26 Gennaio 2023

L’opera della luce. Gli inni di Efrem Siro tradotti da Cristina Campo

Nel numero del gennaio-marzo 1977 di “Conoscenza religiosa”, la rivista diretta da Elémire Zolla, è pubblico, come Inni XXX, un testo di Efrem Siro tradotto da Cristina Campo. Il poema, estratto dal “Corpus Scriptorum Christianorum Orientalium”, è parte dell’opera postuma della Campo, cioè Vittoria Guerrini, morta il 10 gennaio di quell’anno. Alcune lasse hanno l’intensità dell’opale:

“Se si congiunge a una fonte di luce
l’occhio diviene luce,
sfavilla di quella luce,
si fa glorioso splendore
la cui bellezza lo adorna”.

“Nell’utero puro del fiume
riconosci la figlia dell’uomo
che concepì ignara d’uomo
che partorì senza amplesso,
che allevò, grazie a un dono,
il Signore del dono”.

“Come Stella dell’Aurora nel fiume,
il Risplendente nella tomba
balenava sulla vetta del monte
e nel grembo traspariva luce;
abbacinava risalendo dal fiume,
raggiava all’ascensione”.

L’inno è una variazione di luci, che si rispecchiano, bombardate sulle acque – come si può far vedere la luce scrivendo? Semmai, la traduzione di Efrem Siro va comparata alle ultime poesie della Campo, da Diario bizantino a Canone IV e Ràdonitza, che la accompagnavano, per altro, nello stesso numero di “Conoscenza religiosa”: “Diede ciò che qui si pubblica pochi giorni prima della morte”, dice la nota, con stola di sobrietà (tutti i testi sono ora in: Cristina Campo, La Tigre Assenza, Adelphi, 1991).

L’estrema poesia della Campo si dilata in inno, in angelologia lirica: diventa liturgica. Nata nel tabernacolo – Passo d’addio, All’insegna del Pesce d’Oro, 1956 – ora è messale, ammissione di volo:

“là dove la Bellezza,
la Bellezza a doppia lama, la delicata,
la micidiale, è posta
tra l’altero dolore e la santa umiliazione,
il barbaglio salvifico e
l’ustione”.

Dell’ultima fase della vita lirica di Cristina Campo, Efrem Siro è uno degli antichi maestri, dei lari. Nato a Nisibi – oggi in Turchia – intorno al 306, Efrem Siro, “arpa dello Spirito”, è considerato tra i grandi ispirati della poesia cristiana, teologo di genio, riconosciuto santo. Prima a Nisibe e poi a Edessa, Efrem Siro curò la comunità cristiana locale e costituì un gruppo di affini, che cercavano la sapienza tramite l’innografia. Fece la vita dell’ihidaya, cioè del solitario, secondo la tradizione siriaca, dell’asceta – morì il 9 giugno del 373. Con la lettera enciclica “Principi Apostolorum Petro”, papa Benedetto XV, il 5 ottobre del 1920, “proclama Sant’Efrem il Siro dottore della Chiesa universale”. Nella lettera enciclica è ricalcato il testamento di Efrem, come consegnato dall’agiografia, che ne definisce la postura spirituale:

“Io, Efrem, sto per morire. Con timore e rispetto vi scongiuro, o abitanti della città di Edessa, di non permettere che io sia sepolto nella casa di Dio o sotto l’altare. Non è conveniente che un verme, che cola purulenza, sia sepolto nel tempio e nel santuario di Dio. Avvolgetemi nella mia tunica e nel mantello che ho sempre portato. Accompagnatemi con i salmi e con le vostre preghiere, e degnatevi di fare spesso delle offerte per la mia piccolezza. Efrem non ha mai avuto né borsa, né bastone, né bisaccia, né argento od oro, né mai ha acquistato o posseduto beni sulla terra. Come miei discepoli, mettete in pratica i miei precetti e il mio insegnamento, perché non veniate meno alla fede cattolica. Siate saldi specialmente nei riguardi della fede; guardatevi dagli avversari, cioè dagli operatori di iniquità, dagli spacciatori di vuote parole, e dai seduttori”.

Secondo Gregorio di Nissa, Efrem Siro è l’emblema del poeta perpetuamente ispirato da Dio, fedele non perché uniforme, ma per obbedienza alla libertà creativa, perché coltiva le forme consegnate dallo Spirito. Sparpagliata qua e là – per lo più per le edizioni Qiqajon; L’arpa dello Spirito. 18 poemi di sant’Efrem è pubblicato da Lipa – l’opera di Efrem Siro è quasi introvabile in italiano. Nel volume dei ‘Meridiani’ Mondadori dedicato a La mistica cristiana (2020, a cura di Francesco Zambon) Sabino Chialà ricorda che “l’apice della sua produzione è costituita dagli inni” perché “si prestavano molto bene a essere cantati nelle adunanze liturgiche: in tal modo il grande teologo individua nella liturgia un luogo di trasmissione della fede che resterà centrale nella tradizione orientale”. Uno di questi Inni, il 50, mostra come la misura lirica sia lampada poggiata sulla soglia del segreto:

“Per quanto vorrei sentirti, Signore, non è ancora te che tocco,
perché la mia mente non può toccare niente del tuo Essere nascosto:
è solo un’immagine visibile, illuminata,
che io vedo attraverso i tuoi simboli; perché ogni ricerca
dentro il tuo Essere è misteriosa”.

Mentre leggiamo, con moltiplicata curiosità, i testi devoti di Rūmī, Hāfez, Farīd al-Dīn ʿAṭṭār, Saʿdi, ci intimidiscono i maestri dell’innografia, i grandi poeti cristiani, di cui Efrem Siro è la scaturigine, il maestro. Credo che ciò si debba a un frainteso: la poesia, si pensa, è l’alcova della libertà creativa, dell’individuo assoluto, che non si risolve nella prigione di un credo. Al contrario, è proprio la cornice del credo a liberare la creatività del poeta. La poesia liturgica, di per sé, non è minore: non conta l’aggettivo – esiste anche una poesia astronomica o una poesia detta femminile – ma l’altezza, la bellezza. Un individuo assoluto, è assolutamente vuoto: il poeta, perfino quello ignifugo a ogni fede, sta entro una liturgia propria.  

Una fede che inibisce al posto di ispirare non è fede ma burocrazia, statistica celeste, opera del censimento domenicale: talento che non esplode, ma ritorna, inalterato, al creatore. I grandi poeti persiani, i grandi ispirati inglesi – John Milton, John Donne, George Herbert, ad esempio – dimostrano che i testi sacri sono una fonte lirica inesauribile – se sono sacri, quei testi sono infiniti –, che si obbedisce creando. Jacopone da Todi è vertiginoso quanto Giotto, ed è triste l’epoca in cui i testi sono interpretati e mai intuiti, devastati. Nel suo salterio laico, Francisco de Quevedo narra l’erranza della “condizione mortale”, della vita “che scivola tra le mani…/ e nuova vita ottengo ogni giorno/ un tempo bianco che sorge tra le ali”, eppure:

“Ogni istante della vita umana
argomenta lo stesso concetto:
la vita è fragile, miserabile, vana”

Salmo XIX

Durante le sue sporadiche chiacchierate con il giovane Gustav Janouch, Franz Kafka sussurra:

“La poesia ha qualcosa della preghiera… L’arte è, come la preghiera, una mano tesa nell’oscurità, che vuole afferrare una parte della grazia per poterne poi diventare dispensatrice. Pregare significa gettarsi nell’arco di luce trasfigurante che congiunge ciò che è transeunte a ciò che avviene, fondersi completamente in esso, per portare la sua infinita luce nella piccola, fragile culla della propria esistenza”.

Come abbiamo perso i nomi degli alberi, delle stelle, così abbiamo perso di vista la stanza dove abita Dio: bisogna recuperare un gergo, un gesto, per avvicinarlo. “Bisogna mandare al diavolo l’onestà intellettuale… e imparare a parlare con Dio come gli parlavano i nostri antenati”, scrive Lev Šestov in un passo di Atene e Gerusalemme.

Mentre camminava, al fianco del suo giovane discepolo, Kafka inclinava leggermente la testa – sorrideva spesso. Non distingueva differenza tra le mosche e gli angeli.

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