22 Marzo 2019

Su Paul Valéry, ovvero: discorso contro il monoteismo della ragione e l’estetica da geometra

All’apice della “crisi dello spirito”, dopo la Seconda Guerra mondiale, cosa fa il grande Valéry, questo amico fraterno di Pitagora e Cartesio? Per salvare le sorti della civiltà o della cultura, dell’arte e della letteratura, fa appello a una massiccia iniezione di pensiero, spirito e alle creazioni della mente. Vagheggia un tempo libero ideale. Un’interiorità anti-mondana, affine alla disposizione di Proust. Un training intellettuale quotidiano fatto di rinunce, igiene. Un’oasi salutare. Un porto sicuro che mettesse fine, qua giù e ora, al periplo della caotica esistenza mondana: “il solo modo di preservare integra la libertà dello spirito… quella vacanza interiore, quieta, in cui lo spirito, sciolto dagli obblighi sociali e spogliato della propria personalità, è libero di occuparsi unicamente di se stesso”, in cui si “può produrre delle formazioni pure come cristalli”.

Figlio di una duplice matrice – il paganesimo del razionalismo greco e l’armonizzazione utilitaristica delle passioni invocata dai philosophes francesi del Settecento, e questo benché egli li detestasse – Valéry fu indubbiamente attratto dall’Odissea e i suoi eroi della ragione, della mente. Dal poema dell’interiorità e dello spirito. E non certo dall’Iliade, il poema della forza, dei sensi.

Fu dunque solo un angelo stregato dal sensibile. Il suo “piacere delle apparenze” era viziato da una disposizione platonica. La scuola mediterranea a cielo aperto, da cui ha sempre preteso di aver imparato ad abbracciare la vita in tutta la sua ambigua complessità, a non disdegnare persino la visione dell’orrido, in realtà è una pura niaiserie, poiché: “se da un lato disgusta l’animo, dall’altro appaga l’occhio e l’intelletto”.

Il sordido, il disgustoso, viene esaurito ed espresso in una gamma che va dal negativo al positivo, a una superiore conciliazione. La parte negativa è inglobata in un mondo ordinato, positivo, un’armonia attraverso violente disarmonie. Un punto d’osservazione più elevato in cui le disarmonie sono percepite come contributi a una più ampia armonia. Ma questo è puro Goethe, o Spinoza. L’appagamento dell’occhio, anche nella visione dell’orrido, e nel piacere delle apparenze, in Valéry sono puramente oculari, platonici, intellettuali.

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Fu un adoratore dei sensi, ma en philosophe, solo da lontano. L’orizzonte della sua percezione non concederà mai nulla al primato sensibile del tatto e del corpo. Solo alla vista, all’ideale e al mentale, concederà tutto. A quegli occhi che, direttamente collegati al cervello, alla mente, sono la sua unica parte esposta, all’aria aperta, esteriore, visibile. E rappresentano il vedere, il “conoscere ogni cosa” dei greci, la loro “mente superiore”. Quel sapere che permette di costruire una nuova realtà che non esiste in natura.

Avendo proclamata sovrana l’intelligenza, bandita l’ingenuità, i sentimenti e le passioni, l’orizzonte intellettuale di Valéry non poteva che sigillare la regione apollinea, un politeismo raggiante, diurno, che potesse sottomettere: “la macchina corporale al controllo della mente”. Al pari del suo Monsieur Teste, egli opponeva all’esteriorità una rigorosa ipostasi intellettiva, una mente artificiale padrona di sé, impermeabile alle passioni e a ogni impura regressione animalesca. Una tendenza austeramente puritana alla rinuncia e alla mortificazione. Un rifiuto ostinato dei piaceri mondani. Un ascetismo intellettuale che vede nell’uomo concreto un vaso impuro, un ammasso di peccato e corruzione. Se tutti gli uomini sono dannati, è necessario estirpare da sé ogni desiderio naturale!

Questa è la concezione, e la gabbia, cui Valéry sottopose sempre la propria intuizione poetica. A una disposizione ascendente del pensiero. Al punto che nelle sue opere troviamo continuamente perle come queste: “il reale avrebbe contenuto le idee, mentre lo spirituale avrebbe, forse, nobilitato le azioni”. E benché una riduzione completa si rivelava improponibile, ed egli ammettesse a malincuore l’impossibilità di vivere costantemente come M. Teste, questi sarà nondimeno un ideale cui almeno tendere.

Fattosi insularità interiore, ritiro intellettuale, dubbio corrosivo al servizio di un impietoso rigore scientifico, egli amerà gli inni al digiuno, per cui farà suo quello di Prudenzio: “E quando avrà sconfitto il desiderio e la bramosia, allora lo spirito trionferà da dominatore”. Degno rappresentante delle gelide dissezioni anatomiche dei critici francesi del Settecento, egli consigliava, prima di maneggiare tutto ciò che è impuro, una profilassi da chirurgo. E cosa aspettarsi da chi, come lui, riusciva a estrarre da sé, indifferentemente e a comando, a orari prefissati, dalle 5 alle 8 del mattino, il meglio dei suoi pensieri, come solo potrebbe un anatomista, a freddo? Con un esercizio intellettuale che si volgeva in semplice macchina conoscitiva, fatta di chiarezza, rigore e classificazione pura.

Perfino il mare, da lui così adorato e usato come metafora, è quel fenomeno che amerà da semplice spettatore, al riparo di una terrazza o di un balcone: “per me non vi è spettacolo che valga quello che si può scorgere da una terrazza o da un balcone ben disposto sopra un porto”. Il mare, terrae incognitae, muta in spettacolo per un flâneur. Al riparo di un luogo, la rada del porto, da cui assistere con l’insaziabilità del suo occhio intellettuale: “al maestoso arrivo delle navi e al brulicante traffico di merci che anima la vita portuale… per spaziare liberamente tra l’umano e l’inumano, e vedere l’opera razionale dell’architettura che si oppone all’azione brutale, incessante della natura.”

Da splendido veliero che non prenderà mai il mare, quale è, Valéry non vedrà mai il mare aperto o le onde furiose del reale. Tutti noi, infatti, abbiamo amato e conosciuto il mare nella nostra adolescenza, al pari di Valéry, ma questo non fa di noi degli adoratori dei sensi, creature capaci di avventurarsi, spesso nostro malgrado, anche nell’ignoto o di sostenere lo sguardo di una sapienza notturna. Il mare, per Valéry, fu solo un teatro naturale soggetto al suo stupore intellettuale. L’ignoto guardato dalla terra ferma. Una reminiscenza infantile, illibata, sfrondata da ogni ambiguità. Se mai ebbe qualche avventura, fu solo quella dell’erudito. L’avventura umana di un delicato.

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Le sue incontestabili divinità pagane, il mare, il cielo, il sole, furono tutte ammirate con il cannocchiale del raisonneur che disconosce i chiaro scuri atmosferici. Gli elementi che colmarono il suo sguardo furono sempre la luce, la limpidezza del cielo, la nitidezza delle forme e dei colori, che destano altrettanto immancabilmente l’impulso apollineo alla conoscenza e alla costruzione di un pensiero fatto di idee chiare e distinte. Filtrati da un’ottica raggiante, attica, geometrica, antisettica, la geologia e i fenomeni atmosferici, in lui, non trasuderanno mai la physis. Un’eco atavica. La bellezza inquietante e indiscreta dello sguardo animale. L’assordante silenzio minerale delle ere geologiche. Perfino il suo pessimismo subirà tale sorte. Questo genere di scettici sono credenti che si inginocchiano di fronte alla ragione. Il monoteismo della ragione e il politeismo dell’arte al servizio di tale monoteismo. È questo, e nient’altro che questo, il suo paganesimo. Siamo alla natura vista attraverso il filtro dello charme parigino, del Gusto. Dove l’ignoranza primitiva è solo una bambinata indegna dello Spirito. È solo questa la scuola mediterranea di Valéry, il suo universo ordinato. Una venerabile tradizione estetica che vede nell’arte l’anti-natura. Il tenter de vivre che si riduce a una retraite spirituale. A un’immaginazione secolare, presa dalla morsa razionalistica e intellettuale, incapace di fare esperienza del reale, poiché irreparabilmente viziata da una rigidità permanente. L’estetica di un geometra. D’altronde, da buon francese cartesiano, Valéry fu essenzialmente “inadatto o restio alla profondità”.

Siamo da sempre vittime di questa estetica. Dell’ideale di un io puro, la vigilanza critica, l’orrore delle contingenze. Della creazione intelligente. Il culto e feticismo della suffisance esthétique. Il sogno di tutti coloro che vogliono ridurre le contingenze a un’esperienza formale, all’intelligibile. A una disposizione formalista, e al verbo. Al lato estetizzante, alla raffinata promozione delle più delicate ricerche formali, al culto dell’intelligenza critica. Alla scientifica dissimulazione della realtà dell’abisso. È la fuga dalle contraddizioni assolute. Il dilagare di un antico e freddo pregiudizio per la matematica, autentico monumento al non-io, unito a un odio gnostico per la materia, e un amore quasi mistico per la forma. Il demone della lucidità nel genio dell’analisi. Pura ingegneria filosofica, scientifica o letteraria, al servizio di un fondo classico: “il sistema del classicismo, comunque orientato, è l’antitesi e l’esclusione dell’individualità; in questo sistema rigorosamente oggettivistico, l’io e il soggetto non possono vantare alcun diritto reale”.

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Evocare e valorizzare, alla stregua di un mito laico, la geometria, la matematica, Pitagora, le scienze esatte, lo spirito, la mente, il pensiero, l’intelligenza, l’armonia, ossia tutti i sinonimi della ragione, fu un sogno. E una temibile illusione. Un territorio cognitivo in cui l’interesse principale venne rivolto alla conoscenza in sé, al progresso della scienza e a quello di accrescere il sapere teorico, analitico, e un’attività critica che giustificava la conoscenza intellettuale, e dunque la vittoria di una visione Illuminista della realtà.

Valéry, abbagliato dalla gabbia lucente della chiarezza autocosciente, dalla perfetta cognizione di ciò che si sta facendo, da un prodotto elegante, simmetrico, ma fatalmente morto, fu sempre sedotto da questo genere di autonomia. Faceva parte di quella famiglia di pensatori per cui ogni “spontaneità è disordine, ogni libertà capriccio, ogni natura un atto di provocazione nei confronti dell’intelligenza”. Il solo postulato di una legge del discontinuo, infatti, lo turbava. Fu l’uomo invaghito dalla purezza formale, irritato dalla discontinuità della vita reale e, benché le apparenze non gli dispiacessero, niente in lui prese mai un aspetto profondo, al punto che vegeterà una vita intera in una “fascinazione esente da vertigine”. La sua lucidità diurna detestava il soffio dello spirito che non conosceva direzioni prestabilite, lo spiritus flat ubi vult che influenzava gli sciocchi, a suo dire. In questo non molto dissimile da Kant, che disprezzava ogni specie di stravaganza, di fantasticheria, quella che chiamava Schwärmerei, qualunque forma di esagerazione, misticismo, vaghezza, confusione.

Non a caso, ai giorni nostri Ceronetti scrive: “Spinoza non osa la confusione, dunque fallirà”.

Luca Orlandini

Gruppo MAGOG