Pubblichiamo per gentile concessione il saggio introduttivo di Fabrizio Coscia, scrittore di fiera bravura (leggetevi La bellezza che resta, pubblicato lo scorso anno; ora è in giro un suo ragionamento su Francis Bacon, Dipingere l’invisibile), alla nuova edizione di Ore inglesi di Henry James. Il libro sarà edito da Theoria, nella collana ‘Futuro Anteriore’, il mese prossimo. Il titolo del saggio di Coscia, che ribalta la consueta opinione in merito a Henry James, “il più sventurato degli uomini” (secondo Jorge Luis Borges), è Henry James e l’avventura dello sguardo, ed è dedicato “Alla memoria di Agostino Lombardo, che una mattina di molti anni fa mi fece capire, una volta per sempre, che l’arte «raccoglie il suo materiale», sempre, «dal giardino della vita»”.
*
Descrivendo una delle «due indimenticabili fotografie di Henry James», eseguite nel 1906 da Alice Boughton, Jorge Luis Borges riferiva dell’«immagine di un disdegnoso gentiluomo dolente, che tenta invano di nascondere sotto eleganti attributi convenzionali ciò che denuncia il suo sguardo tristissimo: che è il più sventurato degli uomini».
Se non ci lasciassimo ammaliare, com’è facile, dalla prosa di Borges, dal suo intonatissimo giro di frase, potremmo dire che questa definizione di James come «il più sventurato degli uomini» arriva a restituirci nient’altro che l’immagine sbiadita di uno stereotipo biografico (ma poiché il grande scrittore argentino era di un’intelligenza troppo avveduta, troppo raffinata, sarei più propenso a concludere che stava parlando di se stesso). Resta il fatto che, a leggere gli innumerevoli resoconti della vita di Henry James, la formula più ricorrente usata da biografi e critici è proprio quella dello «spettatore della vita», dell’uomo che ha sacrificato tutto all’arte, dell’esiliato (Il proscritto volontario era il titolo del primo saggio italiano dedicato a James, nel 1948, da Paolo Milano), dell’esteta avulso dalla realtà. Ed è, questa, una formula così diffusa, che nessuno sembra volerla mettere in discussione, tanto più che si è creduto di poterne trovare conferma nell’opera. Ecco, allora, i vari personaggi jamesiani, gentiluomini timidi impotenti irresoluti solitari, che popolano le pagine dei romanzi e racconti: figure come George Stransom, che ne L’altare dei morti (1895) si dedica a un ossessivo, solitario culto dei defunti in una vecchia cappella acquistata e ristrutturata; o come l’impiegata dell’ufficio postale di In gabbia (1898), che si immedesima nella storia d’amore di uno dei suoi clienti, vivendola indirettamente attraverso i telegrammi; come il narratore senza nome de La fonte sacra (1901), che passa un fine settimana in una casa di campagna osservando, e cercando di capire, le misteriose dinamiche che legano due coppie; o come Lambert Strether, protagonista de Gli ambasciatori (1901) che, mandato dalla fidanzata a Parigi per ricondurre a casa, in America, suo figlio, scopre durante il suo soggiorno in Europa di non aver mai vissuto; come John Marcer, l’uomo che, ne La belva nella giungla (1903), si ritiene destinato a una sorte eccezionale e che, in attesa del suo compimento, trascorre tutta la vita negandosi all’amore, salvo scoprire che la sorte riservatagli era proprio quell’amore rifiutato; o come Herbert Dodd, il mediocre libraio di provincia de La panchina della desolazione (1910), vinto dalla «sua predestinata sottomissione».
La dichiarata predilezione di James per questi personaggi un po’ inetti, separati dalla vita, ha spinto dunque a riscontrarvi una cifra autobiografica. La vita di James è apparsa, pertanto, segnata da una «sterilizzante incapacità» (come lo stesso scrittore scrive del protagonista degli Ambasciatori), inibita da complessi mai rivelati (l’omosessualità, in primo luogo), fin dal celebre e misterioso incidente che il diciottenne James ebbe, nel 1861, quando per spegnere un incendio a Newport si procurò «un’orrenda benché oscura ferita», che lo rese inabile alla Guerra Civile. Il suo celibato, il suo apparente distacco da ogni passione, il suo culto totalizzante per l’arte, hanno finito così per configurare l’immagine di una «vita tragica», vissuta all’insegna del gelo, proprio come il povero John Marcer, «l’unico uomo del suo tempo a cui era destinato che non succedesse nulla», al punto da spingere i critici a leggere tutta l’opera di James come un riflesso della vita mancata dell’autore o, com’è stato fatto, del suo orientamento sessuale represso, un pregiudizio biografico, che diventa fatalmente pregiudizio critico (la supposta freddezza, il manierismo, il cerebralismo dell’arte narrativa jamesiana, in particolare della sua fase maggiore). Ho provato a rileggere – con la mente sgombra da pregiudizi, come se non avessi mai letto nulla di lui e su di lui – gran parte dei romanzi e racconti di James (dei più importanti, almeno) cominciando dai suoi capolavori – Ritratto di signora, e il trittico finale La coppa d’oro, Le ali della colomba, Gli ambasciatori – e sono arrivato alla conclusione che uno scrittore capace di comporre delle opere di una tale ricchezza esperienziale e complessità, e di restituire tutto l’ardore vitale di certi personaggi (penso soprattutto a Isabel Archer e a Milly Theale, poiché James, andrebbe ricordato, nella sua vastissima produzione non ha scritto solo di «poveri sensibili gentiluomini»), ebbene un tale scrittore dell’esistenza umana non può non aver conosciuto tutto, vissuto tutto, elaborando su di essa un ideale estetico e morale basato sullo stoicismo e sulla ricerca della verità, anche attraverso il dolore e l’inganno, che un fondo culturale puritano faceva percepire come consapevolezza tragica del male. James, da parte sua, aveva già dato una risposta definitiva alla questione del rapporto tra arte e vita, con una frase contenuta in una lettera del 1915 all’amico H. G. Wells: «È l’arte che fa la vita, fa l’interesse, fa l’importanza, per la nostra considerazione e applicazione di queste cose, e non conosco alcun sostituto alla forza e alla bellezza del suo processo». E del resto, già diversi anni prima, ne L’arte del romanzo, un saggio del 1884, scriveva che «la sola ragione dell’esistenza di un romanzo è che esso tenta di rappresentare la vita». Un tentativo che deve essere inteso come uno sforzo di scavo e di enucleazione, come James annota nella Prefazione a Le spoglie di Poynton: «Poiché la vita è tutta inclusione e confusione, e l’arte tutta discriminazione e scelta, quest’ultima, in cerca del duro valore latente di cui solo si preoccupa, ringhia attorno alla massa tanto indistintamente e infallibilmente quanto un cane sospettoso d’un qualche osso sepolto». Con la differenza che mentre «il cane cerca il suo osso solo per distruggerlo», l’artista trova «nella sua piccola pepita, lavata dalle incrostazioni e martellata in sacra durezza, la materia stessa per una chiara affermazione, l’occasione più felice per l’indistruttibile». È uno sforzo euristico che ha come materia la vita stessa e che non ha dunque nulla dell’estetismo, dell’art pour l’art, ma è concentrato solo alla ricerca del «duro valore latente» della nostra esistenza. Bisogna arrivare alla conclusione, dunque, che scambiare uno scrittore di una tale elevatissima coscienza etica e artistica per un semplice «spettatore della vita» significa, semplicemente, non aver capito nulla della sua opera, tra le massime espressioni letterarie di ogni tempo. Di ciò che vado dicendo, lo stesso James, in effetti, diede ulteriore e definitiva testimonianza nella Prefazione a Gli ambasciatori, quando scrive: «L’arte tratta di ciò che vediamo, deve anzitutto offrire a piene mani quell’ingrediente: raccoglie il suo materiale, per dirla altrimenti, nel giardino della vita – il quale materiale, cresciuto altrove, è stantio e immangiabile». La sua coscienza d’artista gli faceva credere che l’essenza della vita fosse ineluttabilmente tragica, e la luce che irradia dalla forza di volontà di alcuni suoi indimenticabili personaggi femminili sembra rifulgere ancor più nella sconfitta e nella rinuncia, come le eroine di Racine, eppure quella stessa coscienza d’artista permetteva allo scrittore di attingere a un valore sapienziale, di cui non possiamo che fare tesoro. «Vivete tutto quello che potete; è un errore non farlo. Non ha molta importanza quello che fate in particolare, purché la vita sia vostra. Se non avrete quella, che cosa avrete avuto?». Quando il Lambert Strether degli Ambasciatori incita il giovane artista, John Little Bilham, a vivere, a fare esperienza della vita, ad essere all’altezza della sua gioventù, aggiungendo che per lui invece è troppo tardi – «Ed è come se il treno mi avesse puntualmente aspettato in stazione senza ch’io avessi il buon senso di capire che era là. Ora sento il suo fievole fischio allontanarsi per chilometri e chilometri lungo la linea. Quel che si perde, si perde; non facciamoci illusioni in proposito» – James stava rivolgendo quell’esortazione a noi tutti, che viviamo la maggior parte della nostra vita inconsapevoli, ciecamente, distrattamente, senza sentire con profondità, senza capire ciò che stiamo vivendo. James, a differenza di Strether, il suo treno per affrontare «l’avventura della vita» lo aveva preso eccome, e quel treno era la letteratura.
*
E, dunque, che vita ebbe Henry James? Fu, letteralmente, un uomo di mondo, coltissimo, affascinante e socievole, dalla conversazione brillante. Nacque a New York, il 15 aprile 1843, da una famiglia benestante e intellettuale, ricca di stimoli culturali: il padre, Henry James Sr., era un rinomato teologo e filosofo trascendentalista, e suo fratello maggiore diventerà un celebre psicologo, con una cattedra a Harvard. Fin da giovanissimo, James viaggiò con la sua famiglia (aveva altri due fratelli e una sorella, l’amata Alice, tutti nati dopo di lui) per lunghi soggiorni all’estero, facendo il pendolare tra l’America e l’Europa. Qui si fermò per alcuni anni, passando da Ginevra a Londra, da Parigi a Bonn, tra il 1855 e il ’58, e dopo un breve ritorno in America, dal 1859 al ’60. I suoi viaggi non si fermano negli anni successivi: tra il 1869 e il ’70 si reca ancora in Inghilterra e in Francia e compie il suo Grand Tour in Italia, soggiornando a Venezia e a Roma, da cui ricaverà una vivida impressione, quella che chiamerà «the luxury of loving Italy». Una formazione cosmopolita, che lo segnò per sempre e che lo spinse poi ad abbandonare gli Stati Uniti per trasferirsi definitivamente in Europa, a Londra, nel 1875, e poi, nel 1897, alla Lamb House di Rye, nel Sussex orientale, fino alla sua morte, che lo coglie, con un attacco cardiaco, il 28 febbraio 1916. Una vita tutt’altro che povera di eventi, dunque, trascorsa con una impressionante produttività (22 romanzi, di cui due incompiuti, e 112 racconti, senza contare le opere teatrali e il vastissimo numero di saggi e articoli di critica, resoconti di viaggi, lettere e appunti), e una mondanità intensissima e vivace (pare che in una sola stagione, quella del 1878-’79, fu invitato a cena centoquaranta volte). Frequentò Ivan Turgenev, Joseph Conrad, Ford Madox Ford, Zola, Flaubert e Maupassant, Ruskin e William Morris, e molti altri scrittori dell’epoca. Certo, i suoi libri non ebbero il successo popolare che lo scrittore inseguì per tutta la vita, ad eccezione di Daisy Miller e di Ritratto di signora. Inoltre, la sua ambizione di drammaturgo fallì clamorosamente: il fiasco di Guy Domville in un teatro di Londra rappresentò uno dei traumi più umilianti della sua carriera, che lo spinse a isolarsi dalla vita pubblica. In effetti, la produzione novecentesca di James era troppo raffinata, allusiva, complessa, labirintica per incontrare i gusti del pubblico, che lo ignorò. La sua amica scrittrice Edith Wharton, per rendergli quella frustrazione più sopportabile, in un gesto di generosità assai raro tra colleghi, chiese al loro comune editore americano – Scribner’s – di versare periodicamente una parte della somma dei propri diritti d’autore (molto più alti) sul suo conto. James morì senza averlo mai saputo. E tuttavia morì da scrittore rispettato e onorato da tutti, considerato unanimemente come the Master, «il Maestro». Non si sposò mai, e non tanto perché fosse omosessuale (non era questo certo un motivo valido per non prendere moglie, anzi al contrario, generalmente lo si faceva proprio per fugare i sospetti di una società moralista e omofoba, come dimostrano i casi celeberrimi, tra i tanti, di Oscar Wilde e Thomas Mann), ma perché sapeva che la vita coniugale avrebbe in qualche modo condizionato negativamente la sua dedizione assoluta, monacale, ascetica all’arte, come lo sapevano altri due grandi scrittori celibi e ascetici come Proust e Kafka. Nella Lezione del Maestro – capolavoro di ironica ambiguità – lo scrittore famoso Henry St. George incoraggia un giovane collega a continuare sulla strada intrapresa, consigliandogli di rinunciare all’amore e al matrimonio per dedicarsi totalmente all’arte; e tuttavia, sorprendentemente, quando il giovane Paul Overt accetta il consiglio, rinunciando alla donna che ama, tornato da un viaggio all’estero trova che St. George ha deciso di non scrivere più e di sposare proprio la donna amata dal giovane. Cosa si nasconde dietro questa parabola raffinatissima sul conflitto tra arte e vita? Che le due sono inconciliabili? O piuttosto il contrario, che entrambe possono e debbono essere contemplate, seppure in tempi separati? Oppure la vera risposta di Henry James è in un altro racconto, La vita privata (1892-93), dove Claire Vawdrey è un celebre scrittore che manda il suo simulacro-fantasma nei salotti e nei dintorni di una pensione svizzera, a svolgere una intensa vita sociale, intrattenendo rapporti mondani con gli ospiti, mentre lui, il suo io più autentico, indisturbato continua a scrivere nella sua stanza. È, questo sdoppiamento, la tipica scissione dello scrittore che già Proust, nell’abbozzo di un saggio giovanile, intitolato La poesia o le leggi misteriose, indicava come insanabile: in ogni scrittore ci sono almeno due individui, spiegava Proust, l’uomo comune, pratico, inserito nella sua rete di relazioni sociali, rispettoso delle leggi e delle tradizioni; e l’uomo poetico, «chiuso nella sua stanza», alieno da tutto e da tutti, quasi in modo criminoso dedito esclusivamente alla sua opera. In questo James e Proust erano affini: entrambi intenti a distillare dalla dissipazione della vita mondana, l’esperienza che nutrirà l’atto sacro dell’arte. Affini anche le loro intelligenze, che come una rete di ragno (la stessa di quella meravigliosa poesia di Emily Dickinson) sottilissima e preziosa, creavano architetture formali in cui intrappolare la realtà, per renderne intellegibile la sua dimensione più complessa. In fondo quella scissione è inevitabile. Chiunque scriva sa che la propria vita più autentica coincide con l’atto della scrittura, ma sa che anche tutto il resto – ciò che Vawdrey demandava al suo doppio – è necessario, perché senza dissipazione non può esserci concentrazione, senza mondanità non può esserci sacralità, e soprattutto senza esperienza non può esserci arte.
*
Nonostante tutto, da ciò che sappiamo, James fu, come una volta dichiarò a un’amica, «abbastanza felice e abbastanza sfortunato», proprio come, aggiungerei, la maggior parte di noi. E, in una pagina dei suoi Taccuini ammise: «Io volevo fare più o meno quello che ho fatto». Perché definire allora «il più sventurato degli uomini» qualcuno che alla fine della sua vita dichiara di non avere rimpianti? E se provassimo a considerare il paradosso che una vita priva di ciò che la maggior parte di noi considera «passione» possa essere comunque appagante? Che l’eros possa sublimarsi in maniera sufficientemente accettabile nell’arte, al punto da far dichiarare che «assaporare un piacere letterario» può essere «il colmo dell’estasi» (in questo libro, nel saggio «Winchester, Rye e il Denis Duval»)? E, soprattutto, di fronte a quel gruppetto di anime solitarie che popolano le pagine dei romanzi e i racconti di James, di sconfitti, di gentiluomini sensibili che hanno scelto di porre una barriera invisibile e invalicabile tra sé e la vita, perché cadere nel grossolano errore dell’identificazione tra Narratore e Autore? Come ben sapeva Proust (ancora lui), «un libro è il prodotto di un io diverso da quello che si manifesta nelle nostre abitudini, nella vita sociale, nei nostri vizi». E del resto lo stesso James scrisse, sempre in «Winchester», che «la difficoltà di assumere le vesti di qualcun altro non è mai così grande come quando si conserva la propria forma d’essere personale». Come a dire che l’arte del narratore è principalmente quella di un trasformista, in questo molto simile a quella dell’attore che per interpretare un personaggio deve abbandonare «la propria forma d’essere personale», appunto, limitandosi a prestargli alcune caratteristiche. E allora, se non si può negare che George Stransom, John Marcer, Herbert Dodd, Lambert Strether debbano molti tratti della loro personalità al suo autore, c’è da dire anche che a differenza di questi personaggi dalla vita più o meno anonima – differenza fondamentale – Henry James era uno scrittore, il più grande romanziere americano di tutti i tempi, e tra l’altro uno degli artisti più consapevoli degli strumenti della propria arte, e questa coscienza d’artista non poteva non rappresentare uno iato, una distanza incolmabile tra sé e i suoi personaggi. A differenza di questi, infatti, James non fu uno «spettatore della vita», bensì un osservatore, e di un tipo di osservazione così profonda da trasformarsi in una esplorazione attiva dell’esperienza umana. E non solo: questa esplorazione si fa, nell’esercizio creativo, «passione costruttiva, creativa – come James scrive in una delle sue Prefazioni – l’esercizio della quale trova tante occasione per apparire come la più alta forma delle fortune umane, la più rara benedizione degli dei… la grande estensione, superiore a tutte le altre, dell’esperienza e della consapevolezza». Questa «estensione dell’esperienza» che è l’arte narrativa – «superiore a tutte le altre» – è dunque un privilegio, «la più alta forma delle fortune umane», che spetta solo agli artisti. Quando Roland Barthes, parlando della fotografia, ne La camera chiara, definisce l’«avventura» come ciò che avviene in chi guarda, come ciò che lo anima, fa riferimento a quel che succede tra l’osservatore e la cosa osservata, a uno scambio di «animazione». E allo stesso modo James traduce in «avventura», in «estensione dell’esperienza» la seduzione che la vita esercita sul suo sguardo, animandolo (di «viva e incessante avventura» parla, a proposito della vita interiore di James, il primo curatore dell’epistolario, Percy Lubbock). Niente di più lontano dalla passività di certi suoi personaggi. Come rileggere, allora, l’opera di James, alla luce di questo assioma? Come la grande opera di un critico della vita, di qualcuno, cioè, che ha esaminato l’esistenza umana in ogni suo aspetto, distillandola e passandola al vaglio della sua intelligenza creativa, alla ricerca del suo «duro valore latente», in uno sforzo conoscitivo che ha pochi uguali (dovremmo scomodare ancora una volta Proust, forse, quando scrive, ne Il tempo ritrovato, che «la vita vera, la vita finalmente riscoperta e illuminata, la sola vita, dunque, pienamente vissuta, è la letteratura») traghettando l’arte narrativa dal realismo dell’Ottocento direttamente nella crisi del Novecento, nei paraggi di Kafka e Beckett. Ma come si è potuto verificare un tale epocale trapasso? Silvio D’Arzo, in un saggio del 1950, intitolato Henry James (di società, di uomini e fantasmi), scrisse: «In un momento in cui migliaia e migliaia di Europei tentavano l’avventura dell’America, il giovane Henry James sentì che nella penombra di un salotto nel crepuscolo (…) si potevano incontrare avventure infinitamente più avvincenti (e in un certo senso più pericolose) che in qualsiasi giungla o metropoli d’America. Che certi silenzi e certe pause potevano avere una risonanza anche più profonda del fragore di un continente industriale. Che il versare una tazza di tè davanti a un caminetto a fuoco languido in una avanzante sera londinese, poteva anche equivalere a un rito vero e proprio, con le sue vittime, le sue offerte ed i suoi dei». Ecco, il senso dell’avventura nell’accezione barthesiana, di ciò che avviene in chi osserva, di ciò che lo anima, ovvero della vita colta nella sua fase larvale, nei suoi recessi più intimi, mi sembra qui intuito come meglio non si potrebbe. La modernità di James, la sua trasformazione del realismo nella sua fantasmagoria, è proprio in questo rovesciamento di prospettive: mentre Joseph Conrad, per sondare i labirinti della coscienza (e dell’inconscio) dell’uomo occidentale doveva ambientare i suoi romanzi in Africa o in pieno oceano, ricorrendo al genere marinaresco, all’avventura di viaggio nel senso più classico del termine, alla stessa maniera di Melville in Moby Dick; James, quella stessa operazione, quella stessa avventura la compiva «nella penombra di un salotto nel crepuscolo». Tutto ciò lo scrittore americano l’ottenne, come si sa, né più né meno che da un espediente tecnico: il punto di vista circoscritto, ovvero una rigorosa delimitazione del campo di osservazione di un personaggio (anche quando il Narratore parla in terza persona), che ha come duplice effetto da un lato di rendere lo stesso narratore poco affidabile, o perlomeno sospetto, come ben sanno i lettori del magistrale Giro di vite, dove fino alla fine non riusciamo a comprendere se i fantasmi del racconto sono reali o sono soltanto delle allucinazioni della protagonista; dall’altro di farci percepire l’impossibilità di conoscere la realtà oggettivamente, e la sua inafferrabilità, senza mai rinunciare però a un’incessante investigazione del reale stesso, o perlomeno su come, con quali strumenti e quali possibilità di interpretazione il dato reale venga elaborato nella coscienza umana. Espediente tecnico, dunque, che si rivela allo stesso tempo una Weltanschauung, che fa dell’ambiguità del reale il suo centro prismatico.
*
Alla luce di ciò che si è detto finora, i testi di viaggio hanno, nel complesso arcipelago dell’opera jamesiana, un’importanza maggiore di ciò che potrebbe apparire. Essi rappresentano, per così dire, la cartina di tornasole del suo metodo di osservazione, praticato anche per la narrativa, e la conferma che il dato di realtà, l’esperienza concreta è sempre il punto di partenza della scrittura di James, che ha bisogno, sempre, di muoversi su un terreno riconoscibile, attraversabile anche fisicamente – «il giardino della vita» – anche quando poi questo spatium viene trasfigurato in un luogo astratto, rarefatto. Si è detto che lo scrittore americano è stato un viaggiatore infaticabile, praticamente fin da subito dopo la nascita. Si spostava con ogni mezzo di trasporto: treno, nave, carrozza; e manifestava una curiosità inesauribile per i luoghi da visitare. I volumi che raccolgono gli scritti di viaggio sono lì a testimoniarlo: dal primo, Transatlantic Sketches (1875) a Portrait of Places (1883) da A little tour in France (1885) a English Hours (1905), il libro che qui presentiamo, da The American Scene (1907) a Italian Hours (1909). Libri che raccolgono articoli scritti per riviste, come lo stesso Ore inglesi, per il quale in particolare James, mettendo insieme saggi di viaggio sull’Inghilterra scritti nell’arco di un ventennio, tra il 1872 e il 1890, accompagnati da 92 illustrazioni di Joseph Pennell, li presenta con una introduzione dopo averli rimaneggiati per creare un effetto di stile più unitario. La prima domanda che dobbiamo porci di fronte a un libro del genere è questa: che tipo di viaggiatore era Henry James? Per rispondere prendo in prestito una frase di Walter Benjamin, tratta dal suo monumentale e incompiuto I «Passages» di Parigi: «Chi cammina lungo le strade senza meta viene colto dall’ebbrezza – scrive Benjamin – Ad ogni passo l’andatura acquista una forza crescente; la seduzione dei negozi, dei bistrot, delle donne sorridenti diminuisce sempre di più e sempre più irresistibile si fa, invece, il magnetismo del prossimo angolo di strada, di un lontano gruppo di foglie, del nome di una strada». Questa «ebbrezza anamnestica» è tipica del flâneur, che, secondo Benjamin, parte dalla seduzione di ciò che vede e finisce nel perdersi «in un tempo scomparso», sulle tracce, ovvero, di ciò che non è, di ciò che è stato o che sta per essere. È esattamente quello che accade a James fin dal primo e più significativo saggio del volume, dedicato a Londra, metropoli che seduce lo scrittore americano, benché gli appaia «ripugnante, pericolosa, spietata e, soprattutto, dispotica», e che, nonostante ciò, gli produce «il presentimento mistico dell’attrattiva che un giorno la caliginosa Babilonia moderna avrebbe esercitato» su di lui. La flânerie di James è, di fatto, disponibilità a lasciarsi compenetrare da tutto ciò che lo scrittore osserva e mette su carta, poiché, come è detto in un altro dei saggi raccolti in volume – «Una stazione balneare inglese in inverno» – «Per il vero osservatore nessuna opportunità è del tutto vana e nessuna impressione totalmente insignificante». Del resto, «osservare» e «osservatore» sono le occorrenze lessicali più frequenti del libro, laddove lo sguardo di James si rivela prensile e analitico esattamente come nei suoi libri di narrativa. Londra appare come «il più grande corpo sociale del mondo», con i suoi colori, i suoi profumi, le sue strade, le sue «passeggiate campestri» da Notting Hill a Whitehall, i suoi negozi, gli scorci. È una scrittura tentacolare, che mette in moto tutti i sensi, attiva reminiscenze, ma è anche piena di un’elegantissima ironia. E tuttavia, come per il flâneur di Benjamin, anche per James la strada conduce «in un tempo scomparso». Che cosa voleva dire esattamente con questa frase il filosofo tedesco? «Per lui – scrive Benjamin, riferendosi sempre al flâneur – ogni strada è scoscesa. E scende se non fino alle Madri, tuttavia in un passato, che può tanto più ammaliare in quanto non è il passato suo proprio, privato. Eppure resta sempre il tempo di un’infanzia. Perché, però, quella della vita vissuta?». Questa commistione inesplicabile tra passato storico e infanzia vissuta si condensa in alcune tra le più belle pagine di questo libro, quando, ad esempio, enumerando alcuni dei difetti più ammalianti di Londra – «la fitta oscurità di buona parte del suo inverno, la fuliggine sui comignoli e sul resto delle cose, i lampioni accesi presto, lo sfondo marrone delle case, gli spruzzi d’acqua sollevati dalle carrozze in Oxford Street o lo Strand nei pomeriggi di dicembre» – lo scrittore americano cerca di spiegare il motivo del suo amore per la città, della sua «ebbrezza anamnestica»: «C’è ancora qualcosa che mi riporta alla mente gli incanti dell’infanzia – l’attesa del Natale, il gusto di una passeggiata in un giorno di vacanza – nel modo in cui le vetrine luccicano nella nebbia. Fa apparire ogni negozio come un piccolo mondo di luce e calore, e sono ancora capace di fermarmi a guardarle per ore, con il sudicio quartiere di Bloomsbury da un lato, e Soho, più sudicia ancora, dall’altro. Ci sono effetti di luce invernale, non per forza soavi, almeno a prima vista, che in qualche modo, rievocati, toccano le corde della memoria e addirittura la fonte delle lacrime; come ad esempio la facciata del British Museum in un pomeriggio buio, o il portico di uno dei grandi club quadrangolari sulla Pall mall. Non riesco a render conto fino in fondo di queste reminiscenze; nasce da associazioni di cui spesso abbiamo perso il filo».
Ma il «tempo scomparso» di cui parla Benjamin è anche, e soprattutto, quello della letteratura sulle cui tracce – e non poteva essere altrimenti – sempre James si pone («Allora più che mai mi assale il pensiero della Londra di Dickens, sento con più forza di poterla ritrovare, intenta a diffondere sprazzi della propria originalità per chi è in grado di coglierli»). I luoghi visitati sono, infatti, anche e soprattutto luoghi letterari, attraversamenti di testi e di autori, da Browning a Shakespeare, da Thackeray (esemplare, in tal senso, in questo volume, è il già citato «Winchester, Rye e il Denis Duval», un saggio sul romanzo incompiuto di Thackeray travestito da resoconto di viaggio), a Walter Scott, e allo stesso Dickens. Ma anche qui, si badi bene, la letteratura per James non è mai una fuga dal reale, anzi, è il suo potenziamento, strumento selettivo di esplorazione. «A Londra ho vissuto molto – scriverà nei Taccuini – sentito molto, pensato molto, imparato molto, prodotto molto». La città, il suo corpo urbano, diventano così metafora della vita, della «forma più possibile di vita», al punto da identificarsi con la stessa forma del romanzo. James descrive con grande chiarezza il suo atteggiamento da flâneur come disposizione creativa, nella Prefazione a La principessa di Casamassima, quando dice che «l’abitudine e l’interesse a camminare per le strade» di Londra, «con gli occhi bene aperti», finisce per provocare «decisamente, tutt’intorno, una sollecitazione mistica, il pressante appello, da parte di ogni cosa, ad essere interpretata e, finché possibile, riprodotta». Ancora una volta come il flâneur di Benjamin, allora, per cui diviene sempre più forte «il magnetismo del prossimo angolo di strada, di un lontano gruppo di foglie, del nome di una strada», la città diviene un testo da interpretare agli occhi analitici di un critico sempre attento al dato umano, al dispiegarsi della vita nei luoghi («Guai al critico di mestiere, al critico che non ha mai saputo cogliere l’uomo», scrive in «Winchester»). Così James viaggia per l’Inghilterra – visita Chester, Lichfield, Warwick, Devon, Salisbury, Wells, il Warwickshire di Shakespeare – con uno sguardo da investigatore, ispezionando ogni angolo, ogni paesaggio, ogni usanza, ogni monumento, e sempre cercando di trarre dai segni di ciò che vede una possibile spiegazione della realtà (sociale, storica, estetica). Che si dilunghi a restituire il fascino dei parchi di Londra, o delle «ampie distese ondulate di pascoli» nei prati del Warwickshire o delle chiese in rovina («Ho avuto spesso la sensazione che in Inghilterra il piacere architettonico più puro fosse da ricercarsi nelle rovine dei grandi edifici», scrive in «Wells e Salisbury»); che rifletta sull’organizzazione gerarchica della società inglese e sulle conseguenze della (mai molto apprezzata) democrazia, che descriva l’estate londinese o il viaggio di ritorno dal derby di Epsom come opera buffa; che renda conto del prestigio emanato dal Trinity College (con il suo giardino, definito «lo scorcio più bello del mondo»), o che perlustri la contea di Suffolk, l’obiettivo di James è sempre quello di cercare di «débrouiller il fascino dei luoghi». E sempre, leggendo queste pagine, siamo accompagnati dalla consapevolezza che lo scrittore e il viaggiatore siano tutt’uno, che in quella materia brulicante e contraddittoria, seducente e dispersiva che rappresenta l’Inghilterra, lo scrittore stesse sempre e comunque cercando di scavare la «sua pepita», il «granello d’oro» raccolto dallo «splendido spreco» della vita, da restituire come tesoro prezioso all’umanità.
Fabrizio Coscia