Caro Davide,
qui urge una svolta, un cambio radicale di rotta, un’inversione a U con testacoda a tutta velocità. Altrimenti, il prossimo anno sentiremo le solite polemiche del menga sul libro fascista, quello comunista, quello pro-spartani o pro-persiani alle Termopili.
Che due coglioni! Letteratura edulcorata per non offendere “anime privilegiate”, come avrebbe scritto Pasolini. Io, invece, dico: portiamo al Salone del Libro di Torino la vitalità bastarda e animalesca di Pangea. Per qualche giorno, in luogo degli articoli, urleremo le nostre parole aulicamente sboccate alla platea altrimenti costretta tra la Gamberale e i soliti testi sui migranti mai visti di persona e profondamente amati a distanza di sicurezza.
Ho anche un programma ben preciso, se mi presti attenzione. Io e te, famosi – si fa per dire – in ragione dei nostri scontri su ogni testo che ci passa tra le mani, in barba al politicamente corretto e alla compostezza stomachevole dei letterati, potremmo finalmente darcele di santa ragione su un ring. Sì, la mia idea è di dare avvio alla kermesse con un incontro di pugilato, io e te. Le nostre polemiche, del resto, sono fatte di sangue e sudore, montanti e diretti, denti rotti e bestemmie. Spaccarci vicendevolmente la faccia al cospetto di Nicola Lagioia che suda e s’indigna per la nostra brutalità e Raimo che grida in falsetto “Non è possibile, non è possibile, sono arrivati i fascisti”, sarebbe divertente. Propongo come arbitro Francesco Polacchi di Altaforte Edizioni. Come la vedi? A me questi scrittori che non sanno neppure tirare un cartone mi sembrano un branco di mezze seghe. Cosa ne possono sapere della vita, se non sono mai stati nel bel mezzo di una rissa. È come voler scrivere senza essere mai andati con una donna. Ti pare che siano veri autori – e quindi veri uomini – questi che non fanno entrare un editore al Salone, invece di risolvere le cose alla vecchia maniera, con un minaccioso “ci vediamo fuori”? Che branco di senza palle, fratello mio!
Ma dicevo… tolti dai coglioni Lagioia e Raimo – e tenuto Culicchia, uno che di stile ne ha da vendere – potremmo finalmente mettere in piedi una manifestazione come si deve. Te lo preciso subito, io porterò e intervisterò Houellebecq. Saliremo sul palco, dopo esserci fatti un paio di bottiglie – e rigorosamente con la sigaretta in bocca. Tu, però, mi dovrai affiancare come al solito e insultarlo. Altrimenti diventerebbe il classico incontro dove si spompina pubblicamente l’autore di turno, perché edito anche lui dal medesimo editore dell’amico dell’amico che ti giudicherà poi l’anno seguente al Premio Strega.
Direi che noi dovremmo far entrare tutti senza distinzione – mica abbiamo paura di qualcuno, o delle sue idee. Anzi, ben vengano i mostri! Altrimenti saremmo come quelli di “Nazione Indiana” che scrivono ai direttori di giornali e telegiornali perché non si sentano più certi pensieri impuri in televisione e non si generi odio, o un qualsiasi sentimento negativo. Per carità! Piuttosto che quelli, preferirei invitare un trafficante d’organi o qualche boss della mafia nigeriana. Poco ma sicuro, conoscono l’Uomo da vicino e meglio di loro.
Ma, in generale, permettimi la confidenza, amico mio, io aborro qualunque festival o evento pseudo letterario che dir si voglia. Ho sempre il sospetto che sia l’ultimo posto dove si possa incontrare un vero fustigatore della pagina bianca. Lo scrittore vive nel flusso, lì dove sta la vita – o almeno dovrebbe. Io lo dico sempre: un viale buio e nascosto, dove una puttana e il suo cliente si appartano nello strazio di un rapporto mercenario, o all’hospice – l’anticamera del paradiso – dove i malati di cancro passano i loro ultimi giorni tra morfina e merda, mi sembrano la migliore scuola di scrittura… Ho un’idea, portiamo meretrici e degenti all’ultimo stadio, il prossimo anno, al Salone. Magari a Raimo prende un coccolone e inizia a gridare, sempre in falsetto: “No, no, non mi va bene! Io, stamane, mi sono passato il borotalco e questa cosa che voi chiamate ‘realtà’ puzza troppo per i miei gusti”.
Matteo Fais
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Caro Matteo,
questa è la proposta che vorrei inviare, con documenti appropriati, alla baronia del Saloon del Libro. spero potrai condividere.
Salone e Fiera sono parole che non si addicono alla parola libro – la contraddicono, la mettono in ridicolo. Il Salone è il saloon dello spaccio: ci sono saloni dei mobili, dei salumi, delle automobili. I libri non stanno in un ‘salone’ come non decorano un salotto. Alla Fiera, che almeno ha in sé qualcosa di selvatico, di ferino, di amazzonico, di solito, si fa festa, tra apocalisse e carnevale, magari. Ora. Il Salone del Libro, si sa, è come una fiera delle vacche: si mettono sul palco gli scrittori che vanno debitamente promossi – e che si sdebiteranno del favore – e sui banchi i libri vengono serviti come quarti di carne, accompagnati dall’afrore orrendo dell’essere umano quando è uno appiccicato all’altro, in larghe lasse di massa. Ama il prossimo tuo – purché non ti stia addosso, accanito di fama.
La prima cosa da fare, dunque, è cambiare il nome. Non più Salone del Libro.
Dico di più. La seconda cosa da fare è togliere i libri dal Salone del Libro. Toglierli dalla piena vista, toglierli dall’ovunque, dando idea di ingestibile spreco, di vomito.
I libri, infatti, vanno desiderati, amati, nascosti, contrabbandati. Non vanno spacciati, sputtanati, ostentati.
Un Salone vuoto, ecco cosa sogno, con rimbombo di cattedrale e delizia monastica. All’interno, delle piccole celle. In ciascuna cella, un libro. Ripiegato, celato. In alcune celle il libro è bianco e chi vi si approssima, in decorato riserbo, può scegliere se violentarlo con i propri pensieri con le proprie storie, oppure godere di quel bianco, una specie di immersione placentare. Alcuni possono decidere di stare settimane nella cella, perché l’approccio al libro bianco è una mistica.
In altre celle, c’è gente che si ingroppa. La carne. Il corpo come libro. La casualità claustrale dell’atto. Anche qui. C’è chi può contemplare di carezze un volto, stordito dalla sua perfezione, e starsene beato, giorni, in quel gesto di glaciale inadeguatezza; e chi bombarda l’altro a zappate di lingua, di mani, di tutto. Il libro nell’incendio del corpo.
Poi c’è la cella degli eremiti, che ripetono con incessante dedizione lo stesso versetto dello stesso libro fino a diventare essi stessi quel versetto, tramutando la postura in verbo, gli occhi in lettere.
Poi c’è lo spazio dove i libri vengono bruciati, per rigenerarsi.
Poi c’è la cella piena di farfalle: da quell’alcova di fruscii una donna sta leggendo Il dono di Nabokov.
In una cella, del tutto bianca, si aggira uno scarafaggio, un uomo di nome Leopold Bloom, che sta aspettando Godot, lo rincorre e infine, consapevole del tempo perduto, lo inghiotte – ma l’insetto continua a camminare nella sua testa.
Nell’ultima cella c’è il giaguaro delle nevi – l’esotico assoluto – qualcosa che puoi devotamente scambiare per dio. A lui consegni la sola parola che ti cinge – perché a questo serve un libro, a trovare la parola, la sola – e lui sceglierà se sei degno di pasto o di rifiuto.
Cosa te ne pare, Matteo?
Un Salone del Libro come esperienza totale, fino allo squarcio. D’altronde, basta poco per fare meglio di questi mestatori dell’ovvio, questi benpensanti del capitale, a cui non importa l’incanto ma l’incasso.
Davide Brullo