Contro il conformismo dei letterati italiani e l’omologazione del gusto in letteratura
Politica culturale
Paolo Ferrucci
“Odio Osaka. Questo posto è diventato un vero merdaio”.
“In tal caso, facciamo in fretta”.
(il generale Toda Hiromatsu col suo signore Yoshii Toranaga in Shōgun, miniserie tv prodotta da FX, 2024)
Una nave alla deriva emerge dalla nebbia, le vele rotte, in un silenzio spettrale. L’equipaggio è affamato e stremato, il capitano si è tirato una palla in testa e John Blackthorne, il pilota, è l’unico a rimanere cosciente. La sabbia bianca che aveva raccolto con lo scandaglio annunciava l’approdo in terraferma: “Raggiungeremo il Giappone, rivendicheremo quella terra” aveva insistito, inutilmente. Partiti dall’Olanda con cinque navi e cinquecento uomini, si sono ridotti a quell’unico bastimento carico d’armi e munizioni, l’Erasmus, che appena tocca terra viene catturato da un drappello di armati. L’intero equipaggio è sequestrato, e il pilota Blackthorne – londinese protestante –, malmenato e a un filo dall’essere giustiziato su istigazione di un prete cattolico, si salva solo per un capriccio del feudatario Kashigi Yabushige che ordina di prendere al suo posto un membro della ciurma e farlo bollire in un calderone.
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Yoshii Toranaga, potente signore del Kantō, la regione in riva al mare dove si allevano i cavalli dei samurai, arriva col suo seguito al castello di Osaka, convocato dal Consiglio dei Reggenti, di cui fa parte. Indossato il costume rituale e il samurai-eboshi, il cappello a triangolo di tela nera inamidata fissato coi nastri sotto il mento, si presenta alla seduta conscio di ciò che lo aspetta. Inquisito, sospettato di voler accrescere il proprio potere – ha stretto alleanze acconsentendo a sei matrimoni e ha raddoppiato il suo feudo – viene di fatto messo in stato d’accusa e considerato ostaggio, per essere sottoposto a un giudizio che, a maggioranza, lo obbligherà a fare seppuku insieme ai suoi fedeli.
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Sono le fasi iniziali riprese da Shōgun, il celeberrimo romanzo di James Clavell uscito nel 1975, che venne prontamente portato sullo schermo tv dalla Paramount nel 1980 – con la fotografia, le scenografie e gli effetti che le tecniche di allora permettevano –, con un Toshiro Mifune al tramonto e un leccatissimo Richard Chamberlain (il padre Ralph di Uccelli di Rovo, come qualcuno ricorderà) nella parte dell’inglese John Blackthorne, il corsaro approdato all’alba del 1600 sulla spiaggia di Ajiro col suo mercantile armato di cannoni. Una trasposizione che, vista oggi, tradisce tutti i suoi limiti, soprattutto in confronto con la nuova sontuosa versione uscita quest’anno sulla piattaforma Disney+, che ha segnato un rialzo della qualità cinematografica verso livelli davvero prossimi alla perfezione. La cosa non deve stupire: benché sia tratta dal romanzo di un naturalizzato americano, sia prodotta dalla compagnia americana FX, sia stata scritta per la televisione da due americani, Justin Marks e la consorte Rachel Kondo, questa creazione s’è avvalsa di un battaglione di consulenti e collaboratori giapponesi talmente efficace da rendere l’impronta americana praticamente invisibile, dove la qualità del dettaglio e della drammaturgia e delle ambientazioni e degli scenari e dei costumi e della complessità dei personaggi principali viene elevata a uno stadio difficilmente eguagliabile. C’è chi ha fatto un facile parallelo con l’acclamata serie televisiva Game of Thrones, tratta dalle Cronache del ghiaccio e del fuoco di George R.R. Martin, dimenticando che, mentre lì si titilla la passione per il genere fantasy, dove si può tutto, in Shōgun il racconto è ispirato a vicende e personaggi storici, dove un’intera umanità si agita nelle pieghe e nelle profondità autentiche di una terra aliena e tragica, la cui eredità è ancora viva. Perfino i dialoghi dello script hanno passato varie fasi di traduzione in giapponese che ricreassero il linguaggio classico dell’epoca, oltre a tutte le cognizioni storiche, di usi, di ambiente: l’attenzione agli abiti, ai colori, alla postura, al modo in cui inginocchiarsi e tenere le mani, le ritualità, gli sguardi, come portare la katana e come rotearla per mozzare le teste; e al flusso emotivo dei dialoghi originali, con quell’espirazione in chiusura di frase che sembra far uscire il parlato dall’anima.
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Il punto di vista di John Blackthorne – figura che rievoca William Adams (1564–1620), il primo inglese a metter piede in Giappone – mantiene la centralità solo nelle prime fasi del racconto, poi la guida dell’intreccio passa al bushō Yoshii Toranaga, signore del Kantō, vero manovratore nella rete di intrighi di corte che vorrebbero la sua eliminazione, in quanto pericoloso esponente della stirpe dei Minowara, maestro d’inganni e osservatore infallibile delle pieghe degli eventi. Toranaga, ricalcato sulla figura di Tokugawa Ieyasu (1543–1616), il fondatore dello shogunato che durò fino al 1868, oltre a essere uomo di guerra maneggia con abilità le armi burocratiche per destabilizzare il Consiglio dei Reggenti che lo vuole morto e per ritardare la sua condanna: qui il marinaio Blackthorne, col suo carico d’armi, viene usato come una pedina per minacciare e destabilizzare i membri cattolici del Consiglio legati a filo doppio con gli affaristi gesuiti portoghesi. Prendere tempo è una delle arti di Toranaga, che svia l’attenzione dei rivali, li mette di fronte a nuove situazioni per spiazzarli, usa ogni espediente che possa rallentare il corso della sua messa sotto accusa, mentre intorno a lui si susseguono manovre, simulazioni, inganni, agguati e uccisioni in un percorso a incastri inarrestabile, tutto in vista della grande battaglia finale.
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La forza sotterranea che muove tutto è quella dei sentimenti, che trascende spazio, tempo, cultura, provenienza e investe l’animo umano nella sua forma primigenia, dalla vocazione doppiogiochista di Kashigi Yabushige, signore di Izu che cerca di sfuggire alla morte, fino alla ricerca di redenzione della nobile Toda Mariko, vista come una Ifigenia piccola e fortissima. Ogni personaggio di rilievo rivela la propria formazione nel gioco degli eventi e dei flashback, muovendosi nello spazio come pedina del grande gioco. John Blackthorne è l’anjin, il “pilota” protestante munito di Lettere di corsa, nemico giurato del corrotto castello d’affari gestito dalla Compagnia di Gesù, un Ulisse secentesco privato dei compagni e a cui è stata sottratta la nave, ostinato nel rivendicare la propria identità e inserito suo malgrado nel groviglio di intrighi politici per diventare via d’accesso, messaggero di tensioni bellicose, perdente nel tentativo di assimilarsi a quel mondo brutale e sublime guidato da una filosofia maestosamente rigida, che pone l’elevazione del sacrificio e della morte eroica e salvifica sopra tutto. Catapultato in una struttura sociale e di potere intricata, ostile e xenofobica, impotente a determinare le proprie sorti, in balia del sistema, rimane un personaggio vitale e irriducibile, inquadrato nella sua rozzezza di outsider in un mondo dove ogni mossa e ogni atteggiamento sono condizionati da schemi rituali allusivi, funzionali a un tutto disciplinato e inflessibile.
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“Che tipo di uomo detiene il potere in una terra simile? Uno che complotta davanti a tutti o uno che non si vede mai?”
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Ogni aspetto di Shōgun è permeato dalla morte, che incombe come riflessione, come minaccia, come dovere, come fato, una specie di fulcro intorno a cui girano gli snodi drammaturgici della storia. La morte come vendetta, come liberazione, come protesta, come arma politica. La morte che diviene pregna di significato, ma anche crudelmente gratuita, per i reietti e gli umili che non possono conoscere il grande gioco. Il seppuku, l’autosventramento come istituzione inviolabile e necessaria, diventa ineludibile quando le circostanze o le avventatezze umane la impongono, come un fato determinato dalle leggi rigide degli uomini. Le donne sono al servizio, soggette alla volontà altrui e strumenti dei forti, tranne le più scaltre e carismatiche e intelligenti, capaci di tenere in mano il gioco. Tutto è ritualizzato, ogni parola ha un corpo, un significato univoco, delle conseguenze. Le parole contano prima delle azioni. È una storia ricca di tensioni e di azioni, un susseguirsi di prese di posizione, di avvicinamenti e aggiramenti, di gesti e iniziative determinanti anche quando sono avventate, come le spade che vengono sguainate come rito di minaccia, come strumento di morte e autopurificazione.
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“Conoscete il recinto a otto pareti? Fin da bambini noi impariamo a scomparire dentro noi stessi, erigere mura inviolabili dietro cui viviamo quando ne abbiamo bisogno. Dovrete addestrare voi stesso ad ascoltare, senza sentire. Per esempio, potete ascoltare il suono di fiori che cadono, o di rocce che crescono. Se veramente ascoltate, allora di sicuro il presente svanisce. Non fatevi incantare dalla nostra amabilità, dai nostri inchini o dai cerimoniali. Sotto questo possiamo trovarci a grande distanza, soli e sicuri”.
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In Shōgun la scrittura delle scene penetra in profondità, si stratifica, si veste di lirismo dando nobiltà estetica all’insieme: un miracolo di eleganza, di simmetrie rituali, di scenografia, di dettaglio, di recitazione, di costumi, di effetti visivi. È la particolarità di una narrazione che unisce azioni cruente con momenti puri, a dimostrazione di un mondo in cui vita e morte sono strettamente legate con la medesima dignità e aspirazione. I dialoghi fra la nobile Mariko – traduttrice designata e fatalmente condannata al sentimento – e John Blackthorne diventano la chiave del significato di tutto: il “recinto a otto pareti” in cui rifugiarsi come in un mondo interiore dove stare protetti, e il “si vive e si muore, oltre a questo non possiamo nulla”, portano lo smarrimento dell’inglese ad avvicinarsi sempre più alla comprensione di quel mondo alieno. Il contrasto – apparentemente insanabile – fra le due culture è il quadro in cui tutto accade e si sviluppa. Anche gli scontri furibondi che inondano il terreno di sangue assumono una loro eleganza, ineguagliabile alle nostre longitudini, così come gli ambienti domestici, l’abbigliamento, gli accessori, la gestualità del rito, il peso delle parole, le scelte radicali. Shōgun è una storia corale che tiene in sé altre due grandi storie, l’eroismo supremo del cuore e l’abilità estrema dello stratega a un passo dalla morte.
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La recitazione di Hiroyuki Sanada e Anna Sawai, i due fulcri della narrazione, è di livello altissimo, al punto che lo spettatore riesce a vivere una realtà immersiva. Yoshii Toranaga, gli zigomi a spigolo, emana una calma regalità e una forza interiore granitica, la nobile Mariko un’algida e controllata bellezza che sa riconoscere in Blackthorne il germe dell’amore più profondo, al punto da spingerla a uscire dal guscio che l’ha sempre protetta, per affrontare tutto. Abbiamo detto dei costumi, della recitazione, della postura nel rito, e gli arredi, gli accessori, la rigida applicazione dell’etichetta; ma abbiamo anche la calligrafia sulle lettere e sui testamenti – che a più riprese vengono redatti, vista la realtà di morte che aleggia – e l’inclinazione a poetare, e i terremoti devastanti, i promontori con le rocce a picco, con la pioggia che pervade le atmosfere e gli effetti digitali che creano un realismo dinamico, come le visioni a volo d’uccello di un’intera città, e poi la durezza degli scontri, l’enfasi espressiva, il suono della lingua giapponese – quella pronuncia e intonazione particolare senza le quali non si capirebbe l’essenza di quella civiltà.
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“Le case sono pensate per essere ricostruite velocemente; perché la morte pervade la nostra aria, la nostra terra e il nostro mare. Può raggiungerci in ogni momento. Prima che vi immischiate nella nostra politica, ricordate che viviamo e moriamo. Non controlliamo nient’altro”.
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Poiché il confronto è fra signori della guerra, non si può sorvolare sull’equipaggiamento da battaglia, in particolare sulle armature fatte di piastre di ferro laccato tenute insieme dai lacci che le rendono snodate. Corazze in cuoio o in ferro, composte da diverse parti, proteggono il petto, il dorso, i fianchi, con le braccia chiuse in lunghi guanti ricoperti di piastre di metallo laccato collegate da maglie di ferro o lacci, le gambe protette da schinieri fissati con cordoni. Le spalle protette da piastre quadrate e snodate, sulla testa un elmo di ferro con visiera e ali laterali per deviare i colpi di spada, con proteggi-nuca a semicerchio fatto anch’esso di piastre, e adorno sul davanti di corna di ferro frastagliato, o sulla sommità con un simbolo o un’effigie in bronzo. Nella cintura un pugnale e due sciabole, tachi e katana, di diversa lunghezza. La katana assume quasi un ruolo sacro, sia per l’affermazione sia per la risoluzione di sé; il feudatario Yabushige, trovatosi in balia delle onde che lo sbattono violente contro le rocce, vedendosi spacciato estrae la spada e se la punta addosso pronto a fare seppuku, un attimo prima che gli arrivi la fune che lo salva. Avere in mano il proprio destino, è questa la sfida dei combattenti. E anche Toda Mariko è pronta a combattere con la naginata, addestrata fin da ragazza nella dimora nobiliare del padre come una onna-musha, per far valere la missione affidatale dal signore Toranaga a compimento del suo destino. “Ma voi parlate delle guerre degli uomini; un uomo può intraprendere una lotta per molte ragioni, conquista, orgoglio, potere. Ma una donna è semplicemente in guerra”.
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“Qui hanno un detto secondo cui ogni uomo ha tre cuori: uno in bocca, che fa conoscere al mondo, uno nel petto, riservato ai suoi cari. E uno sepolto nel profondo, dove nessuno può trovarlo. Quello è il cuore che va tenuto nascosto, se si vuol sopravvivere. Presto capirai di cosa parlo e, chissà, forse il fato ti ha condotto qui per una ragione. E magari vivrai abbastanza a lungo per scoprirla”.
Paolo Ferrucci