
Sia lode a Dada. Ovvero: contro gli avanguardisti borghesi fino al midollo
Politica culturale
Alessio Magaddino
Si può credere quantomeno impavido che una star del tennis si metta a scrivere libri, esponendosi quindi al rischio del ridicolo.
Si può giustificare la caparbietà di Andrea Petković nel non voler reprimere la propria grande passione, la letteratura, solo perché è un atleta (e ai suoi tempi migliori è stata nona nel ranking mondiale).
Oppure è possibile leggere le storie contenute in Zwischen Ruhm und Ehre liegt die Nacht, per ora solo in lingua tedesca (Tra la fama e l’onore c’è la notte, KiWi Verlag), lasciandosi catturare dalla loro forza letteraria, dal bagaglio d’esperienze che le rende vive e dalla spietatezza psicologica con cui Petković affronta la materia.
Il suo ideale non è la libertà dal dolore. L’implacabile schiettezza è uno dei suoi punti di forza. Petković non elude divagando, né come atleta, né come scrittrice. Laddove altri mascherano eufemisticamente le loro ambizioni, nel libro cerca risposte alla domanda da dove provenga la propria ambizione, come fosse qualcosa di inquietante da spiegare a se stessa.
Il primo dei racconti narrati in prima persona, Sull’infanzia, riguarda la giovane Petković, cresciuta a Darmstadt. Tutto sembra andare bene, ma c’è una sensazione di alienazione. Il padre serbo, arrivato in Germania nel 1986 insieme alla moglie bosniaca è un insegnante di tennis. All’età di sei anni anche la figlia Andrea inizia a giocare. A scuola tutto bene, ma una volta i genitori raccontano all’insegnante i capricci della figlia in campo quando qualcosa non va come vorrebbe. L’insegnante, molto preoccupata, parla ad Andrea: “Ricordo molto bene il lungo discorso della signora Müller sulla vita in generale e sul fatto che non si possa essere sempre la migliore in tutto. Avevo forse nove anni, ma ero già sicura che quella non poteva essere una cosa giusta. Si potrebbe, si dovrebbe solo volerlo con sufficiente energia. E mi dispiacque che alla signora Müller, anche se era più grande di me, non fosse stato rivelato questo segreto”.
I Petković non se la passano male, ma al liceo e al tennis club Andrea si rende conto che esistono anche altri mondi, quelli dove si vive in ville e non in villette a schiera, dove la musica e l’arte giocano un ruolo. Anche lei vuole appartenere a quel mondo, nel quale non si tratta più di sopravvivere, ma di godere la vita: “E all’improvviso, con il tennis, si è aperta una porta che mi avrebbe permesso di saltare anni di scuola, di studio e di carriera”.
In un’intervista le è stato chiesto se essere ambiziosi significhi possedere una forza di volontà superiore alla media e da cosa derivi. C’entra forse il retroterra migratorio? Per rispondere Petković ha citato “The Last Dance”, il documentario Netflix su Michael Jordan. “A un certo punto Jordan si comporta come un bambino offeso che cerca disperatamente rivali. Una volta l’allenatore di una squadra avversaria non lo saluta al ristorante perché assorto nel menù. Jordan si sente umiliato e giura di vendicarsi di lui: segnerà un numero incredibile di punti contro quella squadra. Alla fine della partita va dall’allenatore e gli chiede: ‘Perché non mi hai detto Ciao?’. E l’allenatore risponde: ‘Non mi ero nemmeno accorto che tu fossi lì’. Nella testa di Jordan è successo quel qualcosa di cui aveva bisogno per trovare il fuoco. Quando ho visto quel documentario per la prima volta ho messo in discussione il mio costrutto: forse accade semplicemente che il mio retroterra migratorio mi serva per manifestare la rabbia che ho sul campo da tennis. Dunque questo libro in qualche modo era già scritto… La cosa bella è che nessuno potrà mai dimostrare quale sia il motivo che ha generato quest’ambizione”.
Se il tennis è stato il treno in corsa afferrato per entrare rapidamente nel bel mezzo del mondo regale di Wimbledon, Andrea Petrović, la virtuosa dei due mondi, ha intrapreso un altro percorso, parallelo e più lento, come autodidatta: perché nelle ore di solitudine e di sconforto che sono parte della vita di un professionista del tennis, nelle innumerevoli stanze d’albergo, tra un torneo e l’altro, la letteratura è diventata la compagna più intima (durante il lockdown della scorsa primavera ha creato un gruppo di lettura su Instagram, il Racquet Book Club).
Ecco, Tra la fama e l’onore c’è la notte racconta anzitutto come Petković abbia visto rispecchiata la propria vita nei grandi libri scritti da Dostoevskij, da Tolstoj, da Jonathan Franzen, da David Foster Wallace (che per un certo periodo ha praticato il tennis a livello agonistico), da Roberto Bolaño. Di Bolaño, in particolare del suo ultimo romanzo, 2666, Petković si è detta entusiasta, perché causa di trasformazioni nella vita: “Per me”, ha detto, “che mi sono sempre vista al di fuori dell’élite intellettuale, la prima parte di 2666, dove si racconta di un congresso su un oscuro scrittore tedesco, è sembrata così bella perché mi ha dato l’opportunità di gettare un occhio nelle teste di quei professori, in quel mondo nel quale si parla di libri e si beve vino. Era qualcosa che avevo sempre voluto, senza potervi arrivare”.
È nel racconto Il miglior giorno di sempre che la tennista scrittrice (o scrittrice tennista) testimonia le proprie esperienze letterarie di risveglio, dà al lettore un’idea di quanto sia terrificante affrontare Andrea come avversaria sul campo da tennis. Gran parte delle persone che eccellono all’interno di un particolare sistema funzionano in modo sonnambulo, senza essere in grado di rendere conto di se stesse o degli altri che condividono quel sistema. Andrea Petković è uno dei rari casi nei quali si manifesta un doppio talento: gioca a tennis eccellendo (anche se non sarà mai una delle immortali, visto che non ha mai vinto e probabilmente non vincerà mai un torneo del Grande Slam) e insieme riesce a guardarsi dall’esterno, narrandosi attraverso la scrittura, alla ricerca del proprio fuoco.
Andrea è una scrupolosa osservatrice di sé e il fatto che non sia mai stata una grandissima giocatrice potrebbe avere qualcosa a che fare con questo. Le è stato chiesto: in letteratura l’introspezione è puro guadagno, ma aiuta anche nel tennis? “L’introspezione va bene dopo la partita. Durante la partita è fatale”. In ogni caso, è stata la scrittura a riconciliarla con se stessa come tennista: “Per molto tempo”, ha dichiarato, “ho disprezzato la mia identità di tennista, dicendomi: è solo sport! È stato scrivendo che ho capito che in sé è un miracolo. Esattamente come pensare è un miracolo”.
Vito Punzi