20 Agosto 2024

“Quando avrete visto la luce della disperazione”. Sarah Kane, o dell’apocalisse

SARAH

«Sono triste / Sento che il futuro è senza speranza e le cose non possono migliorare / Sono stufa e insoddisfatta / Sono un fallimento completo come persona / Sono colpevole, vengo punita / Vorrei uccidermi / Prima riuscivo a piangere ora sono oltre le lacrime / Ho perso interesse negli altri / Non riesco a prendere decisioni / Non riesco a mangiare / Non riesco a dormire / Non riesco a pensare / Non riesco a vincere il senso di solitudine, di paura, di disgusto / Sono grassa / Non riesco a scrivere».

All’inizio di questo lungo, desolante, allucinato monologo, che sarà alternato a frammenti di dialoghi tra personaggi non identificati – potrebbero essere un medico e una paziente psichiatrica, o una paziente e il suo amante (o la sua amante), o, più probabilmente, una paziente in dialogo con sé stessa, una mente psicotica che perde i suoi labili confini – ci troviamo di fronte a un’analitica descrizione della condizione tipica di un soggetto in preda alla depressione: la mancanza di speranza, l’assenza di futuro, l’incapacità di vivere, l’impotenza a vivere (quell’elenco di frasi introdotte da: «non riesco», «I can’t»). «Galoppo verso la morte – prosegue il monologo – Ho terrore dei medicinali / Non riesco a fare l’amore / Non riesco a scopare / Non riesco a stare da sola / Non riesco a stare con gli altri / Ho i fianchi troppo larghi / I miei genitali non mi piacciono / Alle 4 e 48 / quando la disperazione mi fa visita / mi impiccherò». Ma soprattutto, poco dopo, ecco l’impasse tra la vita e la morte: «Io non voglio morire / mi sono depressa così tanto al pensiero della mia mortalità che ho deciso di suicidarmi / Io non voglio vivere». La voce che parla, che dice «io», è letteralmente paralizzata tra il non voler morire e il non voler vivere. Il suicidio è, per certi versi, la via di fuga da questo limbo urticante che è la depressione, a cui non è risparmiata la tortura, la sofferenza fisica dei dannati; il suicidio è il gesto liberatorio che invoca qualcosa di risolutivo: «Alle 4 e 48 / quando la disperazione mi fa visita / mi impiccherò». 

Pochi giorni dopo aver finito di scrivere questo monologo, intitolato 4.48 Psychosis, il cui titolo si riferisce all’ora in cui l’autrice si svegliava, ogni mattina, nell’ora più buia, poco prima dell’alba, in preda all’angoscia e con la tentazione di farla finita, il 17 febbraio 1999 Sarah Kane tenta il suicidio nel suo appartamento di Brixton ingoiando 150 compresse di antidepressivi e 50 sonniferi. («Per favore non tagliatemi tutta per scoprire come sono morta ve lo dico io come sono morta – aveva scritto nel suo monologo – cento di Lofepramina, quarantacinque di Zoplicone, venticinque di Temazepam e venti di Mellerin»). Ma viene salvata dal suo coinquilino, che la porta d’urgenza al King’s College Hospital, dove la rianimano. Qui, tre giorni dopo, nonostante la diagnosi degli psichiatri richiedesse un monitoraggio costante per evitare recidive e la detenzione coatta in caso la paziente avesse cercato di abbandonare l’ospedale, viene lasciata da sola per novanta minuti. Sarah ne approfitta per entrare nei bagni del reparto e impiccarsi con i lacci delle sue scarpe («Starò in piedi su una sedia con un cappio intorno al collo» aveva scritto, ancora, in 4.48 Psychosis,programmando il suo suicidio con una paradossale sequenza di overdose, taglio di vene e impiccagione: «così non potranno dire che era una richiesta di aiuto»).

Questa volta non c’è nessuno a salvarla.

Muore, a soli 28 anni, dopo aver scritto cinque drammi che hanno cambiato la storia del teatro del Novecento. Nel giugno 2000, a quattordici mesi dalla sua morte, l’ultimo testo debutta postumo al Royal Court Theatre, con la regia di James Macdonald, lasciando il pubblico attonito e scioccato dalla violenza emotiva, dalla potenza verbale, dalla sequela di rabbiose imprecazioni, dalla immediatezza frammentaria della scrittura, ma soprattutto da quel suicidio annunciato.

Qualcuno lo ha definito «un ululato di dolore».

Lo spettacolo diventerà leggendario, un classico, un banco di prova ineludibile per le attrici di tutto il mondo. Nessun drammaturgo contemporaneo è riuscito a scavare con altrettanta forza dentro sé stesso e dentro gli spettatori. Kane si rappresenta in una voce, certo, ma non è difficile in questa voce individuare quella dell’autrice stessa: la ragazza depressa, alcolizzata, drogata, lesbica e dal geniale talento che ha rivoluzionato la scena teatrale, fin da quando, a soli ventitré anni ha esordito da sconosciuta in quello stesso teatro londinese in cui è andato in scena il suo testo postumo, con Blasted, il 12 gennaio 1995, una data spartiacque: dopo quella prima, sconvolgente, il teatro inglese non è stato più lo stesso.

C’è stato Beckett, c’è stato Pinter, e ora c’era lei, Sarah Kane. Blasted è un testo già magistrale: nella stanza di un lussuoso albergo di Leeds si incontrano per l’ultima volta una ragazza di ventun anni, Cate, e un giornalista di 45, Ian. Lei è balbuziente ed epilettica, lui – un alcolizzato, malato terminale – è violento, omofobo, sessuomane. Ai rifiuti della ragazza, Ian reagisce con lo stupro. La mattina seguente lei lo insulta, lo picchia, gli pratica una fellatio e gli morde il cazzo. Ma la violenza privata, verbale e fisica, di questa relazione che sta per finire, viene sostituita da una violenza più universale: d’improvviso la camera d’albergo viene bombardata, compare un soldato con un fucile che racconta a Ian le torture subite dalla moglie ad opera dei soldati nemici, poi il soldato decide di torturare a sua volta Ian, lo sodomizza, gli succhia gli occhi, accecandolo, infine si suicida. Ma questo è solo l’inizio di una serie di orrori che non risparmiano nulla allo spettatore: suicidio, infanticidio, masturbazione, defecazione, cannibalismo. Orrori che però non cedono mai allo splatter, benché tutto avvenga in scena, poiché non vi è compiacimento, bensì sofferenza, struggimento, compassione umana (sono gli anni della guerra che devasta la ex Jugoslavia, con il massacro di Srebrenica e gli stupri etnici). Kane, inoltre, è una scrittrice consapevole: attinge al repertorio senechiano ed elisabettiano, adattandolo al presente. Non a caso il suo dramma successivo, del 1996, altrettanto truculento, sarà una rivisitazione della Fedra di Seneca: Phaedra’s Love. Non meno eccessivi, duri, provocatori i drammi successivi, entrambi del 1988: Cleansed, ambientato tra le mura di un campus universitario rappresentato come un campo di concentramento (anche qui lingue mozzate, arti amputati, autolesionismo); e Crave, intreccio di quattro storie di violenze private e relazioni disfunzionali, quattro solitudini, quattro personaggi che annaspano in una partitura di parole, di frammenti di frasi, in un contrappunto di voci, alla ricerca disperata di un senso da dare alle proprie vite. Un testo, quest’ultimo, a cui la drammaturga inglese ha lavorato per un anno e mezzo, e che le è costato, subito dopo, un volontario ricovero ospedaliero.

Il teatro di Kane è di rara, lancinante potenza. Ciò che differenzia l’autrice dai precedenti grandi drammaturghi anglofoni, ciò che la differenzia da tutti, è il fatto che sulla sua scena non c’è nulla di simbolico, nulla di allusivo, anche quando tutto sembra suggerire il contrario (la guerra che irrompe in una camera d’albergo, un campus-lager), anche quando pare insostenibile solo il pensare che non lo sia, poiché in fondo il simbolo, l’allegoria sono ancora una forma di consolazione. Qui, invece, tutto è tragicamente diretto, reale, alla lettera, benché sia tutto in frantumi, come se un vento apocalittico avesse scompigliato ogni ordine simbolico, lasciando spazio scenico solo alla disgregazione «diabolica» di ciò a cui è ridotta l’esistenza umana. In tal senso, il testo-testamento di Kane, scritto immediatamente prima del suicidio, rappresenta il culmine di questo realismo psicotico, laddove l’impalpabile confine tra il teatro e la vita, tra finzione e verità non esiste più. Tutto ciò che viene detto è autentico, ogni parola pronunciata, ogni frase. Il pubblico ha consapevolezza di ciò, sa che dietro la parola «suicidio» c’è un suicidio reale, non una sua evocazione, non una metafora, un’allusione ad altro.

Sarah è come il Franz Kafka descritto da Milena Jesenská in una lettera a Max Brod:

«È senza il minimo rifugio, senza un ricovero, perciò è esposto a tutte le cose dalle quali noi siamo al riparo. È come un individuo nudo tra individui vestiti».

L’autrice rappresenta, così, la sua depressione in 4.48 Psychosis anche come la conseguenza della fine di una tormentata relazione con la sua compagna («Muoio per una a cui non importa / Muoio per una che non sa proprio / mi stai spezzando»). È anche per questo abbandono che scrive, che si dispera, che chiede aiuto, come il personaggio di un mélo dell’amato Fassbinder, o «come un individuo nudo tra individui vestiti»: «Tagliatemi la lingua / strappatemi i capelli / mozzatemi gli arti / ma lasciatemi l’amore / preferirei aver perduto le gambe, / che mi avessero strappato via i denti / cavato gli occhi / piuttosto che aver perduto l’amore» (questi versi, insieme ad altri del testo, saranno utilizzati in un brano della band inglese indie-rock Tindesticks intitolato proprio 4.48 Psychosis: brano psichedelico, dal ritmo ossessivo scandito dalle chitarre elettriche, il drumming cupo, martellante).

Ma qui si va oltre l’angoscia dell’abbandono: nella scrittura di Kane, infatti, vediamo annullarsi i margini tra la morte e la coscienza del suo arrivo. «La disperazione mi spinge al suicidio / Un’angoscia che i dottori non riescono a curare / E non vogliono capire». Il tema del monologo non è, perciò, soltanto il suicidio, né l’abbandono amoroso, ma il senso di esclusione, di separatezza dal mondo, l’incomprensione degli altri. Ciò che più colpisce, qui, è la capacità dell’io drammaturgico di moltiplicarsi in tre voci, tre istanze psichiche, quella della Vittima, del Carnefice e dello Spettatore. Come la Trinità. Ecco perché, dal momento che nessun suicidio è perfetto, perfino in questo pozzo nero di disperazione, Kane ha la possibilità di affermare che nessun suicida ha mai avuto voglia di morire. «Credi nella luce» dice a un certo punto la «ragazza interrotta», citando il Gesù del Vangelo di Giovanni («Mentre avete la luce credete nella luce, per diventare figli della luce»). Del resto, la Bibbia è sempre presente nella sua opera. Figlia di genitori evangelici, lei stessa ha confessato che la violenza presente nei suoi drammi è una derivazione di quella presente nella Bibbia. Violenza, certo, ma anche, appunto, la luce: «Ricorda la luce e credi nella luce / Un attimo di chiarezza prima della notte eterna».

La luce cristologica, però, in un ardito, ossimorico rovesciamento semantico, è anche l’annuncio della morte: «Quando avrete visto la luce della disperazione / il bagliore dell’angoscia / sarete condotti nelle tenebre». E mentre si avvicina il momento della fine la protagonista del monologo invita tutti (chi? gli spettatori?) a guardarla mentre scompare. Se ogni suicidio pone degli interrogativi, quello di Sarah Kane è nell’ultima frase lasciata a chiusura di 4.48 Psychosis, ai margini inferiori della pagina del copione: «per favore aprite le tende». Che cosa voleva intendere con queste parole? «Curtain» in inglese significa anche «sipario». Aprire il sipario è l’ingresso nella morte come momento supremo di verità? L’unica risposta che ci ha lasciato Sarah Kane è nei segni grafici, nei cinque trattini alla fine del suo monologo.   

Aprire il sipario sulla verità è, forse, l’apoteosi stessa del teatro e allo stesso tempo la sua apocalisse. 

Fabrizio Coscia

Gruppo MAGOG