in balìa degli eventi, invece di colpo ci accorgiamo che dentro di loro dorme qualcosa, come una sorta di “sicurezza degli inadeguati” che scatta, a un certo punto, e li fa saltare in un mondo dove l’opposizione stessa adeguato/inadeguato si annulla perché si entra nel flusso della realtà: come la bambina che una notte, dopo un “sogno affollato”, “aveva tracciato un arco nell’aria con le lenzuola e senza esitazione si era infilata stivali e giacca a vento, era scesa al fiume e aveva cominciato a corrergli accanto” e che riconosce nel fiume un “essere destinato”, che segue il suo corso”, lei che non può amare gli uomini “perché non hanno più destino, non seguono alcun disegno, sono travolti”.
Le fiabe di Sogni del fiume sono uno sgorgare di momenti così, in cui l’ordinario più ordinario cambia di segno, ma senza enfasi, anzi con il più invisibile dei mutamenti, così invisibile che ci vuole una grande poeta perché ce ne si possa accorgere.
E su tutto aleggia la presenza di quella che si può intendere la più radicale delle trasformazioni, la morte; ma è una morte che arriva, si potrebbe dire, per eccesso d’amore; o meglio: l’amore apre alla consapevolezza dell’impermanenza delle cose, e dunque alla morte come risultanza della legge del mutamento costante: il fiume che si getta nel mare e la bambina che “a braccia spalancate” accoglie “il suo corpo d’acqua e velocità”, mentre “ogni sua cellula urlava: ti riconosco”. Il cavallo alato, che vola via sempre un attimo prima di incontrare tutto lo sgradevole della vita ma che, dopo una sequela di incontri, perde le ali e trova l’amore – ma per i due bambini che un mattino lo scoprono inerme sulla spiaggia è sì un cavallo innamorato però anche “un cavallo morto”, il che “è lo stesso”. E la rosa “che non credeva più nel vento”, dopo un’attesa che si fa rassegnazione e indifferenza, lei dal vento nata e tradita, viene sradicata alla fine dal vento africano ed eternata per la gentilezza del suo sonno in rosa del deserto. Chandra Candiani sembra dirci che la morte entra a far parte della vita senza apparente interruzione, come in un continuum dove ciò che conta è riunirsi con qualcosa che ha il respiro del cosmo, attraverso l’amore.
E questo cosmo, dove tutti i piani si intersecano, tutte le creature si parlano, tutti gli oggetti e gli esseri si corrispondono, si manifesta sulla pagina in grappoli di associazioni, in un turbinìo analogico di immagini e di sequenze che poi posano in finali dove ancora ci sorprende uno scarto repentino, o un piccolo coup de théâtre, oppure calano in tono minore, con il fraseggio di un tramonto.
Dolore e gioia si conglomerano variamente di racconto in racconto dando vita a cristalli di immagini. Come nella fiaba (posta, significativamente, in apertura) della bambina che voleva essere fiume: “e il modo in cui aveva pensato di realizzarlo era correre con lui, al suo fianco, fino al mare”. La corsa della bambina è quasi una danza, libera, forsennata; una celebrazione si può dire dionisiaca delle forze archetipiche e naturali. Come se la “danza” di questa bambina – come di altre che incontriamo nell’opera di Chandra – che sia corsa, volteggio o volo divenisse figura di un impazzimento gioioso del corpo, che risana. E, sullo stesso piano, sentiamo anche la durezza della sua condizione:
“c’erano certe notti di ghiaccio in cui la bambina con le unghie incideva sul corpo del fiume il suo «Sono qui»”.
Come non vedere in questo passo, in trasparenza, un’immagine della condizione del poeta, e dell’artista in generale? Questo danzare che risana, questa gioia, ha il suo contraltare nella caparbietà di sapere incidere, nei momenti di gelo, sul ghiaccio, il proprio “ci sono”: un atto che risponde a una necessità etica, perché non si è, non si vuole essere, spettatori al sicuro sulle sponde dell’accadere.
In questo esprimersi del poco o del niente, in questo prendere parola di ciò che non viene notato eppure è noto, ma è il suo essere troppo noto la ragione prima del suo non essere notabile, sta il segreto di queste fiabe. Ed anche, a ben vedere, il segreto della poesia di Chandra Candiani. È in quell’istante archetipico in cui tutto sembra convergere in un attimo di pura presenza spaziale, corporea, temporale, percettiva, mentale, cui il poeta accede per accensione, per attenzione, per immobilità atemporale, che comincia a nascere quello che poi egli cercherà di tradurre in versi. La traduzione di quel momento avviene per stratificazione di silenzi, per accettazione di assenza del parlar comune, distratto, automatico, e di assenza anche del parlar colto, raziocinante, facendosi cavità in cui cogliere esattamente echi da quell’attimo.
Il flusso della narrazione di Chandra Candiani, quasi come un’anticipazione di quella che sarà la sua poesia successiva (ricordiamo che le fiabe sono state composte “molti anni fa, quand’ero giovane e sperduta” dichiara l’Autrice nella prefazione), conosce salti, scarti, deviazioni, sussulti, gorghi, inabissamenti; nei finali poi spesso tutto si capovolge, non è una morale a emergere, ma un’immagine complessa tramata di un senso d’impermanenza e di compassione. Il fiume non scorre invano; l’usignolo non canta senza risposta; la musica felice non cala sugli uomini senza che qualcosa si smuova. E il vettore del cambiamento è sempre qualcosa di piccolo, di apparentemente inutile, invisibile. Abituati dalla politica alla liturgia opaca e pesante delle parole, specchio di un’impotenza cronica a provocare veri cambiamenti; abituati a un immateriale elettronico che pretende di incidere materialmente sulle nostre vite, ma le lascia svuotate di concretezza, la grazia immateriale delle fiabe di Chandra sembra davvero restituirci una paradossale concretezza. Del resto, i miracoli che “avvengono negli occhi di chi li vede”, sono concreti dall’interno perché deflagrano dentro. Così la “musica felice” cambia davvero qualcosa nel cuore degli operosi e soddisfatti cittadini milanesi; i racconti della pattumiera Gemma ai suoi residui ospiti paiono ristabilire una qualche forma di giustizia superiore, nell’orizzonte di un destino che si fa comune a tutte le cose. È una poetica del ritorno a casa, si potrebbe dire, dopo il viaggio, la scoperta, la conoscenza, profondamente tramate dalla nota dominante della compassione.
Ogni fiaba è come fosse uno spiritello che cala nell’orecchio del lettore e, sussurrando, lo fa presente a se stesso, mentre dipana le parvenze, cala e rialza i suoi veli, si riposa su una chiusa paradossale, fa cantare i residui di ciò che gli uomini consumano perennemente distratti, ci mostra bambine e bambini alle prese con ciò che si svela quando si è soli davvero, tanto soli che tutto comincia a vibrare solidalmente intorno come un canto, una intonazione comune.
C’è canto e silenzio, immobilità e danza in queste fiabe.
A un tratto sembra poi di scorgere una strana analogia tra quanto Chandra attribuisce di virtù trasfigurante alle immondizie buttate in pattumiera, e quanto alle stesse assegna uno scrittore apparentemente lontanissimo dall’Autrice come Philip K. Dick, quando considera il rifiuto tramite indiretto della manifestazione divina sulla Terra. In Ubik, e anche in alcuni passaggi de L’esegesi, questo nesso è evidentissimo: è nella cartaccia buttata, nel più vile degli scarti che alberga la voce divina. Per concludere, si potrebbe dire che esistono storie “dello stare lì” e storie “dello stare qui”. Le prime ti trasportano e poi ti lasciano, sono racconti pieni di avvenimenti, montati secondo un’esigenza di puro ritmo narrativo; ti portano fuori e poi difficilmente ti fanno rientrare. Le seconde ugualmente ti trasportano, ma mentre voli con loro senti che nello stesso tempo ti stanno sussurrando, “guarda dove sei”, e quando finiscono ti accorgi che il volo con cui ti hanno sorretto avveniva in un cielo interno: pensavi di essere in un altro mondo ma eri a casa, perché casa e altro mondo si corrispondono se coincidono con la presenza.