31 Agosto 2022

Una fatwa contro il genio. I radical chic vogliono dare il Nobel a Salman Rushdie

La campagna elettorale per il Nobel alla letteratura è iniziata. In un pezzo di rara idiozia, David Remnick, direttore del “New Yorker”, ha dichiarato che It’s Time for Salman Rushdie’s Nobel Prize. Per lo meno, ora sappiamo da che lato si schiera la cultura newyorchese, gli ayatollah del progressismo, i dandy del bene, imprenditori dell’ovvio, latamente impegnati, provvidenzialmente ricchi. Tom Wolfe li chiamava radical chic, qualcuno dirà fighetti o fichissimi, preferisco cretinetti, dà il giusto valore – iniquo – alla polemica.  

Vale la pena studiare la struttura dell’editoriale costruito da Remnick. Attacco che sfotte i francesi – “Nel 1901 l’Accademia di Svezia conferì il primo Nobel per la letteratura a Sully Prudhomme, poeta francese di modesta importanza ai suoi tempi, a mala pena ricordato oggi” –, sviluppo che ruota intorno a un concetto condiviso da tutti, un tappeto rosso di banalità: il premio Nobel, quanto ad autorevolezza letteraria, vale zero. Remnick ha facile gioco a fare la lista dei “Nobel della letteratura sospetti, quanto meno dubbi”, la facciamo anche noi ogni anno: “Rudolf Eucken, Paul Heyse, Władysław Reymont, Erik Axel Karlfeldt, Verner von Heidenstam, Winston Churchill, Pearl S. Buck, Dario Fo”. Viene da credere che li abbia letti tutti, alla luce di tale certezza. All’elenco dei non nobilitati dal Nobel (immenso, va da sé, va da Borges a Rilke, da Marcel Proust ad Anna Achmatova), tuttavia, l’incravattato direttore della rivista più snob d’America dovrebbe affiancare quello dei Nobel per la letteratura indiscutibili. Tra Ernest Hemingway e William Faulkner, Eugenio Montale e Seamus Heaney, Elias Canetti e Pirandello, André Gide, Thomas S. Eliot, Boris Pasternak, Saint-John Perse, Samuel Beckett, Yasunari Kawabata, Isaac B. Singer, Iosif Brodskij, ad ogni modo, è un bel leggere. Ma questi, appunto, sono i sofismi dei mestatori di rancore, gargarismi da orafo del nulla.

Sorprende, piuttosto, la ‘motivazione’ che Remnick adduce per supportare l’assegnazione del Nobel a Rushdie. Lo scrittore angloindiano “è il campione instancabile della libertà di parola… Negli ultimi anni ha vigilato sulla minaccia alla libertà d’espressione brandita da due grandi democrazie: l’India, dove è nato e cresciuto, e gli Stati Uniti, la sua patria adottiva dagli ultimi due decenni”. Rushdie, insomma,

“merita ampiamente il Nobel, anche perché ha assunto il ruolo di difensore intransigente della libertà ed è diventato un simbolo di resilienza”.

Applausi. Rushdie è uno dei buoni, è uno dei nostri. Che le ragioni squadernate da Remnick – buone & giuste in campo sociale – non abbiano nulla a che fare con la letteratura, con il talento artistico, è un mero dettaglio, un’inezia, primizia per bertucce: il Nobel è questione politica, dell’arte non frega a nessuno. Dietro il sacro volto del giusto, fa capo la gretta ipocrisia del cinico.

Salman Rushdie ha scritto un ottimo libro – I figli della mezzanotte –, alcuni buoni romanzi, altri meno. Il Nobel non si ottiene per meriti morali – sadico vizio delle suffragette puritane, dei bacchettoni del “New Yorker” – ma per grandezza estetica. Sappiamo ancora riconoscere il bello, il perturbante, lo sconcertante? La battaglia sacrosanta perché uno scrittore possa scrivere ciò che vuole – in letteratura il diavolo non alligna all’ombra della blasfemia, ma della banalità – non lo esime dalla vertigine formale. In letteratura cosa si scrive è secondario rispetto al come si scrive, altrimenti gli scrittori sarebbero filosofi, tristi alfieri del bene comune, neofiti di una religione per beoti. Purché sia impeccabile, formalmente eccitante, il romanzo più laido è degno di lode; non c’è peggior romanzo di quello che narra una pia vicenda in uno stile modesto, mediocre. Possiamo accettare il vieto millenarista – un brutto libro è imperdonabile. La letteratura, infatti, non deve educare ma conturbare, non deve convertire bensì corrompere, non ha nulla da dire, mostra, piuttosto, ciò che non vorremmo vedere in mostra.

Così, con la stessa energia con cui ci siamo indignati per il vile attacco ordito contro Rushdie, dovremmo lottare affinché il più schifoso dei fondamentalisti islamici, qualora abbia scritto un capolavoro, possa ottenere il Nobel per la letteratura. Secondo la – codarda – strategia di Remnick, che intorbida la letteratura con il veleno moralista, a questo punto, premiamo il bravo vescovo minacciato dagli intransigenti nigeriani che ha scritto un canzoniere d’amore, castissimo, oppure il belloccio impegnato – con svogliata enfasi – nella difesa dei “diritti” – qualsiasi essi siano – con un romanzo ottimo per Netflix; altrimenti, premiamo Mario Desiati, Marco Missiroli, Roberto Saviano, questa scia di scrittori che sorridono, bravi, dalla parte giusta.

La verità è che Salman Rushdie, per decenza letteraria, non merita il Nobel più di Martin Amis, Richard Millet, Christoph Ransmayr. Il vero gesto politico dell’Accademia sarebbe affibbiare il Nobel a Michel Hoellebecq, scrittore che più di altri ha riferito le nostre nevrosi, ha setacciato l’immaginario occidentale. L’atto più coerente, autenticamente giusto, invece, sarebbe mollare il premio a Cormac McCarthy: quest’anno pubblicherà due romanzi, The Passenger e Stella Maris; il precedente, The Road, è del 2006. McCarthy ha scritto alcuni dei romanzi più potenti e fondativi del secondo Novecento americano. Ma qui sfociamo nell’ambito della leggenda, qualcosa di evanescente e incuneato, tra la scia del cobra e il petroglifo, che non ha debito né saldo. Quando un premio diventa un premio ‘alla carriera’, non ha più senso, e in letteratura conta tutto tranne il denaro. McCarthy, se è lui, non andrebbe a ritirare alcun premio, pittato da pagliaccio.

Quanto è subdola l’azione del direttore del “New Yorker”: vuole sottrarre alla letteratura il residuo potere eversivo, radicale, pericoloso, limitando i romanzi al salotto, all’accesa discussione tra pari, impareggiabili lacchè, naturalmente impegnati per il bene di tutti. Pensa un po’: il “New Yorker” vuole attentare alla letteratura, anestetizzarla, accoltellarla alle spalle, evirarla. Ha lanciato la fatwa al genio.    

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