04 Aprile 2019

“Non si lavora a quel Volto come ad un qualsiasi volto. Non si compie qualcosa al di sotto delle proprie possibilità”. Sei artisti intorno all’Ultima cena di Leonardo. Su troppa bigiotteria si erge il Cristo di Samorì, un abisso

Lessi del restauro dell’ultima cena di Leonardo, qualche tempo fa, e un particolare su tutti: sulla testa del Cristo, al centro della fronte, era stato trovato un buco. Sulla testa del Cristo senza piedi, un buco. Nella rappresentazione della scena che precede la passione, un chiodo. Una notizia sparata nel centro del cervello. Questo chiodo serviva a tirare i fili della prospettiva, a tenere insieme la costruzione del quadro mantenendo lì l’emanazione centrale. Di tutti i chiodi della croce, che servono a tenere insieme un corpo che cadrebbe, ecco il chiodo centrale, pensai. Il vuoto di un chiodo. Il vuoto centrale.

Ho una convinzione. Ossia che ogni artista non faccia altro che lavorare alla propria scomparsa. Caricare la presenza incessantemente, scomparire come la manifestazione del paradosso che le compete. E voglio aggiungere anche una terza premessa confidenziale. Non amo vedere collettive. Mi piacciono le cose assolute, anche se minime. Un piatto unico da ristorante fatto per chi vuole assaggiare un po’ di tutto senza saziarsi di una scelta, mi stanca. Troppe voci offuscano il canto. Quindi ogni volta, il lavoro che da testimone mi trovo a fare (perché l’arte non va guardata ma va testimoniata se vogliamo ereditare qualcosa) è quello di sgombrare il campo, secondo un principio di manifestazione dell’opera. Un principio assai più ambiguo di quel che sembra a pronunciarlo, perché implica l’emersione dello svelamento di una relazione.

Quindi questa, lungi da essere una critica, è la mia testimonianza, confessando di essere di parte, come chi non appartiene a nessun mondo di riferimento se non a quello della relazione con l’opera.

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Facciamo spazio con l’accetta.

La mostra presenta 6 artisti: due italiani (Nicola Samorì e i Masbedo, ne parlerò per ultimo quindi pazientiamo), un britannico di origine indiana (Anish Kapoor), uno statunitense (Robert Longo) e due cinesi (Wang Guangyi e Yue Minjun) chiamati da curatore Demetrio Paparoni a lavorare sulla cena ultima di Cristo, dipinta da Leonardo in Santa Maria delle Grazie a Milano (di fronte al Palazzo delle Stelline che ospita la mostra) dove perdura nonostante tutti gli agguati interni ed esterni che l’hanno, fin dall’inizio, minacciata di scomparsa (dai materiali usati dallo stesso Leonardo per dipingere l’affresco non adeguati all’umidità del posto, ai bombardamenti della seconda guerra mondiale che hanno ridotto a macerie tutta l’area circostante l’opera la quale, invece, si è tenuta in piedi).

Credo che Paparoni abbia voluto mettere in tavola una varietà di possibilità. Mi sfugge la logica del numero degli artisti e della scelta delle esperienze pregresse di questi in merito al tema (e sento ad esempio anche la mancanza di una visione come quella dell’artista Agostino Arrivabene), ma è una mia mania quella di cercare relazioni di senso in un progetto che fa del passato storico qualcosa che ha ancora senso affrontare nel presente, e del presente il testimone di un punto eterno nella contemporaneità delle cose.

L’ultima cena secondo Wang Guangyi

Diciamo anche che l’atto dell’ultima cena, ossia la Transustanziazione, che divide il cristianesimo in tutte le sue professioni, è sulla separazione che si tiene. Quello che succede nel momento in cui il pane viene distribuito – nel momento più alto della comunione, quando tutto deve riunirsi nel passaggio tragico di cui la passione e la resurrezione solo quasi un compendio narrativo a questo – avviene in questa ambiguità dell’atto che rimane incomprensibile o incompatibile con l’umano: quello di trasformarsi (perché la transustanziazione è, per chi ci crede, il miracolo della trasformazione del pane nel reale corpo di Cristo e del vino nel reale sangue di Cristo e non in un “come se questo fosse il corpo” o “come se questo fosse il sangue”) in quello che già si è ossia nella presenza di una scomparsa tragicamente superiore all’evidenza: l’Assenza, che non è altro che il vero nome  vero dell’ognicorpo e l’ognilluogo. Cosi che si possa dire: per sempre io sarò con voi.

Molti degli apostoli, di cui spesso ignoriamo anche i nomi oltre che i talenti particolari, siedono al tavolo senza sapere quello che succede, fanno parte come dire di un landscape emotivo, un panorama psicologico dell’onda del movimento circostante: la scena. Mi piace pensare che, per un lavoro di sintesi, questa parte degli apostoli, nell’intenzione della curatela di Paparoni, sia assorbita dalla presenza di Wang Guangyi e Yue Minjun, i due artisti cinesi.

Il lavoro degli artisti orientali è per me in qualche modo ingiudicabile come un oggetto di bigiotteria che vuole splendere nel mezzo di una miniera d’oro, come una specie di burlesque nell’atto lento della danza del butoh. Pagano il prezzo di non conoscere affatto quello che stanno affrontando e di cercare di sopperire con un’idea o le dimensioni, quello che non sanno di non comprendere. È un po’ come trasformare in “lunch” l’ultima cena che non è un free party con stuzzichini (non che siano gli unici nel novero dei lavori sull’ultima cena prodotti dal restauro dell’affresco in poi). Quindi Signore perdona loro che non sanno quello che fanno. Ma aprono una riflessione: si può offrire solo ciò che ci appartiene?

L’ultima cena è un tema talmente ambiguo, puro e carico che le opere portate da Wang Guangyi e Yue Minjun danno come risultato un adolescente soffocamento dello spazio. Ti verrebbe da accompagnarle all’uscita, ringraziando per la partecipazione, perché è bene essere gentili con chi si è applicato.

Robert Longo: “purtroppo il lavoro di Longo, di cui mi ha sempre incuriosito la risoluzione estetica, non tiene”

Purtroppo il lavoro di Longo, di cui mi ha sempre incuriosito la risoluzione estetica, non tiene. E devo dire che mi dispiace. Lavorare al volto, in questo caso poi, è come lavorare al Verbo. E cosi traslando il vangelo di Giovanni possiamo dire per capirci meglio: “in principio era il Volto e il Volto era presso Dio e il Volto era Dio”. Il carboncino porta con sé un sacchetto di monetine appeso alla cornice. Certo sviluppa un punto tragico ossia quello del tradimento di Giuda su cui si appoggia l’ineluttabile. Ma in realtà il tradimento è un altro, è un momento più intimo di quel che sembra un volto segnato e detonato dal dolore di sapere già che un proprio discepolo farà quello che farà in un gioco di tempi devastante. Qui è l’artista che tradisce l’opera (e il suo talento) quando dimentica che si sarà giudicati dalle proprie opere ma anche da quello che si è mancato di compiere e una chiamata come questa è centrale nella vita di un artista, italiano o meno, che affronta il tema dei temi nell’iconografia di tutto il cristianesimo e nella storia di un’opera come l’ultima cena nella ricorrenza leonardesca.

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Paparoni ha sempre portato allestimenti dalle dinamiche soffocanti e controverse (non è forse cosi anche la scena dell’affresco di Leonardo?). Il che non è sempre negativo, se ragionato. Passare davanti a tutte le opere come a delle figurine di calcio che guardi al momento dell’aperitivo fermandosi sui lavori più grandi solo perché ti superano in altezza oppure costringersi ad un lavoro di isolamento nel mezzo del caos e cercare il diamante da cui essere illuminati? E così, noi che amammo Nietzsche, cerchiamo di partorire la stella danzante da quella confusione.

Anche Anish Kapoor per Leonardo: “una sindone, tela, un rovescio di sangue, una pelle, uno spellamento”

Portare il nome di Anish Kapoor, che certo tra gli artisti è il più noto, è stata una scelta che ho mediaticamente apprezzato. L’artista presenta un lavoro “splatter” di un abbaglio carnale da stancare più che scioccare. Perché quello che si vede nell’ultima cena non è il macello dell’agnello ma il corpo che da quel momento in poi manifesta la sua intenzione. C’è una fondamentale differenza di identità tra carne e corpo, perché il corpo supera la carne. Anzi, la carne è quello che il corpo vuole che tu non veda più proprio in virtù di un altro rapporto di crudeltà con la grandezza. L’ammasso – atroce – di Kapoor è cieco. I lavori dell’artista per fortuna sono due. Il primo, se isolato, ha la sua potenza tragica: una tela, anche questa sembra uno spellamento ma in assenza di corpo, con un versamento sanguinolento considerevole (mi piace ricordare che sulla tavola di Leonardo non c’è calice. Dove finirà tutto quel vino transustanziato poi nel sangue, dove ricordar se non lo berranno?). Posso dire che con questo lavoro finalmente entriamo nella scomparsa. Una sindone, tela, un rovescio di sangue, una pelle, uno spellamento, cose comunque fin troppo evidenti ed è bene che lo siano forse perché aprono il punto di decadenza della mostra. La freschezza, la crudeltà che si vorrebbe dal rosso, ossia dalla carne, dal sangue vivo è invece un grande invecchiamento rappresentativo, il che ha la sua verità. Rintraccio in quest’opera una funzione traghettatrice perché ti spinge a superare la sua stessa manifestazione. Entra in tensione con qualcosa che sta per avvenire. Non amo il fatto che questi lavori non siano stati realizzati per l’occasione. La chiamata a confrontarsi con l’ultima cena di Leonardo, dovrebbe sfondare la parete dei desideri, annichilire. Invece il “riciclo” di un’opera a tema, perde la pulsazione nonostante la volontà del lavoro curatoriale di prendersi cura anche di ciò che l’opera non pare considerare.

La saturazione di Kapoor dicevamo assolve un compito, fa da ponte verso due opere di due artisti. E qui entriamo nel vivo della mostra, quello che tiene in piedi tutto.

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I Masbedo, presentano sì un video realizzato in precedenza, ma un lavoro senza precedenti sull’ultima cena di Leonardo, di una pulizia formale, di una tenuta estetica intima, senza nessun ripiegamento sentimentale: le mani di una donna, ormai vecchia e diafana, che per 22 anni hanno lavorato al restauro controverso dell’ultima cena leonardesca. Un lavoro immane, lunghissimo, una cura del corpo fragile, di un affresco realizzato con materiali pronti ad autodistruggersi (nel 1566, a sessantotto anni dalla realizzazione di Leonardo, il Vasari appunta dopo la visita al cenacolo: ‘Non si scorge più che una macchia abbagliata”. Era tutto irriconoscibile), una riemersione dei corpi attraverso le mani di Madam Pinin Brambilla Barcilon.

La cura rimette al mondo. Per questo nessuno dovrebbe dimenticare la cura. Se si parla di memoria, di eredità, di storia dell’arte, la parola cura (e soprattutto l’atto della cura) dovrebbe spazzare una serie di malcostumi e malfattezze della distrazione con cui non solo ci conduciamo tra le opere secolari, ma conduciamo noi stessi, il nostro sguardo nel mondo dopo essere passati attraverso opere secolari come se la loro dimenticanza o la loro rovina non fosse anche la nostra. Un corpo curato è un corpo passato per un danno e in virtù di quel danno che poteva lasciarlo leso e addirittura farlo scomparire, qualcuno apre una relazione di emersione, di ri-comparsa e anche di ricreazione. È un legame di fiducia col tempo che rischia l’ambiguità dell’essere consegnati nelle mani di qualcuno dopo di noi.

Nell’ultima cena, in tutti i movimenti, si scorge la confusione che apre all’apocalisse che poi arriverà. Apocalisse vuol però dire Rivelazione. Ri-velare: una doppia negativa di vestimento che però scopre un nudo. E cosi eccole le mani nude e nodose, mani che sembrano ceppi, radici, che sono invecchiate nella riemersione del dimenticato, che si sono contorte nella ricerca millimetrica della figura. Cosa hanno salvato e cosa hanno reinventato quelle mani?

Masbedo: “Bisogna essere sovrastati dal dettaglio di quelle mani, dalla potenza della fragilità nel chiarore della luce di una grazia remota”

Del corpo di Cristo si prendono cura le donne. Eppure, a parte la lettura sull’ambiguità della figura di Giovanni, non ci sono donne invitate a questa tavola. Non Maria e la sua verginità, non la prostituzione della Maddalena e la sua conoscenza per toccamento (toccare i piedi, farlo con i capelli). Ed ecco che arrivano le mani di una donna a recuperare quel che non riesce a tenersi in piedi. Il mestiere, non solo l’arte. Il mestiere lungo di una donna che permette all’arte di non smettere di splendere, di mantiene la memoria delle cose, del fare, che tocca i punti della debolezza dove la figura subisce il suo stesso scaricamento. Ecco che interviene l’aiuto, la conoscenza dell’identità di quello che hai di fronte, il rapporto profondo con quello che le mani vedono, l’essere delicati, l’essere persistenti, l’essere carezzevoli, tenere alla relazione con quello che di imperfetto si va conoscendo, accudire un corpo che è il corpo dei corpi. Queste mani sembrano una pupilla, vedono quello che noi non vediamo, conducono, sono un medium intero che permettono alla Cena di essere tra noi.

Mi piace ricordare che nel dipinto le mani che si legano come somiglianza di movimento sono quelle di Giuda e di Cristo. E le mani di Madam Pinin sembrano il terzo paio di mani, la destra di Cristo, la sinistra di Giuda che parlano di una stessa storia. È come se i Masbedo, isolandole, avessero fatto emergere una cosa fondamentale: che si somiglia, prima o poi, a quello a cui ci si dedica.

Il video è ipnotico, apre uno spazio di verità sul confronto con l’opera di riferimento ed è un lavoro degno di silenzio, intelligente, esteticamente compiuto, che Iacopo Bedogni e Niccolò Massazza (i Masbedo appunto) presentano con la loro cifra quasi crudele, cristallina.

Il video, accompagnato poi da alcune immagini delle mani a parete, avrebbe meritato uno spazio diverso e questo bisogna dirlo. Bisogna essere sovrastati dal dettaglio di quelle mani, dalla potenza della fragilità nel chiarore della luce di una grazia remota, dal movimento delle mani che aprono un linguaggio isolato durante il parlato di cui non si sente l’audio.

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Ma poi eccolo il capolavoro. E tutto si sbilancia verso di lui. E cosi, come quel buco in mezzo alla testa ritrovato nel restauro del lavoro di Leonardo che serviva per la prospettiva di tutto il quadro, ecco quel buco si allarga, si espande, divora la figura da cui è tratto. Il punto in cui tutte le ferite vogliono arrivare, l’assoluto dell’animale non umano della comprensione.

Il sembiante dell’ultima cena è un lavoro rischiosissimo.

Nicola Samorì, lo sfiguratore in virtù della grazia, il resurrettivo in presenza di atto finale, il chirurgo, lo spellatore, il ricuoiatore tenero, il delicato, il custode, colui che prende la storia dell’arte come storia alla propria portata e la riproduce con una fedeltà assoluta perché assoluto è il segno che inciderà sulle opere, perché attraverso lo sfiguramento delle pelli recuperiamo la presenza sformata che illumina o squaglia i nostri tentavi di comprensione, gli abusi dei nostri rapporti solidi con la bellezza, quello che crediamo di vedere.

Nella tavola leonardesca lavorata da Nicola, non compare più un Cristo compassionevole, distaccato per la sua stessa conoscenza dei tempi e dei fatti, il Cristo che non fa la domanda sul tradimento ma è detonato dalla sua stessa consapevolezza su quello che accadrà mentre tutti si domandano chi sarà il traditore e si distraggono in questa falsa domanda. Non è più il Cristo profondamente velato da quello che dovrà accettare ma che era stato già accettato in un punto eterno dentro di lui. Ecco, questo Cristo Samorì lo supera con un salto nell’abisso della figura. E non compare più in nessuna identità di genere, di qualifica, in nessuna possibilità di riproducibilità, in nessun grado di parentela con nessuna relazione. 

Tutta la cena, tutta la scena della cena che è realizzata su rame, perde completamente luce dallo sfondo, è marcata con lo zolfo, un elemento tutt’altro che celestiale visto che è spesso viene ricordata alchemicamente la sua relazione con il male. Tutto è corroso dallo zolfo qui. È corroso il paesaggio da cui viene la luce attraverso le finestre – buio – sono corrose le mura della stanza, persino i vuoti, il tetto, i vestiti di tutti. Sono corrose le mani, le teste, i colli, i visi di cui si ragguagliano ancora certi tratti di riconoscimento del volto in alcuni, e in altri sembrano comparire sezioni craniche come figure sottoposte ad una risonanza magnetica. Il male è lì, riprofila, sembra lasciare tutto com’è ma maneggia, corrompe ogni sostanza.

Nicola Samorì: l’opera capolavoro della mostra

Ma soprattutto è corrosa l’aria. Il colore ha una tosse, il chiaro si ingolfa, cede, scompare in questa tosse. Lo zolfo prende ad annerire i gradi di vita delle figure e quella che dovrebbe essere l’aura della presenza del divino in ciascuno, ecco anche quella lo zolfo mangia col suo nero e perfino le ossa prendono cenere. Più lo spirito è vitale, sembra dire, più la mia oscurità si fortifica, smorza i linguaggi nelle vicinanze. E cosi intorno alla figura di Cristo un buio completo apre il buco nero dello spazio. Il nero ha premuto così tanto sulla figura, così intensamente l’ha isolata dal resto delle forze, cosi ferocemente l’ha estratta dalle relazioni circostanti, tenendola tutta per sé, così potente questa combustione, questo ardore oscuro da fare il lavoro supremo. La transustanziazione, il miracolo, è sorpassato, fa parte del tempo, è dato perché gli apostoli non abbiano paura del tempo ma intanto tutto è già superato, l’atto finale è compiuto prima di compiersi. Il cannibalismo che vela l’idea del pane in cui davvero risiede il corpo di Cristo, è roba vecchia, il tradimento lo è, come un intrattenimento funzionale paura di morire in un legame assoluto. Mentre tutti sono presenti, mentre il male raggiunge il suo punto di oscurità più esemplare, senza dolo apparente, la figura compie un salto, gronda il suo scioglimento sul tavolo, si riversa con la grazia di una sindone dismessa nell’altezza del disastro, e al suo posto, riprofilato da quello stesso nero (se pensiamo che religione vuole anche dire cornice…), un interno potentissimo emana una frequenza quasi paralizzante. Quell’interno è un posto sconosciuto, uno svelamento che annienta i linguaggi e compare nella sua irraggiungibilità esattamente davanti a noi.

Non voglio perdere tempo a dire tutto quello che si potrebbe dire sull’Assenza che diventa Presenza massima quando prende una risoluzione di spirito molto alta, in virtù di quello che il vuoto lascia splendere per il rilascio delle forze (vi rimando all’apertura dell’articolo), né sull’apparenza della figura che nessuno sa da cosa sia tenuta nel suo segreto, perché è tutto vero e lo sappiamo. E ho già detto che credo che ogni artista lavori alla propria scomparsa.

Riprendo quello che dicevo a proposito dell’opera di Longo, al rimprovero che gli ho mosso.

“In principio era il Volto e il Volto era Dio e il Volto era presso Dio”. Non si lavora a quel Volto come ad un qualsiasi altro volto. Non si compie qualcosa al di sotto delle proprie possibilità.

E così via critica, via curatela, via l’artista, via tutto.

Quando mi sono avvicinata all’opera di Samorì, davanti a quella scomparsa pensavo mentre tutto si riduceva attorno a me: siamo fatti ad immagine e somiglianza di che cosa?

Qual è la tua immagine?

Ci somigliamo da che parte?

Se mi avvicino subisci un tradimento?

Posso entrare o devo solo dimenticarmi?

Possiamo unirci mediante una stessa enunciazione?

Posso toccarti?

O, dimmi, in quale immagine devo seppellire il nostro niente verticale?

Tiziana Cera Rosco

P.S. Ringrazio Demetrio Paparoni che, critiche a parte, ha permesso la nascita di molte opere. Fare la curatela non è un lavoro semplice e spesso riguarda anche cose che devono ancora venire alla luce e che senza l’intuizione che spinge rimarrebbero chiuse in qualche polmone sottovuoto, asfissiante, prima di nascere.

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L’ULTIMA CENA DOPO LEONARDO

A cura di Demetrio Paparoni

Artisti: Anish Kapoor, Robert Longo, Masbedo, Nicola Samorì, Wang Guangyi, Yue Minjun.

Dal 02 Aprile 2019 al 30 Giugno 2019

LUOGO: Fondazione Stelline

INDIRIZZO: c.so Magenta 61 Milano

ORARI: da martedì a domenica 10-20 (chiuso il lunedì)

Gruppo MAGOG