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Libri
Paolo Ferrucci
Quando Yasunari Kawabata, il geniale scrittore giapponese, nel 1968, comincia a parlare, lascia sbigottiti gli accademici di Svezia. Per la prima volta un autore nipponico è insignito del Nobel per la letteratura e Kawabata comincia declamando una poesia. “In primavera i fiori/ in estate il cuculo e/ in autunno la luna./ Nel freddo inverno/ la neve chiara e pura”. La poesia s’intitola Il vero aspetto originale delle cose ed “è stata scritta dal maestro zen Dōgen (1200-1253), autore dello Shōbōgenzō, tra i testi imprescindibili del buddismo giapponese, tra i grandi libri del pensiero universale. Kawabata sembra dirci che l’atto letterario è sempre un preludio ad altro, all’abisso, che la letteratura è una pratica che scoscende verso l’aureo dell’uomo, che scrivere è un rischio e una conversione, che non c’è gesto estetico dissociato da una visione etica. Kawabata conclude il discorso, celebre (La bellezza del Giappone e io), tornando alla poesia con cui è partito: “Siamo giunti così al nulla, al ‘vuoto’ della tradizione giapponese ed estremo-orientale. È stato detto che le mie opere sono nichiliste, ma la parola occidentale ‘nichilismo’ non è appropriata. Penso che le basi spirituali siano diverse. La poesia di Dōgen… pur cantando la bellezza delle quattro stagioni è profondamente percorsa dallo spirito zen”. Il nulla occidentale – a meno che non lo si intenda come un epiteto di Dio e al suo volto pericolante – è diverso da quello orientale, l’esito difforme. Yukio Mishima, l’amico di Kawabata, si uccide pubblicamente nel 1970; neanche quattro anni dopo aver ricevuto il Nobel, nella stagione dei fiori, Kawabata piglia la stessa via, si toglie la vita. La raccolta delle Poesie di Dōgen, vorrei dire, stampate da Bompiani per la cura di Aldo Tollini (docente di lingua giapponese classica a Ca’ Foscari, ha pubblicato, tra l’altro, una Antologia del buddhismo giapponese; Lo Zen. Storia, scuole, testi; il più recente L’ideale della Via. Samurai, monaci e poeti nel Giappone medioevale, tutti per Einaudi), sono un crisma editoriale, uno dei rari momenti in cui l’editoria partorisce diamanti. Il libro, intendo, va ‘usato’, aperto a caso, lasciandoci falciare e fecondare dai versi fulminei del monaco zen (“Poiché il Dharma sta oltre/ le parole gettate al vento,/ non lascia neppure/ tracce, quando scrivo/ con il pennello”). E portano a un pensiero perfino banale: la poesia è sempre – per effervescenza grammaticale, per natura sintattica – un avvio all’oltre, un flirt con la vertigine, gestazione della follia o dell’illuminazione. Senza questa avventura avventata negli altri sensi, negli altri mondi, è recinzione retorica, didattica dei buoni sentimenti. “Quello che Dōgen ci insegna è imparare a liberarci dal condizionamento egoistico per cui le nostre azioni sono sempre legate al meccanismo del ‘dare per poi avere’, ossia all’azione come vantaggio personale”, scrive Tollini in una introduzione che ci fa entrare con agio nel mondo della poesia zen. Una poesia – si pensi agli esempi di Saigyo, di Basho, di Ryokan – liberatoria, libera dal carcere culturale, dall’egida asfissiante della ‘cultura’. La visione di un airone, come un abbaglio (“Nel campo innevato,/ dove non si vede neppure/ l’erba invernale,/ l’airone bianco/ nasconde il suo aspetto”; titolo esemplare: Prostrarsi con reverenza), basta a bucare l’effimero del giorno, a ridurre la cronaca umana a un bisbiglio. (d.b.)
Dōgen è il geniale pensatore dello Shobogenzo: per lui che significato ha la prassi poetica? In Giappone, in effetti, da Saigyo a Ryokan, non è rara la figura del monaco-poeta; in Dogen, tuttavia, mi pare che il gesto lirico funga da traccia di una esperienza più ampia, di illuminazione, di via altra, aliena al mondo, è così?
La composizione di poesie era un’attività molto comune tra le persone colte dell’epoca di Dōgen, sia per esprimere sentimenti mondani, sia religiosi: aristocratici, letterati, uomini di governo, monaci e gente comune praticava la composizione poetica. Sulla base della sua produzione che comprende una notevole quantità di poesie sia in giapponese, ma ancor più in cinese, viene naturale pensare che Dōgen ebbe una forte attrazione verso la poesia che coltivò fino alla fine della sua vita, con esiti molto rilevanti. Ciò detto, si apre un quesito di notevole importanza e di difficile soluzione: in quanto maestro buddhista, quale fosse il suo rapporto con la poesia, e più in generale con l’attività letteraria. Nel suo pensiero religioso, il tema del distacco, del non coinvolgimento nelle cose del mondo, dell’abbandono delle passioni è sempre presente e costantemente riaffermato: solo lasciando cadere gli attaccamenti si può sperare di giungere al risveglio. In quest’ottica, va da sé che l’attività letteraria comporti coinvolgimento e passione, e che sia un aspetto tipicamente mondano. Come conciliare, quindi Via buddhista e composizione poetica? Se indaghiamo nei suoi testi, sia lo Shōbōgenzō, sia lo Zuimonki, soprattutto, ci si imbatte in chiare espressioni di ripudio che non lasciano adito a dubbi. Per esempio, si vedano i seguenti passi dello Zuimonki: “Durante la vita umana (così breve), quello che dobbiamo imparare e dobbiamo praticare è solo la Via del Buddha: si deve apprendere il Dharma buddhista. Le lettere e la poesia e simili sono del tutto inutili. È quindi logico che questa attività vadano abbandonate” (Yamazaki Masakazu, a cura di, Shōbōgenzō zuimonki, Kōdansha, 2003, p. 84. Capitolo 2-8). Tuttavia, Dōgen scrive poesie… Si pensi ai detti dei maestri zen quando hanno il flash dell’illuminazione, o ai kōan, espressioni verbali che aiutano ad abbandonare il terreno della convenzionalità e spingono a giungere ad un livello più profondo. È proprio un uso della lingua non convenzionale, creativo, personale, che nasce dall’intimo dell’animo, testimone del nostro io più vero, quello che esprime l’assoluto della buddhità, e la poesia, più di altre forme letterarie, possiede queste caratteristiche. La poesia è appunto il terreno più fertile per far crescere la consapevolezza del “cuore sincero”: comporre poesia è un esercizio di manifestazione della propria natura più genuina e come tale può rappresentare una pratica di purificazione interiore e di ricerca della propria “natura originaria” non contaminata e genuina.
Dōgen insiste sempre sulla pratica dell’abbandono. Anche i suoi gesti poetici, quasi tracce di luce sulla neve, devono essere abbandonati. “Io stesso fin da giovane mi sono dedicato alle lettere”, scrive Dogen, e riguardo ai suoi versi insiste: “ma siccome penso che non abbiano alcuna utilità, penso che siano da abbandonare completamente”. Come si concilia il creare con il distruggere, mi viene da dire, il fare con il dimenticare?
Dimenticare se stessi e lasciar cadere il proprio io sono i pilastri su cui si basa l’insegnamento del Maestro. La pratica ha proprio questo per scopo. Se la poesia non è fatta per divertimento e ha uno scopo elevato, allora può essere un mezzo che conduce al distacco. Per es.
Il suono delle gocce di pioggia di Kyōsei
Mentre l’ascolto
si disperde il mio kokoro:
se pur esiste in questo mio essere,
io non esisto più…
Comporre poesia può essere l’espressione della raggiunta illuminazione. È tradizione che coloro che hanno il flash dell’illuminazione compongano una poesia per esprimere la loro comprensione. Questa poesia normalmente viene poi sottoposta al maestro per l’approvazione.
Insomma, la poesia, se non è mondana, è un veicolo di illuminazione, in quanto esprime il proprio vero volto, o con le parole delo Zen, “il proprio volto originario”. Infine, va ricordato che nello Zen si usano mezzi non convenzionali per andare oltre il dualismo e sfondare la barriera della razionalità che ci imbriglia, e la poesia, se ben usata, è capace di fare questo.
…tuttavia, i versi di Dōgen resistono, addirittura come la quintessenza del pensiero lirico giapponese, non a caso Yasunari Kawabata cita i suoi versi (e quelli di Ryokan, se non erro) dal palco del Nobel, dunque in un contesto pubblico e ‘occidentale’. Che forza hanno in sé questi versi?
Sono versi che, in gran parte, attraverso le descrizioni della natura vogliono giungere a descrivere la realtà così com’è, nella sua semplice perfezione. L’illuminazione non è altro che la corretta visione della realtà, per quello che è, senza il filtro dell’io che crea l’illusione. Quindi, in modo obiettivo, cioè come l’essere che è quello che è, senza attaccamenti né colorazioni egocentriche. Per questo la poesia citata da Kawabata durante il ricevimento del premio Nobel è la quintessenza della sensibilità di Dōgen e dei giapponesi: una descrizione della realtà in modo estremamente essenziale, ma che porta il lettore (o l’ascoltatore) a percepire l’essenza della realtà spoglia di connotazioni. È una poesia che descrivendo la natura, esprime in modo mirabile la dimensione dell’illuminazione.
In un passo che lei riporta Dōgen insegna: “quando esprimiamo l’esprimibile, stiamo esprimendo il non-esprimibile”. Mi pare un tipico paradosso: d’altronde, aggiungo, lo smottamento linguistico proprio della poesia, che frantuma la grammatica in gioco, è attuato per dire l’unica cosa degna di essere detta, il non-esprimibile. Possiamo dire così?
Solo con mezzi linguistici non convenzionali possiamo esprimere il non-esprimibile. La lingua convenzionale esprime l’esprimibile, ma quella non convenzionale (poesia, kōan, ecc.) può farlo. Essa travalica la convenzionalità e sa giungere in terreni che stanno oltre, dove anche l’illuminazione si trova. La frase che lei cita, “Quindi, quando esprimiamo l’esprimibile, stiamo esprimendo il non-esprimibile. Anche quando siamo consci di starci esprimendo con l’esprimibile, se non ci rendiamo conto che ancora non stiamo esprimendo il non-esprimibile, quello non è ancora l’aspetto dei Buddha e dei patriarchi, non è ancora le loro ossa e il loro midollo” (Dōgen, Dōtoku). Significa che solo l’espressione del non-esprimibile è il vero Buddhismo. Solo giungendo oltre si coglie l’illuminazione. Bisogna fare questo con tutti i mezzi possibili, lingua, gesti, groda, ecc. L’espressione che per Dōgen è dōtoku non a caso ha il doppio significato di 1. Riuscire a esprimersi e 2. Di ottenere l’illuminazione: quindi saper esprimere (il non-esprimibile) significa ottenere l’illuminazione. “Laddove il significato è esaurito e i concetti finiscono, una sola parola riempe tutte le dieci direzioni, senza smuovere neppure un capello. Non è forse questo il vero insegnamento di Buddha e patriarchi?” (Zazen yōjinki).
A suo avviso, nella lirica occidentale ci sono stati degli epigoni, degli esecutori della poesia di Dōgen, che intendano la poesia come estasi, come tentativo di illuminazione, come ‘pratica’?
Certo. La poesia dei mistici cristiani è un ottimo esempio. La ricerca dell’“assoluto” o della “realtà ultima”, qualunque nome gli si voglia dare nelle varie tradizioni religiose (l’illuminazione per lo Zen), usa la poesia come veicolo privilegiato per manifestare il proprio slancio verso dimensioni che stanno oltre. Essa serve anche come “pratica”, cioè un modo per cercare quella dimensione, ossia per cercare di renderla concreta anche dentro di sé. L’azione ha sempre una ricaduta o effetto dentro di sé: anche il poetare mistico. Dōgen dopotutto è a modo suo un mistico. Mentre i mistici cristiani rivolgono il loro slancio mistico verso l’esterno (Dio), Dōgen lo rivolge dentro di sé, alla ricerca del proprio io-nulla (o io-assoluto).
Su quest’ultimo punto vorrei ancora interrogarla. La poesia può essere una ‘pratica’, una via, prima ancora che una estetica, vita prima che letteratura? Non sarebbe salutare la poesia come prassi per tutti, anche come disciplina ‘politica’, per una politica migliore?
Dipende sempre da come si intende la poesia. Ci sono tanti tipi e forme di poesia. Se essa viene praticata per purificare il cuore o per esprimere la propria illuminazione, o come pratica, o come forma mistica, è un conto. Altro è se è praticata per diletto, o per mostrare abilità letteraria. Penso che la poesia abbia davvero tante possibilità, anche quella di esprimere le proprie emozioni in modo genuino e autentico. Questo tipo di poesia dovrebbe essere una pratica estesa e diffusa, utile per tutti, a senconda delle prioprie possibilità. Si ricordi che ogni azione pura, genuina, gratuita e sincera si ripercuote dentro di noi svuiluppando queste qualità.
*In copertina: una fotografia di Felice Beato (1832-1909) dal Giappone ottocentesco